Il romanzo della fortuna/IV
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IV.
Gli eventi maturano.
Nei bei mesi di aprile maggio e giugno nulla di nuovo accadde in casa Firmiani.
Si seminarono i fiori in giardino, si fece la conserva di ribes, si posero le ciliege nello spirito e gli abiti di lana nella canfora precisamente come tutti gli altri anni. La Mariuccia, avendo avuto il morbillo, fu levata di collegio e mandata in campagna a ristabilirsi; nè questa poteva dirsi una novità assoluta. Era un piacere maggiore per la Nonna ed anche per Chiarina che amava i fanciulli, ma chi approfittava veramente della compagnia di Mariuccia era Giovannino.
Giovannino: faccia rotonda e piccola, naso camuso, occhietti furbi. Mariuccia: assenza di carattere personale, una bambina bionda come tante altre. Ma andavano d’accordo moltissimo, perchè Giovannino aggiustava tutte le braccia e le gambe staccate delle bambole di Mariuccia e la sua abilità giunse al punto da fabbricarle una testa di legno nuova per una bambola che aveva avuto l’inconveniente di perderla.
Non si potrebbe negare che tratto tratto qualche baruffa li dividesse, perchè Giovannino, se era buono e servizievole, era però anche cocciutello e quello che si fissava lo voleva raggiungere ad ogni costo; questione di fare il greppo cinque minuti in un canto e poi tornavano amici come prima.
Qualcuno in paese mormorava che la signora Firmiani allevasse troppo bene gli orfani del tessitore. Per alcune persone i modi dolci e l’affettuosità verso i fanciulli sono errori di educazione; essi pensano che occorre gridare e battere; la signora Firmiani invece aveva una diversa opinione e la migliore riuscita coronava le sue teorie.
Il punto nero era quel Giuseppe che non era mai più tornato al paese: che solo il signor Firmiani vedeva tratto tratto a Milano e parlando del quale crollava sempre il capo. Anche a lui la signora Firmiani aveva cercato di estendere la sua benevolenza con aiuti, consigli, raccomandazioni. Collocato successivamente da un fornaio, da un tornitore, da un sarto, da un cappellaio, in nessun mestiere era riuscito.
— Quando sarò grande — diceva Giovannino — apriremo insieme una bottega.
Fare, rifare, vendere, queste idee erano già ben definite nella mente di Giovanni. Per la gran festa del villaggio, S. Anna, egli stava preparando, oltre alle sue gabbiette, una quantità d’altri balocchi copiati da quelli che Mariuccia aveva portati da Milano: banderuole, stelluccie di carta che giravano al vento, piccole scale, omini che muovevano la testa. Chiarina, messa in emulazione, lo aiutava del suo meglio: fabbricarono così fra tutti e due un teatrino con marionette vestite di seta che fu il grande successo della festa di quell’anno.
— Ecco — disse allora qualcuno in paese: — questo ragazzo che mostra di avere tanto ingegno se fosse ricco studierebbe e potrebbe diventare un grande uomo; invece fabbricherà burattini per tutta la sua vita.
Erano appunto, il giorno di S. Anna, intenti in casa Firmiani ad ammirare l’ingegnosa banchina che Giovanni stava per portare sulla piazza del villaggio (passo avanti dell’ombrello inaugurato a Pasqua) quando entrò improvvisamente Giuseppe, così improvvisamente che la Chiarina gettò un grido. Egli si era fatto alto, il più robusto e il più avvenente dei tre, vestito con una certa ricercatezza degli abiti smessi di Enzo (Chiarina li riconobbe subito) e con un cappello a cencio che egli portava sfondato sopra un occhio, in un modo che a Chiarina riuscì affatto nuovo.
— Sono venuto — disse subito Giuseppe fermandosi nel mezzo del cortile, dove aveva incontrato i suoi fratelli — a prendere la mia parte della casa.
— Ma se non è ancora venduta! — esclamò Giovanni.
— E poi — soggiunse Chiarina abbassando la voce — non so neppure se ci resterà qualche cosa, perchè i debiti di babbo erano molti e i signori Firmiani....
— Già — interruppe Giuseppe con una caricata espressione di sarcasmo — chi maneggia la roba degli altri ci vuol trovare il suo tornaconto.
Sulle prime Chiarina non comprese neppure la perfida allusione, ma afferrandola a poco a poco sulla fisionomia del fratello che si era decisa ad un aperto riso beffardo, giunse le mani inorridita ed alzò gli occhi al cielo.
— Non dubiterai dei nostri benefattori — disse serio serio Giovannino, senza scomporsi.
— Tu taci che non sai nulla.
— E tu cosa sai?
— So.... so.... che siete due asini.
Rise ancora del suo riso cattivo terminandolo con un fischio. Poi fece una giravolta sui tacchi e con un bastoncello che teneva in mano si pose a percuotere il cancello su cui rampicava leggiadramente una piantina di caprifoglio.
— Lascia, lascia; fai cadere i fiori.
— È quello che mi diverte.
Chiarina si sentiva venir meno.
— Non sei in casa tua — arrischiò.
— Già. A proposito, dammela la chiave di casa mia. Ho voglia di vederla.
— Non vieni prima a salutare la signora?
— Che signora? Non m’impiccio con signori io. Ciò è buono per voi altri due. Dammi la chiave.
Chiarina, che l’aveva sempre in tasca, mosse fuori dal cancello verso i pioppi.
— Dà a me la chiave.
— È inutile. Vengo anch’io.
— L’inutile è che debba venir tu — rispose lui, secco.
Chiarina finse di non udire.
Attraversarono il prato, passarono sotto i pioppi; giunti alla soglia ella mostrò coll’indice il cartello dell’appigionasi.
— Quanto l’hanno valutata?
— Tremila lire.
— Coi mobili?
— I mobili sono poca cosa, lo sai: forse nessuno li vorrebbe e per noi, invece, sarà tanto caro poterli conservare.
— Tremila lire, tremila lire — ripeteva Giuseppe infilando la scala del piano superiore. — E quando verranno queste tremila lire?
— Ma te l’ho detto che non sono nostre! Prima di tutto vi sono i debiti di nostro padre; poi tutti i prestiti del signor Firmiani.
— Belli i prestiti! abiti fuori d’uso e il resto del loro pranzo. Sac....
— Giuseppe, Giuseppe che dici mai? Tutta la nostra riconoscenza non basterà a saldare il debito d’amore che abbiamo verso questa buona famiglia. Ci sono, del resto, i libri che parlano chiaro...
— Oh! i libri! — ghignò Giuseppe — sono essi che mangeranno le tremila lire.
Disperando di potergli cavare una sola parola assennata, Chiarina lo seguiva dolorosamente di camera in camera. Quando furono nella camera dei loro genitori, egli si accostò al canterano e lo aperse. La fanciulla, che vedeva in questo vecchio mobile quasi l’altare dei suoi ricordi, trasalì, impercettibilmente.
— Che fai?
— Guardo. Sono padrone, mi pare!
Le sue mani corsero ruvidamente sulle camicie a smerli, sui bei fazzoletti e sul velo nero. Toccarono una scatola...
— Sono gli ori della mamma! — gridò Chiarina.
— Eh! che premura. Lascia vedere.
La aperse: sollevò la collana di granatine con tanto mal garbo che l’anello scivolò fuori e andò a perdersi in mezzo ai fazzoletti: egli non se ne accorse e Chiarina per un’inesplicabile presentimento non lo avvertì.
— Roba fuori di moda — disse lui con un certo sprezzo.
— Ma è fina. Anche il fermaglio è fino e d’oro massiccio.
— Bisognerà vedere — disse lui intascando la collana.
— Che fai Giuseppe?
— Lo dico io che ti spaventi per nulla! Penso che bisognerà vedere se è oro fino. Tu non te ne intendi.
— Ma il papà.... la mamma.... i signori Firmiani....
— Ancora? Dovrò io sempre avere fra i piedi questi signori Firmiani della malora? Cosa importa a me dei signori Firmiani Sono il maggiore dei maschi, comando io. Che hai a replicare?
— Aspetta che siano fatte le divisioni....
Giuseppe non si diede nemmeno più la briga di rispondere. Prese anche dal canterano un foulard bianco a pisellini rossi e se lo pose in tasca. Poi ridiscese le scale fischiando e dando calci un po’ qui un po’ là ai vecchi mobili.
Chiarina, inchiodata dallo stupore e dall’affanno, lo vide allontanarsi sotto i pioppi e le parve veramente che con lui fosse entrato nella casa uno spirito malefico a profanarne le soavi e malinconiche memorie. Era decisa a non parlare con nessuno di quella improvvisa apparizione di Giuseppe: ma preso un nastrino nero dal canterano di sua madre, vi infilò l’anello nuziale e se lo appese al collo, ben nascosto sotto gli abiti, non senza averlo prima baciato e ribaciato come una santa reliquia.
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In settembre il signor Firmiani, cassiere in una Banca, prese il suo mese di permesso e venne fuori con Enzo a raggiungere la famiglia. Uomo flemmatico, tranquillo, la sua presenza non alterava per nulla l’andamento usuale. Enzo sì, Enzo che aveva terminato il liceo, portava con sè quella nota meravigliosa della giovinezza che tanta luce spande e tanto calore anche a sua insaputa.
Questo, dell’insaputa, era precisamente il caso suo, perchè pochi giovani si ignorano come Enzo si ignorava; e quel suo genere di vita interna, quella timidezza, quel fondo riflessivo insieme e fantastico lo rendevano alieno dai giuochi rumorosi e dagli esercizi violenti propri della sua età. Era un solitario. Tuttavia quando scendeva in corte al mattino non rifuggiva dal salutare tutti quelli che incontrava sui suoi passi, e se pure non si fermava a discorrere colla vecchia cuciniera, costei lo seguiva con uno sguardo di compiacenza, ravvisando in lui le fattezze delicate della defunta signora Firmiani. Egli aveva poi l’abitudine di fermarsi presso al cancello per vedere chi passava e il sole che lo ravvolgeva in pieno dava risalto alla sua capigliatura ondulata, alla linea del dorso elegante e snella. Gli abitanti del paese si dicevano l’un l’altro: È venuto il signor Enzo. Che bel giovane si è fatto!
Ma vi era una persona per cui la presenza reale di Enzo dava luogo ad una visione quasi celeste. Questa persona era Chiarina.
Per Chiarina Enzo era la perfezione. Non osava guardarlo molto, ma non le era necessario guardarlo; essa lo sentiva nel passo, nella voce, e quando voltava i fogli de’ suoi libri: perfino nel silenzio delle ore pomeridiane, quando faceva la siesta nella lunga poltrona americana che da poco era venuta ad accrescere i mobili del salotto essa non lo vedeva, occupata come era in cucina o in guardaroba, ma era come se lo vedesse perchè lo aveva innanzi agli occhi preciso: i suoi capelli castani ondulati, la fronte bianca, gli occhi pensosi, la bocca breve e malinconica che mal sapeva il riso, e il suo collo; quel collo di giovane ventenne che a Chiarina sembrava dovesse odorare come una mela.
Chiarina non sapeva perchè, ma nel rifare le camere arrivava sempre ansante a quella di Enzo ed era con una cura particolare, quasi con commozione che gli rassettava il letto: la stessa commozione che le faceva toccare tremante i suoi abiti, le sue cravatte; che la faceva leggere sui suoi quaderni tre, quattro, dieci volte di seguito: Enzo Firmiani scritto con un caratterino minuto sul quale le sue dita passavano e ripassavano leggermente a guisa di carezza.
E si fermava davanti a quei fogli attratta da una specie di magnetismo. I libri che egli leggeva le destavano un interesse particolare: si provava a leggerli essa pure e comprendendo poco diveniva triste, come se una montagna improvvisa sorgesse fra lei e il suo punto di vista luminoso. Si rifaceva allora umilmente all’ufficio di spolverare, di rassettare: ma anche in tali faccende metteva tanto ardore e tanto desiderio di essergli utile che gliene veniva una gioia continuamente dolce, come un calore interno, un bisogno di espandersi, per cui cantava a mezza voce le due o tre canzoni popolari che conosceva per averle udite in paese, meravigliando la signora Firmiani la quale pensava: Canta vuol dire che è allegra.
Ma una volta Enzo, stando curvo sulla tavola a tracciare col compasso certe linee in un suo disegno e rialzandosi poi bruscamente e facendo un passo indietro per contemplarlo meglio, soddisfatto forse, cantarellò:
«Le parlate d’amor o cari fior»
e Chiarina, che stava seduta a cucire, si sentì a tali parole un fiotto di sangue urtarle il cuore così violentemente da rimanere stordita. Per tutto il giorno le parole belle e strane le ronzarono nelle orecchie, le solleticarono il labbro, echeggiarono nel suo petto folli di giovinezza e di desiderio. E più tardi, quando fu sola, si arrischiò a modularle colla voce; e nei giorni seguenti, nella camera stessa di Enzo, toccando i suoi abiti e le sue cravatte, non più pensando alle canzoni del paese, trepida e furtiva come un soffio dell’anima le varcava i labbri la frase incantevole:
«Le parlate d’amor o cari fior».