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290 | il ragazzo |
Caterina. Oh tesoro de li tesori! volto di camaino!
Ciacco. Di mellone è il tuo. Ma, per Dio, che hai fatto bene a tornarvi; perché o t’era fatto il sigillo in fronte o eri scopata, almeno.
Caterina. Si scopano le scroffe e le ladre come sono le tue.
Ciacco. Ove pensavi tu di fuggire? a Venezia?
Caterina. Messer si; per consiglio tuo.
Ciacco. Anzi, tuo; che io non son di questa sorte.
Caterina. E perché mi di’ di Venezia? Non sono io femina d’aver ricapito in ogni citta del mondo?
Ciacco. A Venezia no.
Caterina. Perché no a Venezia?
Ciacco. Se io ti dicessi una parte delle laudi di quella benedetta cittá, intenderesti che una simile a te non è degna di vederla.
Caterina. Fosti vi tu mai?
Ciacco. Due anni vi son stato di continuo; ed ho avuta dimestichezza con la maggior parte di quei magnifici e cortesi gentiluomini.
Caterina. Gran peccato che, essendo cosí gentili quei signori e cosí virtuosi, come ho udito dire da molti, avessero domestichezza d’un par tuo e lassassero abitar tanto vizio nella lor cittá!
Ciacco. Sappi che tanto è la bontá di loro che, si come essi e di stato e di magnanimitá avanzano le grandezze della Italia, cosí vincono ancora ciascuno d’umanitá. E, se io mi sapeva intratenere come io dovea, sarei ora il piú felice uomo del mondo (dico per un par mio) né mi arei mai partito di lá.
Caterina. Chi ti sforzò a partirtene?
Ciacco. Tu vuoi saper troppo. Ma, lasciando da parte quel peso al quale io non ci sono bastante, non indugiar piú. Picchia.
Caterina. Picchia pur tu, che ci eri avanti ch’io venissi.
Ciacco. Picchia pur tu; che non voglio che la padrona creda che io sia stato d’accordo teco.
Caterina. Pur tu.
Ciacco. Pur tu. Ma ecco Giacchetto che ci torrá questa fatica di mano. Io, una volta, non voglio che ella teco mi veggia.