Atto V

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Atto IV Nota

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ATTO V

SCENA I

Messer Cesare solo.

Dove m’anelerò io a nascondere, che io non sia veduto né sentito d’alcuno, tanto che, sfogando il dolor dell’anima, possa lamentarmi della sciocchezza mia? Che mi vale l’esser stato prudente ed accorto tutto il rimanente della mia vita, se, allora che più mi bisognava sapere, ho saputo meno? O Valerio, perché non feci io stima delle tue buone e savie parole? che ora io non mi vedrei a cosi doloroso passo. Guarda come bene, ad un tempo, il figliuolo, la figliuola, la fante e quel ladro e traditor parasito m’hanno parimente assassinato! Misero! Ma tutto è nulla rispetto al gran fallo di Camilla. Di qui si move il coltello che in breve m’uccidarà. Che di Flamminio, come che l’offesa a me fatta sia grande, avendomi egli tolto quasi di mano i frutti del mio, male per me in questa età sentito, amore, tuttavia v’è in ciò questo di bene, che quella giovene, benché ella sia figliuola di povera madre, pure è gentildonna. Onde, se è vero che egli se l’abbia presa per moglie, questo non fia di vergogna. Quanto a me, che cosi n’era inamorato, essendo padre, non posso non perdonargli ciascuna ingiuria, potendo I levarsi in pie l’onore. Ma io, a che modo coprirò io il biasimo, il danno, lo estremo vituperio che me ne aviene di Camilla, essendo ella fugita con uno che forse se la terrà per concubina e, poi che ne sarà ben sazio, ne la lascerà ir di male, come si vede avenir delle altre? E, posto che egli la si sposasse, che fia per ciò? essendo costui, come io posso comprender, plebeo [p. 281 modifica]e non altro che famiglio d’un cardinale. Ahi misero me e veramente misero! Che partito posso io prendere che mi giovi da nissuna parte? Ahi tristo e scelerato parasito! Tu solo sei stato la cagione d’ogni mia ruina. Ma io ti darò bene, a tempo, il pagamento e il premio che si conviene ai traditori.

SCENA II

Pedante, Messer Cesare.

Pedante. Se io non prendo errore, se io non sono decepto dalla vista che non molto discerne a lunge, colui che passeggia lungo quella via mi pare il padre di Flamminio a cui hanno fatto lo indignum facinus. Onde, perché il cardinale, al qunle mi condusse il piacevole adolescentulo, mi manda a lui per componere insieme e riducere in porto queste turbulenti discordie presenti e future, io premedito nella mente di fargli, prima che io venga a questo, un molto salubre e dotto preambulo per captar benivolenzia et etiam per estinguer la bile la quale penso che ora gli circondi le precordie. Giá l’ho tutto nell’intelletto. Ma voglio salutarlo, prima. Salve plurimum, domine mi honorande. Il dolore deve offuscare i sensi organici onde nasce lo audito: non m’ha inteso. Un’altra fiata. Domine mi colendissime, tibi plurimam salutem impertio.

Messer Cesare. Ecco il precettore del mio figliuolo. Messere, male hanno insegnato i vostri precetti a Flamminio mio la strada del ben vivere. Poco profitto gli hanno reso.

Pedante. Non fu colpa del grano che io vi seminai né del terreno che ricevè il seme; ma dei turbini solamente con che l’hanno guasto le pessime persuasioni del parasito e degli uomini flagiziosi che egli cosí volontieri auscultava detraendo alla integerrima vita del suo preceptore. Et nuper mi fece una insolente risposta. Ma, perché quel che è fatto non si può disfare, cioè il matrimonio, de quo la Scrittura sacra parla, necesse est che il dolore succomba alla prudenzia. [p. 282 modifica]

Messer Cesare. Per insino a voi è nota una parte delle mie miserie?

Pedante. Come? Tutte; che iam rumor est.

Messer Cesare. È possibile che cosí tosto sia sparso il íbrido di questo fatto per Roma?

Pedante. « Fama mali vel malum quo non velocius ullum mobilitate viget, etc.», il divino Marone nel quarto della Eneida. Quamquam, questa sará una salubre opera, come vi dirò appresso. Verum voi devete saper che Deus et natura nihil agunt frustra; e non si muove, in questa machina mondiale, fronda d’arboro che non sia hoc di voler del trino et uno qui habitat in coelis. Et, se in tutte le cose, come non si può negare, egli mette la sua mano, quanto maggiormente è da creder che esso la metta nel matrimonio il quale, e nella Scrittura vecchia e nella nuova, expresse et approbò? Ornino in questo luogo le exposizioni d’Augustino, non parlo di Ieronimo, trapasso tanti sacrosanti teologi; e, per approbazione di ciò che io vi parlo, v’appongo e prepongo dinanzi gli occhi, come limpido e chiaro speculo, questo exempio solamente. Il quale è che Dominus Deus, mentre calcava questo fetido terreno sotto il velo della uma/iitá...

Messer Cesare. Troppo lunga diceria ha incominciato costui.

Pedante. ... il primo miracolo che egli volse dimostrare si fu alle nozze, quando fece di acqua vino.

Messer Cesare. Lontano conforto a’ miei dolori. Che prò è a me ch’egli facesse d’acqua vino?

Pedante. Piano! Audite. Hinc est che, questa notte, ha permesso Sua Celsitudine che avènissero gli scandali che avenuti sono non propter aliud che affine che ne derivasse il bene del matrimonio tra Flamminio e Livia e tra Camilla e il gentiluomo del cardinale.

Messer Cesare. Poteva Domenedio concedermi che io avessi maritato l’uno e l’altra piú degnamente e in piú nobile e ricco parentado; e sarebbene uscito il bene del matrimonio né piú né meno.

Pedante. Non oportet che la caliginosa ignoranzia dell’uomo abbia a imponer legge alla divina sapienzia. Ideo la suprema [p. 283 modifica]bontá institui che, nella orazione della dominica, che ella fece al padre solo perché noi ne fossimo gli operatori, si dicesse: «Fiat voluntas tua». Volse etiam che si dicesse: «Sia fatta la tua voluntá» perché noi ignoriamo quello che ci bisogna e possiamo domandargli prò bono ciò che è sommo male. Nec obstat il «petite» che dice il Vangelo; perché ipse sol iustitiae intese di cose oneste.

Messer Cesare. Voi pensate scoparmi affatto con questa vostra predica.

Pedante. Auscultate con pazienzia, caro, caro e preclaro messer Cesare; e sentirete, nel fine, quanto frutto all’anima e al corpo consolazione porteranno le mie parole. La conclusione è che quello che è fatto non è stato senza misterio divino.

Messer Cesare. Non credo mai che Domenedio s’abbia impacciato in questo.

Pedante. Oppinione erronea resecandaque con la medicina della veritá. E, circa alla figliuola, di cui penso che piú sentiate affanno per essersi ella copulata ad uomo, come voi existimate, di genere ignobile et extero, io vi rispondo che areste un gran torto a non vi dimostrare contento di questo matrimonio; perché, lassando io le altre speculative ragioni da parte, quel giovane e nobile e d’antiqua prosapia ex semine d’una sorella del cardinale. E, se ben non è italo, si trova bene extra Italiani persone nobili e virtuose. E, quantunque io avessi aliquando altra opinione, e maxime circa gli ispani, pure, conoscendola mala, holla eradicata del tutto, quoniam, imperché «sapientis est mutare propositum».

Messer Cesare. Se costui è nobile, come dite, e nipote di quel cardinale, non mi terrò in tutto a vergogna lo error commesso da Camilla.

Pedante. Ita se res habent. E non fu errore; immo, non mediocre sapienzia infusa da Dio nel cerebro della puella. E, benché ella non doveva ciò fare senza consentimento del padre, pure, come ho detto, fu voler dell’Omnipotens. E, perché intendiate il fine del mio sermone, esso illustrissimo cardinale, Sua reverendissima Signoria hammi mandato a voi, quasi [p. 284 modifica]mediatore della santa pace. Et acciò che di questa cosa non ve ne abbiate a dolere, anzi acciò che possiate starne sempre allegro, sua intenzione è di dare a Camilla, vice vestra, la dote con somma di ducati diecimila d’oro, che se ne potrebbe contentare quasi un dux Ferrariae.

Messer Cesare. Signore, fa’ che tutto questo sia vero e ti benedirò sempre.

Pedante. È come il Credo. Praeterea vuole il prefato cardinale che, presente a voi, se le abbia a dar la mano e che non ne sia nulla senza il voler vostro. E vi so certare che quel Carolus patritius non habuit fin qui rem cum ea.

Messer Cesare. Dirò il vero. Se io fossi ora a far questo parentado, cioè quando altro non vi fosse avenuto, forse che io ci pensarei alquanto. Ma, poi che gli è pur cosi, non si potendo trovare rimedio, m’appiglierò al minor male. E tutta volta io ringraziarò Iddio ed uscirò fuori d’un gran fastidio.

Pedante. Prudentemente avete risposto. E, quando per voi si sará cogitato meglio, trovarete ancora che non areste saputo domandar cosa piú congrua al bene della figliuola e vostro. Or, circa a Flamminio...

Messer Cesare. Di questo non ne parlate, che giá io gli ho perdonato con l’animo: perché, oggimai, la ragione ha sottoposto lo appetito; e comprendo che è piú convenevole che quella fanciulla sia moglie a lui che l’essere stata a me concubina.

Pedante. Laus tibi, Christe. Eccovi a punto a ora e tempo la famiglia del cardinale che viene a voi per questo santo e salubre sponsalizio.

Messer Cesare. Signor Iddio, sia fatto il voler tuo.

Pedante. Sancte ac sapienter.

Messer Cesare. Forse che la mia somma disgrazia sará finita in somma ventura, il mio sommo male in sommo bene, la mia somma tristezza in sommo gaudio.

Pedante. Quello che è avanti della continua è messer Lucio dei Bendedei secretano di Sua Signoria, persona dotta e di ottima e inculpata vita. Et havvi a far il sermone. [p. 285 modifica]

SCENA III

Messer Lucio, Pedante, Messer Cesare, Camilla,

Spagnuolo, Valerio, Ciacco.

Messer Lucio. Messer Cesare, il cardinale mio signore, del quale io sarò imbasciatore e negociatore, vi fa sapere che egli ha inteso assai bene la offesa che v’è stata fatta, questa notte, dal suo giovane nipote in menarvi via la figliuola; e se n’ha doluto molto. Ora, perché Sua Signoria ha conosciuto che questa cosa è avenuta per voler di lei che ne è stata consenziente...

Pedante. Exorditur ab officio. Optime.

Messer Lucio. ... e non per violenzia che egli le abbia usata, per ciò, volendo egli supplire a quello nel che il nipote, si come giovane e sottoposto ad amore, ha mancato, ditermina, con voler di voi, che ella gli abbia ad esser, non concubina, ma sua legittima donna; e la vuol dotare di suo; e vuol che la dote sia in ducati dieci mila. Qual sia la condizione e la buona qualitá del giovane, essendo nipote d’un tal cardinale, penso che ne possiate essere oggimai assai ben chiaro, se ben per adietro non ne aveste avuto molta cognizione. Saperete ora da me ch’egli l’ha in luogo di figliuolo e come figliuolo l’ama.

Pedante. De hoc multo locutus sum il li Messer Cesare. Padron mio, che il cardinal, vostro e mio signore, se abbia doluto de’ casi miei, ha fatto quello che si conviene alla sua somma bontá. Che egli ora cosí cortesemente si muova a dotar la mia figliuola, cotesto è ben un legame da stringer verso di lui in perpetuo la obligazion mia. Intenderete, adunque, che non men caro è a me d’accettar questo parentado che a lui d’offerirlo. E, se io avessi conosciuto prima la qualitá di quel giovane, forse che io sarei stato il primo a chieder questo.

Valerio. Che genti sono quelle colá?

Messer Lucio. Io, per nome di Sua Signoria, vi ringrazio. [p. 286 modifica]

Pedante. Quam bene locutus est, a questa volta, messer Cesare! Rhetorice quidem et ornate.

Messer Cesare. Or venite, adunque, sposa e sposo.

Valerio. Ecco, ecco. Oh quanto m’allegro che le cose vadano per questa via!

Pedante. Quam pulchra est! Degna fu veramente di rapina.

Messer Lucio. Venite qui, messere. Vostra Eccellenzia faccia le parole.

Pedante. Io le farò breviter. E potrei ancora volgere il mio eloquio in farvi un dotto sermone in laude del sacrosanto matrimonio; e dimostrarvi qualiter ille sumus Opifex rerum, da poi che creò la terra, il mare e quod tegit omnia coelum e le bestie, volatili, aquatici e terrestri, creò l’uomo dominator del tutto. Della costa del quale avendo cavata madonna Eva, gli copulò amendui insieme; e comandò loro espressamente che dovessero accrescere, moltiplicare e riempir la terra, intendendo di questa copula matrimoniale. Ma questo sermone si doverebbe fare in caso che i! giovane o la giovane fosse a ciò renitente. Di che è tutto il contrario. Però discendiamo alle parole ordinate dalla Ecclesia. Ma, prima et ante omnia, dignum et iustum est che voi, madonna Camilla, v’ingenocchiate dinanzi il padre e che gli postuliate venia del comisso e perpetrato errore in disubidienzia.

Camilla. Carissimo padre, io vi dimando perdono del fallo in che, come giovane e troppo vinta d’amore, m’ho lassato cadere; appresso vi prego che non mi neghiate la benedizion vostra.

Pedante. Plora da tenerezza, il misero padre.

Messer Cesare. Figliuola, perdoniti Iddio e ti benedica come io ti benedico e perdono.

Spagnuolo. Io ancora vi chieggo perdono, messere e signor mio, della offesa; la quale ve n’è venuta da me per poca prudenza mia e per essere sforzato dallo amore che ho portato alla vostra figliuola e portarò sempre.

Messer Cesare. Non accade che mi dimandiate perdono perché da voi non voglio tener che mi sia venuto offesa alcuna; che, se offesa me ne viene pure da veruna parte, tutta è da [p. 287 modifica]tenersi dalla figliuola mia e non da voi. Per ciò levate in piedi e lasciate che io v’abbracci e basci.

Messer Lucio. Chi ha provato le forze d’amore di leggère porgerá scusa allo errore dell’uno e dell’altro.

Pedante. «Saevus amor docuit etc.». Orsú! Alle parole. Quale è il nome di questo gentiluomo?

Messer Cesare. Carlo.

Pedante. Aggrada, adunque, morigerato e magnifico messer Carlo, piace alla Signoria Vostra di accettare madonna Camilla in vostra perpetua e legittima sponsa, come è evangelica istituzione della sacrosanta madre Ecclesia?

Spagnuolo. Piacemi.

Pedante. E voi, madonna Camilla, aggrada egli a Vostra Signoria di accipere messer Carlo, qui presente e stipulante, in vostro vero e legittimo sponso, come è precetto della santa madre Ecclesia?

Camilla. Messer si.

Valerio. Chi dubita che ella non l’avesse detto?

Pedante. Or datevi insieme la mano, congiungetela in segno d’incorruttibil fede et osculatevi.

Valerio. Cotesto si fa santamente.

Pedante. Eccovi, se un tal matrimonio era descritto in cielo e se deve esser vero e santo.

Messer Lucio. Signore, poi che è fatto il tutto, restami di chiedervi una grazia.

Messer Cesare. Non sarebbe cosa di tanto momento che io non la facessi volentieri per voi, gentiluomo mio onorando. Per ciò comandatemi pure.

Messer Lucio. Vi ringrazio. E chieggovi, come in propria persona, che rimettiate la offesa avuta da Ciacco, poi che ogni cosa fu a fin di bene.

Messer Cesare. Molto volentieri. In questa mia allegrezza è da perdonare a tutti. Ove è egli?

Ciacco. Son qui presso, signore.

Messer Cesare. Ciacco, per l’obligo che nuovamente ho a questo gentiluomo, e poi che le cose che, o per tua poca [p. 288 modifica]amorevolezza o per altra qual si sia cagione, avevi rivolte sottosopra nel danno mio hanno ora cosí lieto fine, io ti perdono. Ma impara, un’altra volta, a non uccellar gli uomini della sorte mia; e, appresso, ad esser piú cauto.

Ciacco. Ho peccato, signore. Abbiatemi misericordia.

Valerio. Si, che egli non ne fará piú niuna! "N Pedante. Or vedi tu, poverino, l’opera che sa fare un par mio? che irridevi alle mie parole. Il tutto è niente al sale degli uomini dotti.

Messer Cesare. Or dimmi, Ciacco: ov’è Flamminio? Va’; digli che venga a me, ch’io gli ho perdonato e l’amo come prima.

Messer Lucio. Egli è in casa del mio signor insieme con la nuova moglie e la madre di lei: che, avendo inteso Sua Signoria questo da Ciacco, cosí le è piaciuto; e vuole che la festa d’amendue le nozze si faccia appresso di lui. Per ciò meglio sará che vi si indrizziamo oggimai, per dar licenzia a questa brigata.

Messer Cesare. Ciacco, porta, adunque, tu questa buona novella a madonna Agnela. Valerio, non t’aveva veduto. Verrai tu meco.

Valerio. Posso ben venirci ora sicuramente senza paura di danno della casa.

Messer Lucio. Perché non vi viene ancora la consorte vostra?

Messer Cesare. E amalata di febbre. Ma penso che, tosto che la buona novella le giungerá alle orecchie, ella, di subito» sará guarita.

Messer Lucio. Noi andiamo, adunque.

Messer Cesare. Andate prima voi, gentiluomo.

Messer Lucio. Anzi, la Signoria Vostra, per ogni rispetto, oltre all’etá.

Messer Cesare. Vada pure la Signoria Vostra come quella che rappresenta la persona del cardinale.

Pedante. Lasciate che prevadino li sponsi che sono i capi della festa.

Messer Lucio. Fateci voi la strada, domine doctor, ch’io m’era scordato di Vostra Eccellenzia. Poi messer Cesare. [p. 289 modifica]

Pedante. Vada esso prima.

Messer Cesare. Non voglio essere ostinato.

Pedante. Noi ambulemus una.

Messer Lucio. Orsú, adunque, tiratevi dal lato destro.

Pedante. Adsit laetitiae Bacchus dator et bona Iuno.

Messer Lucio. Si, si. Sguainate, caminando, qualche bel modo.

SCENA IV

Caterina sola.

«Chi pecca e menda salvo est», soleva dire la buona memoria di frate Mariano. Io non vorrei che qualche diavolo mi facesse capitare in mano del barigello. Per ciò ho io fatto pensiero di tornarmi con gli argenti a casa. Ho sentito buccinar non so che per istrada, che si fa festa in casa del cardinale e che mio padrone ha perdonato a tutti. Perdonerá anco a me. Direbbe uno: — Chi te l’ha detto, Caterina? — Basta che io l’ho inteso; e m’appiatai in luogo dove ho veduto passar tutta la compagnia ad uno ad uno. Erano piú di quatordici. E, fra gli altri, ho veduta Camilla in vesta di velluto chermesi, con cuffia in testa d’oro, con perle e tante gioie d’intorno al collo, che pareva la imperadrice. Buon prò le faccia. Doverá ella avere obligo a me; che, se io non era d’accordo seco, a bell’agio arebbe potuto andarsi col drudo! Maffé si. Ma è legno o pietra quella cosa che sta cosí ritta dinanzi alla porta del mio padrone? Ei pare una statua. Uh! uh! uh! Non è egli Ciacco?

SCENA V

Ciacco, Caterina, Giacchetto.

Ciacco. Madonna, che è quello che hai nel grembo? Tu avevi trafurati gli argenti, è vero?

Caterina. Messere, non me lo avevi consigliato tu?

Ciacco. Consigliato io? Non dir cosi, che mi faresti Commedie del Cinquecento - 11. 19 [p. 290 modifica]

Caterina. Oh tesoro de li tesori! volto di camaino!

Ciacco. Di mellone è il tuo. Ma, per Dio, che hai fatto bene a tornarvi; perché o t’era fatto il sigillo in fronte o eri scopata, almeno.

Caterina. Si scopano le scroffe e le ladre come sono le tue.

Ciacco. Ove pensavi tu di fuggire? a Venezia?

Caterina. Messer si; per consiglio tuo.

Ciacco. Anzi, tuo; che io non son di questa sorte.

Caterina. E perché mi di’ di Venezia? Non sono io femina d’aver ricapito in ogni citta del mondo?

Ciacco. A Venezia no.

Caterina. Perché no a Venezia?

Ciacco. Se io ti dicessi una parte delle laudi di quella benedetta cittá, intenderesti che una simile a te non è degna di vederla.

Caterina. Fosti vi tu mai?

Ciacco. Due anni vi son stato di continuo; ed ho avuta dimestichezza con la maggior parte di quei magnifici e cortesi gentiluomini.

Caterina. Gran peccato che, essendo cosí gentili quei signori e cosí virtuosi, come ho udito dire da molti, avessero domestichezza d’un par tuo e lassassero abitar tanto vizio nella lor cittá!

Ciacco. Sappi che tanto è la bontá di loro che, si come essi e di stato e di magnanimitá avanzano le grandezze della Italia, cosí vincono ancora ciascuno d’umanitá. E, se io mi sapeva intratenere come io dovea, sarei ora il piú felice uomo del mondo (dico per un par mio) né mi arei mai partito di lá.

Caterina. Chi ti sforzò a partirtene?

Ciacco. Tu vuoi saper troppo. Ma, lasciando da parte quel peso al quale io non ci sono bastante, non indugiar piú. Picchia.

Caterina. Picchia pur tu, che ci eri avanti ch’io venissi.

Ciacco. Picchia pur tu; che non voglio che la padrona creda che io sia stato d’accordo teco.

Caterina. Pur tu.

Ciacco. Pur tu. Ma ecco Giacchetto che ci torrá questa fatica di mano. Io, una volta, non voglio che ella teco mi veggia. [p. 291 modifica]

Caterina. Io te ne disgrazio.

Ciacco. Tu fosti sempre sgraziata.

Caterina. Ma che ha questa fraschetta che ride e salta che pare un pazzo? Giacchetto, che vuol dire tanta allegrezza? Hai tu bevuto, caro fratellino?

Giacchetto. Pure al modo tuo. Fratello, basciami e rallegrati del mio bene; che io uscirò, a un tratto, di servitú e sarò tenuto gentiluomo anch’io.

Caterina. Se cosí è, ti rimetto l’ingiuria che m’appiccasti istanotte.

Giacchetto. A dirti il tutto in piú brevi parole ch’io posso, mentre ch’io pure ora attendeva alle bisogne di quello che è mia cura in casa di monsignore, essendo ivi, come sai, la madre di Livia, pareva che ella non sapesse levarmi gli occhi di dosso e risguardarmi similmente tutte le genti con maraviglia per vedermi tanto simile a colei che, levatone l’abito, non sapevano trovare differenzia dall’uno all’altro. Ella, finalmente, mi accennò con mano che io andassi a lei.

Ciacco. Mi par vedere che costui abbia ad esser suo figliuolo.

Giacchetto. Il che fatto con la debita riverenzia, ella mi dimandò di che patria io era e come si chiamasse il padre mio. Io le risposi che io non sapeva né di padre né di madre ma ben che mi parea ricordarmi che in Fiorenza, dove fui recato picciolo bambino, colui che poi mi diede al mio padrone mi soleva dire che la mia patria era Roma e che io era stato involato alla madre mia.

Ciacco. Cotesto sempre ho pensato io.

Giacchetto. E ciò perché, essendo mio padre venuto a morte, alcuni suoi nipoti, veggendo che io solo era maschio rimaso, pensarono, col tórmi la vita, di farsi eglino posseditori della ereditá. Ma, non potendo loro sofferire il cuore d’uccidere uno innocente bambinetto o di annegarmi nel Tevere come avevano proposto di fare, mi donarono a un fiorentino molto loro amico il quale promise di seco menarmi e mai non dir cosa niuna di cotal fatto. Pure lo raccontò al mio padrone allora che me gli diede; ma non gli disse il nome del padre né de la [p. 292 modifica]madre: e il mio padrone poi, un giorno, lo raccontò a me. Che ti pare, Ciacco?

Ciacco. Oh crudeltá grande! E costoro ancor vivono?

Caterina. Poverino!

Giacchetto. Tosto che la buona donna mi udi raccontar questo, non potè ritener le lagrime o di far si che non cadesse in angoscia.

Caterina. Piango io ancora di compassione.

Giacchetto. Allora corsero molte gentildonne. E, facendole ritornar gli spiriti con l’acqua fresca, ella disse sospirando: — Ahi lassa me! Questo è il mio unico figliuolo da me si lungamente pianto. — E disse che, in segno di ciò, io potea avere su l’omero sinistro un neo con tre peluzzi biondi che portai meco dal nascere: il qual trovato, doppo che fu alquanto dato luogo alle maraviglie, si raddoppiò la festa. E il cardinale, per piú chiaro segno del buono amore che egli, oltre a quello che si conveniva a un servo, m’ha portato sempre, e per dimostrare quanto egli sia cortese signore, mi vuol dar per moglie una fanciulla di quindici anni che è sorella del mio padrone. E domani si faranno le nozze. Pensati se io ho ragione di starmi allegro e di saltare!

Ciacco. Fratello, o messere, basciatemi un’altra volta. Non sento di ciò minore allegrezza di quello che sentiate voi. Ma burlimi tu o dici da vero? Benché, sempre io ciò pensai.

Giacchetto. Come burlo? Tu il saprai tosto, se non lo credi a me.

Ciacco. Ma perché non sei rimaso nella festa? perché non t’hanno essi vestito di drappo convenevole a un gentiluomo?

Giacchetto. Io non ho voluto che mi levino di dosso questi panni né che facciano per ancora dimostrazione di questo nuovo mio riconoscimento per insino ch’io mi disoblighi d’un voto, il quale feci a san Petronio, se egli con suoi preghi impetrava da Domenedio che mi traesse di questa servitú.

Ciacco. Io ti lodo. Ma mi maraviglio che, fra tanto tempo che sei in Roma, questa veritá non s’abbia scoperta molto prima che ora. [p. 293 modifica]Giacchetto. Non è dubbio che, se mia madre m’avesse veduto per adietro, non se ne fosse ella, a qualche modo, accorta. Ma rade volte, come ho udito, fu suo costume d’uscir di casa, se non la domenica per udir messa; e a punto in quella chiesa dove non mi ricorda d’essere stato mai.

Ciacco. Io mi maraviglio d’un’altra cosa ancora: la quale è che, essendo tu conosciuto da mezza Roma, non s’abbia mai trovato chi detto gli abbia: — In questa cittá si truova un ragazzo che è tanto simile alla figliuola vostra come fosse lei. — Giacchetto. Glie lo potevi dir tu meglio che ogni altro, che le solevi usare in casa e mi vedevi quasi ogni giorno. Ma non ho tempo di star piú teco. A rivederci.

SCENA VI

Ciacco, Caterina.

Ciacco. Per certo, questa sará bene una festa colma di tutte le felicitá e di tutte le gioie. Ecco di quanto male, in poco spazio, quanto bene n’è riuscito. Ma chi merita d’avere il premio, l’onore e la corona di tante belle successioni altri che io? poi che io solo sono stato il conduttore di tutto il fatto. Ora, Caterina cara, torniamo sul picchiare. Che vuoi fare di questi argenti? Quel che s’ha a fare si fornisca tosto, che non vorrei dimorarci tanto che io non mi trovassi alle nozze a tempo d’alzare i fianchi, non giá di danzare.

Caterina. Debbio io lasciare che questa poca robba impedisca che l’allegrezza non sia eguale da tutte parti? Spettatori, non aspettate che noi picchiamo alla porta né che entriamo dentro; perché non ci pare che possa ritornarci a utile che voi siate testimoni di quello che vogliam fare di questi argenti.

Ciacco. Non aspettate ancora di riveder Flamminio, né meno che Livia si dimostri; perché le feste, come avete inteso, si fanno dentro in casa del cardinale. E la comedia è fornita. Andate con Dio.