Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/293


atto quinto 281

e non altro che famiglio d’un cardinale. Ahi misero me e veramente misero! Che partito posso io prendere che mi giovi da nissuna parte? Ahi tristo e scelerato parasito! Tu solo sei stato la cagione d’ogni mia ruina. Ma io ti darò bene, a tempo, il pagamento e il premio che si conviene ai traditori.

SCENA II

Pedante, Messer Cesare.

Pedante. Se io non prendo errore, se io non sono decepto dalla vista che non molto discerne a lunge, colui che passeggia lungo quella via mi pare il padre di Flamminio a cui hanno fatto lo indignum facinus. Onde, perché il cardinale, al qunle mi condusse il piacevole adolescentulo, mi manda a lui per componere insieme e riducere in porto queste turbulenti discordie presenti e future, io premedito nella mente di fargli, prima che io venga a questo, un molto salubre e dotto preambulo per captar benivolenzia et etiam per estinguer la bile la quale penso che ora gli circondi le precordie. Giá l’ho tutto nell’intelletto. Ma voglio salutarlo, prima. Salve plurimum, domine mi honorande. Il dolore deve offuscare i sensi organici onde nasce lo audito: non m’ha inteso. Un’altra fiata. Domine mi colendissime, tibi plurimam salutem impertio.

Messer Cesare. Ecco il precettore del mio figliuolo. Messere, male hanno insegnato i vostri precetti a Flamminio mio la strada del ben vivere. Poco profitto gli hanno reso.

Pedante. Non fu colpa del grano che io vi seminai né del terreno che ricevè il seme; ma dei turbini solamente con che l’hanno guasto le pessime persuasioni del parasito e degli uomini flagiziosi che egli cosí volontieri auscultava detraendo alla integerrima vita del suo preceptore. Et nuper mi fece una insolente risposta. Ma, perché quel che è fatto non si può disfare, cioè il matrimonio, de quo la Scrittura sacra parla, necesse est che il dolore succomba alla prudenzia.