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atto quinto | 283 |
bontá institui che, nella orazione della dominica, che ella fece al padre solo perché noi ne fossimo gli operatori, si dicesse: «Fiat voluntas tua». Volse etiam che si dicesse: «Sia fatta la tua voluntá» perché noi ignoriamo quello che ci bisogna e possiamo domandargli prò bono ciò che è sommo male. Nec obstat il «petite» che dice il Vangelo; perché ipse sol iustitiae intese di cose oneste.
Messer Cesare. Voi pensate scoparmi affatto con questa vostra predica.
Pedante. Auscultate con pazienzia, caro, caro e preclaro messer Cesare; e sentirete, nel fine, quanto frutto all’anima e al corpo consolazione porteranno le mie parole. La conclusione è che quello che è fatto non è stato senza misterio divino.
Messer Cesare. Non credo mai che Domenedio s’abbia impacciato in questo.
Pedante. Oppinione erronea resecandaque con la medicina della veritá. E, circa alla figliuola, di cui penso che piú sentiate affanno per essersi ella copulata ad uomo, come voi existimate, di genere ignobile et extero, io vi rispondo che areste un gran torto a non vi dimostrare contento di questo matrimonio; perché, lassando io le altre speculative ragioni da parte, quel giovane e nobile e d’antiqua prosapia ex semine d’una sorella del cardinale. E, se ben non è italo, si trova bene extra Italiani persone nobili e virtuose. E, quantunque io avessi aliquando altra opinione, e maxime circa gli ispani, pure, conoscendola mala, holla eradicata del tutto, quoniam, imperché «sapientis est mutare propositum».
Messer Cesare. Se costui è nobile, come dite, e nipote di quel cardinale, non mi terrò in tutto a vergogna lo error commesso da Camilla.
Pedante. Ita se res habent. E non fu errore; immo, non mediocre sapienzia infusa da Dio nel cerebro della puella. E, benché ella non doveva ciò fare senza consentimento del padre, pure, come ho detto, fu voler dell’Omnipotens. E, perché intendiate il fine del mio sermone, esso illustrissimo cardinale, Sua reverendissima Signoria hammi mandato a voi, quasi