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292 | il ragazzo |
madre: e il mio padrone poi, un giorno, lo raccontò a me. Che ti pare, Ciacco?
Ciacco. Oh crudeltá grande! E costoro ancor vivono?
Caterina. Poverino!
Giacchetto. Tosto che la buona donna mi udi raccontar questo, non potè ritener le lagrime o di far si che non cadesse in angoscia.
Caterina. Piango io ancora di compassione.
Giacchetto. Allora corsero molte gentildonne. E, facendole ritornar gli spiriti con l’acqua fresca, ella disse sospirando: — Ahi lassa me! Questo è il mio unico figliuolo da me si lungamente pianto. — E disse che, in segno di ciò, io potea avere su l’omero sinistro un neo con tre peluzzi biondi che portai meco dal nascere: il qual trovato, doppo che fu alquanto dato luogo alle maraviglie, si raddoppiò la festa. E il cardinale, per piú chiaro segno del buono amore che egli, oltre a quello che si conveniva a un servo, m’ha portato sempre, e per dimostrare quanto egli sia cortese signore, mi vuol dar per moglie una fanciulla di quindici anni che è sorella del mio padrone. E domani si faranno le nozze. Pensati se io ho ragione di starmi allegro e di saltare!
Ciacco. Fratello, o messere, basciatemi un’altra volta. Non sento di ciò minore allegrezza di quello che sentiate voi. Ma burlimi tu o dici da vero? Benché, sempre io ciò pensai.
Giacchetto. Come burlo? Tu il saprai tosto, se non lo credi a me.
Ciacco. Ma perché non sei rimaso nella festa? perché non t’hanno essi vestito di drappo convenevole a un gentiluomo?
Giacchetto. Io non ho voluto che mi levino di dosso questi panni né che facciano per ancora dimostrazione di questo nuovo mio riconoscimento per insino ch’io mi disoblighi d’un voto, il quale feci a san Petronio, se egli con suoi preghi impetrava da Domenedio che mi traesse di questa servitú.
Ciacco. Io ti lodo. Ma mi maraviglio che, fra tanto tempo che sei in Roma, questa veritá non s’abbia scoperta molto prima che ora.