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vata raggiungere un’altra volta la somma di due soldi ciascuna.

Magnifico fu il pranzo, durato dalle tre alle cinque. Vi assistevano il signor curato, il dottore e due invitati giunti da Milano. Una torta di mandorle, alla quale da due giorni avevano lavorato un po’ tutti e Chiarina particolarmente sforbiciando un foglio di carta velina per metterlo sotto, coronò degnamente la mensa e venne generosamente inaffiata da un dolce vino di malvasia servito in calici lunghi del più leggiadro effetto. A fin di tavola l’allegria era generale e in mezzo al frastuono dei piatti, delle posate, delle chiacchiere, delle risa, le occupazioni di Chiariva erano andate crescendo, poichè gravava su lei tutto il peso della direzione, oltre alle piccole delicate incombenze di ritirare le maioliche fine, di contare l’argenteria e di servire il caffè.

Non fu che molto tardi, quando nessuno aveva più bisogno di lei, che Chiarina potè riprendersi. Era il premio più ambito delle sue giornate di lavoro. L’operosità non era tanto per lei un debito verso i padroni quanto un dovere verso sè stessa. È per questo che