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atto quinto | 293 |
Giacchetto. Non è dubbio che, se mia madre m’avesse veduto per adietro, non se ne fosse ella, a qualche modo, accorta. Ma rade volte, come ho udito, fu suo costume d’uscir di casa, se non la domenica per udir messa; e a punto in quella chiesa dove non mi ricorda d’essere stato mai.
Ciacco. Io mi maraviglio d’un’altra cosa ancora: la quale è che, essendo tu conosciuto da mezza Roma, non s’abbia mai trovato chi detto gli abbia: — In questa cittá si truova un ragazzo che è tanto simile alla figliuola vostra come fosse lei. — Giacchetto. Glie lo potevi dir tu meglio che ogni altro, che le solevi usare in casa e mi vedevi quasi ogni giorno. Ma non ho tempo di star piú teco. A rivederci.
SCENA VI
Ciacco, Caterina.
Ciacco. Per certo, questa sará bene una festa colma di tutte le felicitá e di tutte le gioie. Ecco di quanto male, in poco spazio, quanto bene n’è riuscito. Ma chi merita d’avere il premio, l’onore e la corona di tante belle successioni altri che io? poi che io solo sono stato il conduttore di tutto il fatto. Ora, Caterina cara, torniamo sul picchiare. Che vuoi fare di questi argenti? Quel che s’ha a fare si fornisca tosto, che non vorrei dimorarci tanto che io non mi trovassi alle nozze a tempo d’alzare i fianchi, non giá di danzare.
Caterina. Debbio io lasciare che questa poca robba impedisca che l’allegrezza non sia eguale da tutte parti? Spettatori, non aspettate che noi picchiamo alla porta né che entriamo dentro; perché non ci pare che possa ritornarci a utile che voi siate testimoni di quello che vogliam fare di questi argenti.
Ciacco. Non aspettate ancora di riveder Flamminio, né meno che Livia si dimostri; perché le feste, come avete inteso, si fanno dentro in casa del cardinale. E la comedia è fornita. Andate con Dio.