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atto quinto | 291 |
Caterina. Io te ne disgrazio.
Ciacco. Tu fosti sempre sgraziata.
Caterina. Ma che ha questa fraschetta che ride e salta che pare un pazzo? Giacchetto, che vuol dire tanta allegrezza? Hai tu bevuto, caro fratellino?
Giacchetto. Pure al modo tuo. Fratello, basciami e rallegrati del mio bene; che io uscirò, a un tratto, di servitú e sarò tenuto gentiluomo anch’io.
Caterina. Se cosí è, ti rimetto l’ingiuria che m’appiccasti istanotte.
Giacchetto. A dirti il tutto in piú brevi parole ch’io posso, mentre ch’io pure ora attendeva alle bisogne di quello che è mia cura in casa di monsignore, essendo ivi, come sai, la madre di Livia, pareva che ella non sapesse levarmi gli occhi di dosso e risguardarmi similmente tutte le genti con maraviglia per vedermi tanto simile a colei che, levatone l’abito, non sapevano trovare differenzia dall’uno all’altro. Ella, finalmente, mi accennò con mano che io andassi a lei.
Ciacco. Mi par vedere che costui abbia ad esser suo figliuolo.
Giacchetto. Il che fatto con la debita riverenzia, ella mi dimandò di che patria io era e come si chiamasse il padre mio. Io le risposi che io non sapeva né di padre né di madre ma ben che mi parea ricordarmi che in Fiorenza, dove fui recato picciolo bambino, colui che poi mi diede al mio padrone mi soleva dire che la mia patria era Roma e che io era stato involato alla madre mia.
Ciacco. Cotesto sempre ho pensato io.
Giacchetto. E ciò perché, essendo mio padre venuto a morte, alcuni suoi nipoti, veggendo che io solo era maschio rimaso, pensarono, col tórmi la vita, di farsi eglino posseditori della ereditá. Ma, non potendo loro sofferire il cuore d’uccidere uno innocente bambinetto o di annegarmi nel Tevere come avevano proposto di fare, mi donarono a un fiorentino molto loro amico il quale promise di seco menarmi e mai non dir cosa niuna di cotal fatto. Pure lo raccontò al mio padrone allora che me gli diede; ma non gli disse il nome del padre né de la