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ATTO V

SCENA I

Messer Cesare solo.

Dove m’anelerò io a nascondere, che io non sia veduto né sentito d’alcuno, tanto che, sfogando il dolor dell’anima, possa lamentarmi della sciocchezza mia? Che mi vale l’esser stato prudente ed accorto tutto il rimanente della mia vita, se, allora che più mi bisognava sapere, ho saputo meno? O Valerio, perché non feci io stima delle tue buone e savie parole? che ora io non mi vedrei a cosi doloroso passo. Guarda come bene, ad un tempo, il figliuolo, la figliuola, la fante e quel ladro e traditor parasito m’hanno parimente assassinato! Misero! Ma tutto è nulla rispetto al gran fallo di Camilla. Di qui si move il coltello che in breve m’uccidarà. Che di Flamminio, come che l’offesa a me fatta sia grande, avendomi egli tolto quasi di mano i frutti del mio, male per me in questa età sentito, amore, tuttavia v’è in ciò questo di bene, che quella giovene, benché ella sia figliuola di povera madre, pure è gentildonna. Onde, se è vero che egli se l’abbia presa per moglie, questo non fia di vergogna. Quanto a me, che cosi n’era inamorato, essendo padre, non posso non perdonargli ciascuna ingiuria, potendo I levarsi in pie l’onore. Ma io, a che modo coprirò io il biasimo, il danno, lo estremo vituperio che me ne aviene di Camilla, essendo ella fugita con uno che forse se la terrà per concubina e, poi che ne sarà ben sazio, ne la lascerà ir di male, come si vede avenir delle altre? E, posto che egli la si sposasse, che fia per ciò? essendo costui, come io posso comprender, plebeo