Il ritorno di Ulisse/Terzo atto

Terzo atto

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[p. 90 modifica]TERZO ATTO [p. 91 modifica]

La stessa scena la mattina dopo. E’ ancora presto, e c’è poca luce. Dal cortile, attraverso la porta chiusa, vengono a intervalli le grida dei Proci, che ogni tanto si affievoliscono e ogni tanto si fanno più rumorose. In un angolo sono distese delle pelli caprine. Ulisse sta guardando con attenzione, attraverso un’apertura della porta. Dopo un momento si ritrae con un sorriso, e si siede nella parte più buia della sala, con lo sguardo fisso nel vuoto. Passano correndo alcune ancelle, seguite dai Proci. Non si accorgono di Ulisse.

Entra un’ancella correndo. [p. 92 modifica]

TERZO ATTO

L’ANCELLA
Pisandro no!
PISANDRO

(abbracciandola)


                          Ma sí, ma sí!
L’ANCELLA
                                                      No, basta!
PISANDRO
Non sono sazio! Non sarò mai sazio!

(riescono dalla p. i.)


(entra un’altra coppia)


L’ANCELLA
Fermo! La gara è incominciata! Andiamo
fuori a vedere. Fa piano! Fa piano!

(escono, si spalanca la porta, entra una folata di luce grigia, c’è un cielo dolce che ha la tinta del gabbreto. E si vedono i Proci aggruppati intorno ai dodici anelli messi di fronte alla porta, perpendicolarmente)


LA VOCE DEI PROCI
— Che Giove mandi all’altro mondo Ulisse!
— E l’arco! — E i dodici anelli! — Per Giove,

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tira!... Ma tira! — E’ dall’alba che miri!
— Vo’ ritirare! — Tocca a me! — Ma lévati di li, tarpano! —

(entra Melanto, che cautamente apre la porta e va a richiudere quella sul cortile. Il vocio si fa più fioco)


                            Sono già tutti fuori,
Vien pure avanti, o capraro Melanzio!

(entra)


MELANZIO

(il capraio)


Eurimaco non c’è?
MELANTO
                                     L’ho rimandato
via, questa mane — ha digrumato un poco
della mia carne — e gli farà del bene!
MELANZIO

(abbracciandola)


Sí! Per gli dei! Gli farà bene! Un comodo
ganzo! Non io mi lascerei gabbare
come si lascia Eurimaco gabbare!
MELANTO
Ma chi li gabba tutti è la regina!
Melanzio! Di’... ma noi non siamo soli...
MELANZIO
Qualcuno c’è!... Quel mendicante pazzo!
Sarà rimasto ad adocchiar le ancelle!
MELANTO

(furiosa)


Tutte le zecche vuoi levarti in questa

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casa, o vecchiardo, e vuoi covarci il vino
che hai tracannato, sino alla tua morte?
ULISSE

(alzandosi)


Dovresti rispettar la mia vecchiezza,
e la sfortuna ed i malanni, ancella!
Te pure i mali curveranno, un giorno.
MELANTO
Vecchio, la pancia e il senno tuo son pieni
di vino come nell’autunno i tini.
Ruttali tutti! E perchè non chiedesti
il tetto a un fabbro, e non ti sei disteso
come i tuoi pari, sotto l’alte logge?
Ti credi eroe per la vittoria d’Iro?
Bada che un altro non ti cacci fuori,
lordo di sangue e con il naso rotto!
MELANZIO
I Proci già t’han tirato sgabelli!
Che aspetti ancora sgabellate e pugni?
Ah! Maledetto il conduttor dei porci
che ci conduce i suoi pitocchi, e il figlio
del morto Re che li ricetta in casa!
ULISSE
O belle figlie dell’Egioco, Ninfe,
Naiadi, se il mio Re v’arse giammai
tenere carni di silvestri agnelli,
fatemi in grazia che ritorni, e un Nume
la via gli mostri. E non avreste più
quella superbia sulle ardite ciglia!

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MELANZIO
Che latri, cane carico di zecche?
Zitto, o ti imbarcherò sopra una nave
lungi dalla serena Itaca, e schiavo
ti venderò, con un piccolo guadagno!
Cosí il Dio del sonante arco d’argento
Telemaco uccidesse, o massacrato
fosse dai Proci, come ad Odisseo
non sorgerà della tornata il giorno!
Dormi tranquillo, e fa beati sogni!

(gli dà un calcio)


MELANTO
Andiamo via!

(escono)


ULISSE

(solo)


                       Sanguina a tutti i mali,
o grande cuore. Hai conosciuto il mondo
e gli uomini del mare e della terra,
e i morti t’hanno detto il tuo futuro,
e a te soltanto il mistero universo
hanno cantato le sirene azzurre.
Hai riso al riso della morte, e pianto
al pianto della vita, unico cuore.
Forse credevi aver sofferto in tutte
le sofferenze: ora l’hai visto, o cuore,
c’è ancora un male per cui non hai pianto!

(entrano Penelope, due ancelle che recano un bacile d’acqua ed Euriclea)


PENELOPE
Vengo a parlar d’Ulisse, o forestiero.

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Ma innanzi tutto vo’ farti lavare
gli stanchi piedi dalle svelte ancelle,
con liquid’olio unger la pelle, e aulente
nardo cosparger sulle chiome, e belle
vesti donarti.
ULISSE
                         Oh! non far ciò, regina.
Io non ambisco più leggiadre vesti.
Nessuna donna toccherà il mio piede
se non è qualche annosa e onesta vecchia
che al par di me sofferto abbia a’ suoi giorni.
PENELOPE
Via, fedele Euriclea, sorgi, e a chi d’anni
pareggia il tuo signore, i piedi lava.
Torno quando sei pronto!
EURICLEA
                                              Oh! Volentieri
ti lavo i piedi, perchè sei diverso
dagli altri vecchi e dagli altri pitocchi.
E sono tutta sottosopra quando
mi stai vicino e non capisco bene
perchè gli dei mi diano questo affanno!

(Penelope e le due ancelle escono e la nutrice comincia a lavare i piedi a Ulisse)


No, vecchio, no! Tu non sei come gli altri!
ULISSE

(inquieto)


Balia, che pensi? Non capisco bene!
EURICLEA
Non penso niente, ma osservo le cose

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intorno a me, con attenzione, e sempre
me le ricordo e ne faccio tesoro...
Ieri t’ho visto col porcaro andare
verso la reggia per la grande strada.
Presso la porta c’è una barca d’arido
fimo cosparso di seccure. E il vecchio
cane d’Ulisse, ch’era un forte cane
e nella caccia il più veloce, ai suoi
tempi, Argo, dico, Argo, malato e zeppo
di parassiti, e con l’orecchia giù,
che gli marciva, e con le occhiaie liquide
di lungo pianto e senza vista, il povero
Argo che tutti legnavano, quando
scodinzolando si ravvicinava,
e da dieci anni giaceva sul fimo,
Argo si mosse, ti guardò coi morti
occhi, balzò, scosse la coda e quando
gli fosti presso, guaiolando cadde
morto sul fimo. E io pensai: che strano
ospite è questo per cui muore un cane,
e solo un cane riconosce!
ULISSE

(commosso)


                                               O buona
nutrice, il cane l’ho veduto quando
ero bambino e son passato in Itaca...
EURICLEA
Io so un segreto che nessuno sa.
Ulisse aveva un segno nella coscia
fatto dal dente di un cinghiale!

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ULISSE
                                                       E come
te lo ricordi e perchè me lo dici?
EURICLEA
Dammi, straniero, dammi l’altra gamba,
ch’io te la lavi!
ULISSE
                              Oh! lascia pure, sei
vecchia, riposa. Ben conosco i mali
della vecchiezza e non voglio stancarti.
EURICLEA

(prendendo l’altra gamba)


Non sono stanca, no...
ULISSE

(facendo un movimento brusco)


Lascia, nutrice!

(Euriclea si ferma, alza la testa e lo guarda con sospetto. In quel momento rientra)


PENELOPE
L’hai già lavato? E allora va’, nutrice!

(Euriclea a malincuore, esce. Si sentono muggire, lontani, i segni dell’imminente tempesta)


Ora non sei più stanco, o forestiero.
C’è vento fuori, e si sta bene in casa.
Dolce è parlare dei passati mali.
I’arlami, o vecchio, d’Odisseo, di quando
tu lo vedesti con i suoi compagni;
dimmene il nome e quanti sono ancora,

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ULISSE
Più di cinqu'anni fa lo vidi a Creta,
e i miei ricordi sono come nebbia.
Ulisse aveva, mi sembrò, un mantello
di porpora, e sul petto uno scolpito
fermaglio d’oro; e una sottile tunica
più trasparente che la secca spoglia
della cipolla. Ma non so se in Itaca
li avesse indosso. O se gli furon dati
durante il viaggio.
PENELOPE

(commossa)


                             Oh! tu non hai mentito!
Io stessa gli portai nella secreta
stanza le vesti e gli cucii sul manto
la doppia fibbia chiara come il sole.
E i suoi compagni?
ULISSE
                                  Ricordo un araldo
che si chiamava Euribate e di solito
l’accompagnava, alto di spalle e grosso,
nero di pelle ed i capelli crespi!
PENELOPE
Lascia ch’io pianga! Hai detto il vero. E come
compenserò questa notizia? E queste
lagrime dolci di speranza? E questo
tanto affannoso e caro ricordare?
ULISSE
Il ricordare è sempre lieto e triste.
Ma asciuga le tue lagrime, regina,

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io te ne avverto: egli farà ritorno
alla sua casa!
PENELOPE
                           Oh! Non lo spero più!
Ma non so più se spero o se dispero!
Se dicono che è morto, «E’ vivo» penso;
se dicono ch’è vivo, «E’ morto» penso.
Fammi persuasa!
ULISSE
                               E se ti comparisse
tutto ad un tratto, cosí, come un dio,
come una volta, in quella porta e lenta-
mente venisse incontro a te, con gli occhi
negli occhi tuoi, lo riconosceresti?
PENELOPE
Ah! Se dinnanzi mi apparisse, vecchio
e mal ridotto e malvestito e scarno
e bianco e sconcio come te, negli occhi
e nel sorriso io rivedrei l’eroe.
ULISSE
No, mia regina! Io ben lo so, negli occhi
non vedi niente!
PENELOPE
                               E che dici?
ULISSE

(alzandosi)


                                                       Non vedi
niente, regina! O sotto il mio dolore
e la miseria che mi copre come

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lebbra, o mia donna, indovinato avresti
che c’era il resto dell’Eroe di Troia!
PENELOPE
Ulisse, tu?
ULISSE
                 Son’io l’Eroe, partito
biondo e gagliardo, e come un dio, che torna
a casa vecchio e come un mendicante
senza vergogna!
PENELOPE
                          Ulisse, tu?
ULISSE
                                                    Son’io
quello che intorno all’olivo contorto
si architettò la stanza maritale,
e nell’olivo fece il letto, e varia-
mente lo sculse e vi intarsiò l’argento,
l’avorio e l’oro, e di taurine pelli
lo ricoperse, porporate.
PENELOPE

(singhiozzando)


                                      Ulisse!
Tu sei Ulisse!

(fa per abbracciarlo, ma Ulisse la ferma)


ULISSE
                         Non voglio forzarti,
donna, a baciarmi, vecchio e sconcio, come
sono! Negli occhi t’ho letto il disgusto!

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E scegli dunque uno dei Proci, e suggine
tutto il piacere di cui bruci! Oh! meglio
se fossi morto nel mio lungo viaggio!
Ed ora forse dormirei sul greto
di qualche mare, e sulla prodicella
verde la quïeta battuta dell’onde
mi bacerebbe con la fresca bocca.
O giacerei disteso in un fenùle
in mezzo al paleuccio e al filucchio
guardando il cielo e ripensando al mare!
PENELOPE
Ulisse!
ULISSE
               E tu? Sei stata pura in mezzo
ai Proci, sempre, come una colomba
fra gli avvoltoi? Non hai ceduto niente
di te, rispondi! E a nessuno?
PENELOPE
                                                       Crudele
sei tu! Perchè vuoi dubitare! I Proci
non m’hanno tocca. E non so come ho fatto.
L’istinto mi guidò! Credimi, Ulisse!
Ho messo tutto il mio volere, e il mio
ingegno e i miei accorgimenti, in questa
opera, e pura son rimasta, è intatto
il nostro letto. Ma Dulichio e Samo
ed Itaca e Zacinto e Tracia, e tutte
le dolci terre di Grecia, han figliato
uomini nati per la mia sventura!
LE VOCI DEI PROCI
Nemmeno tu! — Nemmeno tu li hai fatti,

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Antinoo! — Tira un’altra volta! — Ancora! —
Un’altra volta voglio tirar io!

(le voci si abbassano)


ULISSE

(indicando la corte)


T’eri decisa al matrimonio!
PENELOPE
                                                 Ulisse,
hai visto i Proci! Erano come belve,
e non sapevo più come domarli!

(Ulisse scuote la testa. E allora Penelope prorompe disperatamente, piangendo)


Perchè vuoi farmi singhiozzare, Ulisse?
Io t’amo ancora! Anche cosí! E se fossi
più malridotto t’amerei di più,
sempre di più! La commozione, un groppo
mi stringe ed io non so più dire! E tante
erano le cose da narrarti al tuo
ritorno, quando lo vedevo in sogno!
Ed ora non so più... La nostra grande
arca di cedro ove ponevo i bei
monili, sai? quelli che mi donavi,
è sempre là, vicino al letto, e sopra
il focolare nella nostra stanza
c’è, per gli unguenti, l’anfora d’argento.
E quando il timo e la ginestra in fiore
nascevano nei prati di mentastro,
ne componevo un’anfora novella,
come una volta. E allineate, aspettano
te, sul camino, da vent’anni! E pende
al capezzale la tua spada, lucida

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come un laghetto: chè la strofinavo
ogni mattina! Ma non ho potuto
salvare il cane, e i Proci l’hanno maletrattato, e i Proci hanno divelto il pino
che tu piantasti quando il figlio nacque,
e la cerchiata di cipressi ombrosi,
che andava al mare! Ulisse! Ulisse! Io sono
ancora, sempre, la tua donna, e i tuoi
mali non vedo e sotto i loschi panni
vedo l’eroe, vedo il mio amante, il biondo
forte guerriero che il destino ha tratto
nel gorgo fondo della guerra, e tanto
pianto ha lasciato nella vuota casa!

(casca ai suoi piedi e gli abbraccia le ginocchia)


ULISSE

(la rialza e la bacia)


Sí, m’ami ancora, anche cosí! Oh infinita
speranza! Il cuore mi brucia! La forza
è ritornata. Oh! dammi l’arco! E i Proci
solo castigherò, senza un aiuto!
Apri la porta e chiama i morituri!
PENELOPE

(va alla porta e la spalanca)


Proci, venite a riposarvi!

(entrano alla spicciolata i Proci con Telemaco, Eumeo e Femio. La tempesta si gonfia)


ANTINOO

(posando l’arco d’Ulisse)


                                              Entriamo!
Eccoti l’arco e per gli dei ti giuro

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che t’avró senza gareggiar di frecce!
Dodici anelli son troppi!
EURIMACO
                                             E riprenditi
l’arco e non farlo più vedere al sole!
Per aver te non ho bisogno d’archi!
PROCI
Basta con l’arco! — E con le gare!
ANTINOO
                                                                  Intanto
bella regina ti do il grato annunzio
che Polibo è già morto e sotterrato!
UN ALTRO
Secondo me, Polibo l’ha nel cuore!
CTESIPPO
Se avesse visto quando l’hanno ucciso!
ANTINOO

(sghignazzando)


E’ stramazzato come una pollastra!
EURIMACO
Ma siamo stufi!
UN ALTRO
                           Se un giovane crepa
tutte le sere...
EURIMACO
                      Si farà un carnaio!
Un cimitero si dovrà fondare!

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ULISSE
E ci sarà, non dubitate!
ANTINOO
                                        Oh! Il vecchio
di ieri sera!
UN ALTRO
                    Ancora qui!
TELEMACO
                                              E ci resta
per quanto tempo pare a me, mangiando
a tavola con noi, Proci! E badate
d’esser cortesi, e di pensar che questa
non è la casa vostra e non potete
tiranneggiare, e non son più bambino!
ANTINOO
Avete udito che superbia?
EURIMACO
                                                  Il pollo
si fa galletto!
CTESIPPO
                         Hai detto bene! Io sono
tanto cortese che gli laverò
la nera faccia e lo farò più giovane!

(prende una coppa che serve per lavare le mani, e gli rovescia addosso l’acqua, ma Ulisse con un sorriso la scansa)


TELEMACO
T’è andata bene che non l’abbi preso,
se no per acqua avrei pagato pugni!

[p. 107 modifica]

EURIMACO
Basta! Lo vedi anche da te, Penelope!
Non si può più vivere in pace!
ANTINOO
                                                            Sceglì
uno dei Proci!
EURIMACO
                         Scegli me!
UN ALTRO
                                                   No, scegli
me!
ANTINOO
       Qualcheduno! E che la sia finita!
TUTTI I PROCI
— Voglio le nozze! — Siamo tutti affranti
dal desiderio! — Sono già tre anni!
— E questo è il quarto! — E ci hai delusi sempre!
— E il pollastrino si fa già galletto.
— Scegli! — O se no ti prenderemo a forza!
Qui chi comanda siamo noi! Padroni
siamo di tutto — figlio, casa e donna!
— Se ci talenta d’averla polluta,
nessuno, qui, ci impedirà!
PENELOPE
                                               V’ho dato
l’arco e le frecce!
ANTINOO
                              Ma non è possibile!
Nessuno mai potrà riuscire al gioco!

[p. 108 modifica]

EURIMACO
Dodici anelli? Ti par cosa facile!
ULISSE
Dodici anelli? E non sapete fare
un gioco da bambini?
CTESIPPO
                                       O parolaio,
cinguetti a vuoto come un passerotto!
ULISSE
Datemi l’arco!
TUTTI

(scoppiano a ridere)


                       Il mendicante! — Il pugno
d’Iro gli ha fatto mettere superbia!
— Chi lo domanda? — E che speri, ulceroso
cane vagante? — Vuoi sposar Penelope? —
— Ti salta il ticchio di dormir con lei?
— Vecchio, ti giuro che ha le carni morbide!
— Ah! Ah! Sei vecchio! Troppo vecchio! — E
                                                                       [ vuole
riuscire là dove non siam riusciti!
— Dategli l’arco! — Ma se manca il colpo
ti bastoniamo! — E ti mettiamo ignudo
sopra un somaro! E ti si manda a giro
per la contrada! E ti si fa marciare
a piedi scalzi sul galestro!
ULISSE
                                                Datemi

l’arco!

(gli danno l’arco e la faretra)


O mia Dea, fammi come una volta,

[p. 109 modifica]

giovine e forte e con l’acuto colpo,
che mai non falla; e il mio petto difendi
da tutti i dardi, ora che aleggia in questa
casa la morte, starnazzando l’ali!

(poi alza l’arco, lo tende; mira e scocca. La freccia è passata)


I PROCI

(stupefatti)


— Ora le Achee ci piglieranno a gabbo!
Di’! Anfimedonte! E chi sarà costui?
ULISSE

(è avviluppato in un raggio luminoso dall’alto. E da quel bagno di emanazione divina riesce giovane e biondo nella corazza fiammante. Ha gettato la veste cenciosa e grida con voce potente)


Son io, vigliacchi! E c’è con me la Morte!
Non pensavate che Odisseo sarebbe
tornato, cani, e avete messo a sacco
il mio dominio, e vi siete commisti
con le mie ancelle, e volevate unirvi
con la mia donna, e v’unirete’a Morte
soltanto! Ah! Proci! Siete voi che fate
leggi, qui dentro? E nelle vostre mani
son donna e figlio e casa e buoi? Ma i vini
e i rossi lombi e le sgozzate bestie
vi schizzeranno fuori dalla bocca,
e voi cascando invocherete pace
invano, o Proci, chè pei predatori
non c’è più scampo!

[p. 110 modifica]

(I Proci hanno fatto alla rivelazione, un urlo di terrore. E gli altri un grido dì gioia. Alcune ancelle arrivano, impressionate, e si stringono a Penelope)


ANTINOO
                                    O maledetto! È’ inutile
che berci tanto! Hai fatto male, Ulisse
a ritornare. E ti rimanderemo
più in là di Troia.
CTESIPPO
                             E ti faremo putrida
carogna! All’armi; giovani gagliardi!
ANTINOO
Alla corte! Alla corte ove son l'armi!

(corrono fuori tumultuando)


ULISSE
Datemi l’elmo! Un dio lo fece. E Ulisse
ritornerà l’invitto Eroe di Troia!

(Penelope corre alla parete, ne stacca l’elmo, e lo porta a Ulisse. Egli lo mette, e vola sulla scala)


I PROCI

(di fuori)


Muori, Odisseo!

(Telemaco ed Eumeo fanno per correre in aiuto di Ulisse, ma l’eroe li ferma con un gesto)


ULISSE
                              No! vincerò da solo!

[p. 111 modifica]

(E’ sull’alto della scala, di tre quarti, nella porta. Da una parte stanno le ancelle e Penelope, trepidanti, dall’altra Eumeo, Femio e Telemaco. Si vedono passare a tratti correndo e gridando, i Proci frenetici. L’eroe scocca, e ad ogni freccia risponderà un urlo e un tonfo sordo)


ANTINOO
M’ha ucciso!
UNA VOCE
                         Aiuto! Abbi pietà!

(delle frecce gli sibilano intorno, senza colpirlo)


ULISSE

(scoccando)


                                                          Vigliacchi!
Ora tremate! E siete stati come
le ronzamore attanagliate a un frutto!
Ma per un regno non darò una vita!
Proci, fuggite o combattete!
EURIMACO
                                                        Addosso
coi ferri in pugno, e scanniamolo, Proci!

(si avventa, ma una freccia lo colpisce e cade riverso)


ULISSE

(scoccando)


Non verrò più nel tuo podere a fare
in mezzo ai rami lo spaventa passeri!

(ronzano altre frecce)

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I PROCI
Eurito, scocca! — Ora gli sei vicino!
Lisandro è morto! — Anfimedonte è morto!
ULISSE

(scoccando)


Saprà d’amaro questa freccia al tuo
palato, Eurito! E a te Ctesippo, il grugno
voglio lavarti col tuo sangue caldo!
Più giovane sarai!

(un urlo)


I PROCI
                                  Scocca! Alla pancia! —
Tira ed allenta! — Lascia vuoto il passo!

(sciami di frecce)


— Addosso! — Il vento le distoglie! — E’ un dio
che lo difende! — Siamo ancora in pochi!

(un’altra ventata di frecce)


ULISSE

(scoccando)


Digrigna i denti, uragano! I miei dardi
son troppo forti e non si fan piegare!
C’è la tempesta, e mugge la bufera
sui vostri capi ed il furor dei numi, vigliacchi, vi stritolerà col fuoco!

(scoppia un fulmine nella corte, e i Proci urlando per il terrore corrono qua e là sotto la tempesta, e si accasciano, esangui, sui basamenti quadrati delle colonne. Sono ormai pochi. L’eroe allora gettando l’arco sfodera la spada e si avventa sui miserabili

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come, a primavera, l’assillo sopra un branco di giovenche pascenti)


(voci confuse)


— T’ho preso! — I numi! — Vogliono che muoia!
— Oh! I tuoi capelli come sono biondi!
— Aiuto! — Grazia! — Non mi far morire!

(si vede Ulisse che ogni tanto ripassa sulla porta inseguendo i nemici fuggenti. E ne afferra uno pei capelli, e ne prostra un altro con un colpo violento. E uno cerca di scappare nell’atrio nascondendosi dietro i piedistalli corinzi, ma è ripreso sulla porta da un pugno di ferro, e la spada lo sbatte al suolo. E la tempesta è tremenda, nel cielo, e mugge il libeccio attraverso le colonne. Sono ormai tutti finiti. I corpi, nella corte, giacciono bocconi e riversi, con ancora la bocca aperta al grido. E Ulisse discende la scala e casca, sfinito, sopra un giaciglio. E corre allora alle sue ginocchia il cantore Femio, gettando la cetra)


FEMIO
Ulisse! Grazia! Mi prostro ai tuoi
ginocchi, qui: forse, in futuro, il povero
cantore ucciso ti sarà rimorso.
Sono un poeta: e per il mondo canto,
uomini e dei. Canto la terra e il cielo,
ho appreso l’arte come un’ape impara

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a fare il miele, e un Dio mi getta i germi
d’ogni canzone. E a mala voglia in casa
tua poetai, chè giovani gagliardi
m’han trascinato. E ti vorrò cantare
le più belle armonie della mia cetra.
ULISSE
Alzati Femio. Tu raccogli il fiore
delle armonie dall’universo andare,
e il cor ti batte al ritmo della terra.
Ti grazio come il cacciatore al nido
dell’usignolo non ha più coraggio,
tacito ascolta e se ne va piangendo.
TELEMACO

(andando al padre)


Babbo, ora il nome tuo posso gridare!
Ho ricordato, in quel momento, un giorno
lontano, quando ero con te, fanciullo!
Sei stato come ti vedevo in sogno!
ULISSE
Lasciami, figlio mio. Son tanto stanco!
Va’ con le ancelle e con Eumeo, la corte
fa ripulire e sotterrare i morti.
EUMEO
O mio padrone...
ULISSE
                              Taci, Eumeo! La gioia
frena! Non bello è millantar sui morti!

(le ancelle, Telemaco, Femio ed Eumeo, escono. Ulisse tace e rimane immobile, un momento. Poi si alza, apre l’arca

[p. 115 modifica]

e ne trae fuori il remo, che va ad appendere sul focolare, con gesti solenni, come facendo un rito. E lo contempla un momento, rischiarandosi in faccia e poi di nuovo torvo e triste)


ULISSE
Sono arrivato! Ho la mia donna! E morti
sono i nemici! Vent’anni che agogno
questo momento! E perchè mai non brucio
di gioia? E piango? E singhiozzo? Ma cosa
penso? Odisseo! Guarda! Sei nella casa
dove hai passato i più begli anni! E solo
padrone sei! Perchè non baci il suolo
come hai baciato la tua terra al primo
arrivo? E’ troppa la tua gioia? O strana
tristezza! E tu! Remo ben fatto, il solo
che sia tornato con il suo padrone,
penderai sopra il quieto focolare,
diverrai nero e odorerai di fumo,
tu, che hai saputo il salso odor dei flutti!
Ho navigato insieme a te, sul mare,
come sul corso della vita. E strenuamente ho lottato una battaglia eterna
come una vita. E tante cose abbiamo
visto! E beffato i flutti scatenati,
ridendo in mezzo alla sciacquio dell’onde,
ridendo sotto i colpi di Ciclope,
ridendo agli incantesimi di Circe,
e alle Sirene dal fatale canto,
ed alle branche dell’orrenda Scilla,
ridendo sempre; o ben costrutto remo,

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pensando solo al faticato arrivo,
ridendo sempre!... Ed ora sto piangendo!

(si siede, come schiacciato da un peso. E Penelope, dolcemente, senza parlare, si stringe all’Eroe triste, per lenire il suo male, con un po’ d’amore. E lo accarezza come una che comprende il suo dolore incomprensibile. Anche la tempesta sta frenando il suo lungo singhiozzo lontano)


PENELOPE
Ulisse, piangi e appoggiati sul mio
petto! Fa bene dopo tanto riso
piangere come un timido bambino.
Tu sei l’Eroe navigatore, e il tuo
destino è andare, andare sempre, e mai
giungere. Hai pieno di travaglio il cuore,
perchè non puoi capire il tuo soffrire
e vuoi godere. Oh! non cercar la gioia,
chè questo affanno ti fa ancor più triste.
ULISSE
Parla cosí, parlami sempre. E’ tanto
dolce per me d’essere consolato,
come se fossi un timido bambino.
PENELOPE
Ma verrà un giorno — giaceremo innanzi
al focolare, fra gli alari — e il vento
verrà dal mare, e l’uragano sopra
la casa andrà come per rovesciarla,
e tu racconterai della funesta
Troia, stringendo sempre più la tua

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donna, e sul muro, tra le labili ombre
fatte dal fuoco, passeranno l’ombre
de’ tuoi ricordi, e tenderai la palma
stesa alla fiamma e riderai del vento,
staccando dalla cappa il remo antico,
nero di fumo e pien di ragnatele
e pure ancor ricco di sale, e allora
non udrai più le disperate schiume
che offron le braccia all’amatore stanco,
nè il grido delle gru, nè il vento australe,
che sa di mare, e dopo tante pene
nel cuore tuo rinascerà la gioia.

(gli passa delicatamente una mano sui capelli, e Ulisse si impregna, tacito, di quella dolce malinconia, e vede con un sospiro il quadro della sua vita passata, e cerca, vicino alla donna amorosa, di non più pensare).



Agosto-Settembre 1921.




FINE DELLA TRAGEDIA