V. Come il vecchio Dodone andasse per consiglio dal canonico Ausperto; e del sollievo che n’ebbe

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V. Come il vecchio Dodone andasse per consiglio dal canonico Ausperto; e del sollievo che n’ebbe
IV VI
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Capitolo V.

Come il vecchio Dodone andasse per consiglio dal canonico Ansperto; e del sollievo che n’ebbe.

Il canonico Ansperto di Santa Maria di Cairo era un buon vecchio prete; non un’aquila, non un cigno, n[ altro di quegli animali gloriosi che servono ai nostri paragoni, quando vogliamo celebrare l’intelligenza, la facondia e la dottrina di un uomo.

Passando a cercare gli esempi in un altro ordine di cose, diremo che non era un’arca di scienza, ma neanche una cassapanca d’anticamera, e se a rigore di termini non si poteva chiamarlo la prima penna del Capitolo, come osò il sagrestano di Santa Maria, dopo averlo sentito spiegare i santi Evangelii, non [p. 98 modifica] si doveva neanche gabellarlo per l’ultimo dei calamai, come fece, in risposta al sagrestano, un canonico rivale. Era, a dirvi le cose come stavano, era un brav’uomo, che sapeva leggere nel breviario, anche quando non fosse il suo; gran cosa per que’ tempi, così poveri di amanuensi, o in cui la cartapecora costava un occhio del capo; di guisa che si usava stipar le pagine di roba, abbreviando le parole oltre il lecito e riducendo i libri sacri ad una selva di geroglifici.

Quando capitò il vecchio Dodone di Croceferrea per chiedergli udienza, il canonico Ansperto se ne stava nella sua cella, davanti ad un leggio di quercia, su cui otto o dieci codici accatastati gli rappresentavano tutto lo scibile e gli meritavano agli occhi dei profani il titolo di dotto.

Erano le Omelie di san Gerolamo, le Epistole di san Paolo, i quattro Evangelii, una grammatica di Donato, un Virgilio, e qualche libro del Vecchio Testamento.

La Bibbia, in quel tempo, correva per le mani dei fedeli a pezzi e bocconi; ed erano [p. 99 modifica] ben pochi, perfino in Roma, nella sede apostolica, che la possedessero intiera, dalla Genesi ad Esdra. Veramente, così per le lettere sacre come per le profane, quella era una notte barbarica.

Ansperto accolse con benignità il vecchio Dodone, e fattolo sedere al suo fianco, gli domandò che cosa volesse.

Si trattava della figliuola di Dodone e del pericolo che essa correva, insidiata da uomini che non l’avrebbero sposata, e riluttante al partito che le proponeva suo padre.

Com’ebbe udite così a occhio e croce le angustie del vecchio, il canonico Ansperto si pose sul grave, e non volle dare i soccorsi del suo ministero, senza premettere un po’ di morale.

— Tutto ciò, — diss’egli lentamente, — non è senza un alto perchè. La divina Provvidenza ti manda un salutare avvertimento, o Dodone. Tu potresti far fede che il manso di Croceferrea appartiene alla curia d’Alba, e non hai lingua per farti vivo.

— Che ci posso far io? — rispose il vecchio. [p. 100 modifica]

— Sono un povero aldione e la mia testimonianza val poco. I signori vogliono; a noi tocca obbedire.

— I signori sono lontani, — replicò Ansperto, — e non possono udire la voce della giustizia, quando il figlio dei servi della curia d’Alba non ardisce aprir bocca.

— Sì, per farmi Chiudere nel fondo di una torre, fino a tanto che io non mi disdica! — borbottò allora Dodoné.

— Eh via! Non sarà così cattivo, il conte Anselmo, come te lo figuri tu. Basterebbe che tu gli domandassi udienza, come l’hai domandata a me, e gli esponessi i tuoi dubbi di coscienza. Infine, tu paghi i tributi a lui, e non dai alla curia nè annate, nè decime. Ricordati, Dodone, che Iddio ha costituita la Chiesa sua rappresentante visibile sulla terra, e che l’essere confessori del vero per lei è come essere confessori della fede.

— Io ricordo, o padre, che il Signore Iddio mi ha fatto pentola di terra, e poi mi ha messo davanti a delle pentole di ferro. A cozzar con quelle mi romperei di sicuro; le mie [p. 101 modifica] confessioni non varrebbero un bel nulla; e neanche potrei più farne, quando venisse il momento opportuno.

— C’è del vero, in quello che tu dici; — osservò il canonico Anspèrto. — Ottone verrà pure un giorno o l’altro in Italia, e il vicario di Cristo non tralascerà di ricordargli il debito che ha, di far giustiza alla sua Chiesa. Ma dimmi ora; che posso io fare per il tuo bisogno?

— Consigliare la mia figliuola.

— L’ho sempre fatto, quante volte è venuta al tribunale della penitenza.

— Si, e vedi il bel frutto che n’hai ottenuto! Devi parlare più risoluto, mostrarle il male che fa, a ricusare l’onesto partito che le propone suo padre. Me l’hanno stregata, vedi? me l’hanno stregata, ed io ci perdo il mio fiato. Un giorno, poi, mi volgerà male, se già non è cosa fatta.

— Non correr tanto, via! Tu ora vedi le cose più nere che non sono. Lasciamo stare i sortilegi, che non ci hanno che vedere. Se la tua figliuola fosse in balìa del maligno, io [p. 102 modifica] me ne sarei sicuramente avveduto, ed avrei anche provveduto. Noi abbiamo scongiuri onnipotenti, per cacciar l’inimico. Non così potenti, pur troppo, — soggiunse sospirando il vecchio canonico, — per cacciare alla prima i mali pensieri che l’inimico soffia nel cuore della creatura non sua. Ma ciò avviene, lo sai, per espresso volere di Dio, affinchè noi abbiam merito della nostra virtù, in obbedienza ai consigli dello spirito. Ahimè! lo spirito è pronto, e la carne è inferma. Difetto della carne, figliuol mio; e tu stesso, se guardi in te stesso, puoi ritrovarne gli esempi. Ma ritorniamo alla tua Getruda. È una onesta ragazza, finora, e niente lascia argomentare che non abbia a conservarsi tale, per contentezza della tua vecchiaia. Ambiziosa, sì, lo è un pochettino; ma come sono su per giù tutte le ragazze, piena la testa di grilli, voglio dire d’idee superiori alla loro condizione. Che ci vuoi fare? Preghiamo il Signore Iddio, e aspettiamo che egli la illumini, come ne ha illuminate tante altre.

— Tu dunque, — riprese Dodone, dopo [p. 103 modifica] essere stato in apparenza molto contrito, ad ascoltare la predica, — tu dunque non puoi nulla per me?

— Consigliarla; — replicò Ansperto. — L’ho fatto, e lo farò ancora; più particolarmente, se vuoi.

— Ebbene, — disse il vecchio aldione, con un sospiro di uomo rassegnato, — vedi tu di persuaderla una volta. In caso diverso, poichè io credo che me l’abbiano stregata davvero, metterò mano ad un altro genere di esorcismi: la bastonerò di santa ragione.

— Ma di che temi, vecchio ostinato? chi vuoi che te l’abbia stregata?

— Eh, lo so io. Non una strega, a buon conto. Metti che sia il castellano. —

Ansperto, a quell’accenno di Dodone, aperse l’occhio ed aguzzò ancora l’orecchio.

— Il cast.... — diss’egli incominciando; ma non finì la parola. — Come lo sai? Che certezza hai tu di quello che dici? —

Dodone, condotto a quel punto, dovette accennare tutto quello che aveva osservato. Non erano fatti, veramente, ma indizi; indizi [p. 104 modifica] anche leggeri, ma pur sempre sufficienti a destare l’attenzione e il sospetto di un padre. Il castellano Ramerio, orgoglioso uomo, ed anche naturalmente occupato in cento cose diverse, era sempre lassù, quasi ogni giorno; e a farlo apposta ci capitava nelle ore che Dodone soleva trovarsi lontano da casa, o nei maggesi della valle, o lungo le ripe dove prosperava la vite.

Fin qui, non parve al canonico Ansperto che ci fosse argomento di vero e giusto sospetto. Se il castellano andava così spesso a Croceferrrea, si poteva anche credere che lo facesse per esercitare, in nome del conte Anselmo suo signore, visibili atti di padronanza, tanto più necessarii quanto era più disputabile il possesso.

Quanto all’ora scelta per recarsi lassù, niente era più naturale che, desinando tutti, ricchi e poveri, alla medesima ora, anche il castellano Rainerio desinasse all’ora di Dodone, e perciò non potesse giungere al podere di Croceferrea mentre Dodone era in casa. Ma egli si fermava molto a discorrere da [p. 105 modifica] solo a sola con la ragazza. Adagio col molto! Una conversazione può esser breve o lunga, secondo i casi, o esser considerata tale secondo gli umori della gente che osserva. Nel fatto, stava un pochino a chiacchierare. Ma era forse una cosa illecita, barattar parole con la figliuola del contadino, ragazza gentile e garbata, che certe volte, a non guardare i suoi abiti, si sarebbe scambiata con una figlia di conte?

— Tu esageri, vecchio amico; — disse Ansperto, conchiudendo; — tu vedi da per tutto il pericolo. Ma se bisogna guardarsi dai pericoli, non è men vero che bisogni anche guardarsi dai sospetti, segnatamente nel caso che son meno giustificati da ciò che sappiamo della virtù di Getruda.

— Amo crederlo; — borbottò il vecchio, a cui non tornava dispiacevole che altri gli vantasse la virtù di quella matta ambiziosa. — Ma intanto ella ricusa la mano di un suo pari; un bravo ragazzo, che sarebbe il fatto suo, ed anche il fatto mio.

— Ebbene, che vuol dir ciò? — ribattè il [p. 106 modifica] prete. — Hai forse da argomentarne che l’animo suo sia stato sviato dal castellano Rainerio? Tu non sai di logica, o Dodone. L’unica conseguenza che si possa trarre ragionevolmente da questa tua premessa è una avversione naturale per l’uomo che tu le hai destinato. So bene che una buona figliuola dev’essere obbediente. Ma anche un buon padre dev’essere tollerante, dove si tratti d’impegnare il cuore e la mano della sua creatura per tutta la vita. Vorrai tu far violenza al suo animo, se repugna da queste nozze, come pare da ciò che racconti?

— No, io non vorrò mai questo; — disse Dodone; — ma vorrò sempre, e mi pare di aver ragione a volerlo, che ella sposi un uomo della nostra condizione: un uomo che sia capace di sostentare la famiglia col lavoro delle sue mani; un uomo che abbia intelligenza e buon volere, per far prosperare la terra su cui Domineddio ci ha messi a vivere. Ora io ho posto gli occhi su Marbaudo, perchè in queste valli, a due giornate di viaggio tutto intorno, non ho veduto uno che valesse [p. 107 modifica] quanto lui, o fosse più adatto al nostro bisogno.

— Oh santa Maria benedetta! è dunque un miracolo d’uomo, questo Marbaudo? E dove lo hai tu scovato?

— Non lo conosci, padre? È quello che vive nella casa degli Arimanni.

— Buon podere anche quello! — esclamò il canonico Anspcrto. — Ed anche quello apparteneva alla Chiesa.

— Eh, per intanto è del conte, e ne ha la sopraintendenza il castellano; — rispose Dodone.

— Come avviene per Croceferrea, e con la medesima illegittimità di possesso; — replicò 11 canonico.

— Sia come tu dici; ma tutto sarà dunque della Chiesa?

— Proprio cosi, vecchio Dodone, proprio cosi. In primo luogo, tu devi sapere che la terra è di Dio. 11 Signore la dà, il Signore la toglie.

— Dunque diciamo che egli ha tolto quel podere alla Chiesa; — disse Dodone. [p. 108 modifica]

— T’inganni; — replicò Ansperto, animandosi nella controversia come un cavallo generoso nel correre; — la Chiesa non ha ancora dichiarato di lasciarsi spossessare. Già, poni mente, la Chiesa non rinunzia mai, non può rinunziare a nessuno de’ suoi diritti. Qualche volta ha l’aria di acquistarne dei nuovi; ma nel l’atto non sono che restituzioni fatte dagli usurpatori a lei. Essa è l’immagine di Dio tra gli uomini; essa è fonte e principio di ogni diritto. Vedi i più antichi tra i re, che furono quelli d’Israele e di Giuda: essi erano unti dell’olio del Signore, nel tabernacolo della sua gloria, e ciò bastava a dar loro autorità sulla vita e sugli averi del popolo eletto. Vedi gli imperatori di Roma; il Signore Iddio li riconobbe in Costantino e ne’ suoi successori Romani, Greci, Franchi o Alemanni che fossero.

— Bella forza! — scappò detto a Dodone. — Avevano le armi in pugno.

— Ed anche gli Eruli, e i Goti, e i Longobardi, le ebbero; — rispose solennemente Ansperto. — Ma la Chiesa non riconobbe e non unse costoro, che non camminavano nelle sue [p. 109 modifica] vie. L’imperatore da lei preferito fu Carlomagno

il quale andò debitore della sua grandezza alla protezione che aveva concessa ai ministri del tempio. Da Dio, per mezzo della sua Chiesa, hanno gl’imperatori la corona e lo scettro
per quel santo olio che tocca la fronte loro, questa diviene augusta, e vi germogliano i pensieri che dettano la legge al mondo. Si scostano essi, in un momento di errore, dalla obbedienza che hanno giurata alla Chiesa? Sono colpiti d’interdetto. Negano i diritti, o privilegi della Chiesa, arrogandosene l’uso per sè? Sono deposti, ed altri nominati in loro vece.

— Capisco; — disse Dodone. — Ma la terra, nel caso nostro....

— La terra non può nè vuole tenerla tutta la Chiesa, che impera sulle anime, e che alla fin fine non è altro se non la comunione di tutti i fedeli. Essa è un’autorità di pace, un vincolo di amore tra gli uomini. Essa cede la terra a chi sa coltivarla, e non chiede per sè che la decima dei frutti, stabilita dalla legge divina. Ma ci son terre che un giorno non [p. 110 modifica] furono più di nessuno. La collera di Dio era passata sulla faccia del mondo, e la guerra degli uomini aveva devastata ogni cosa. I campi che tu coltivi, o Dodone, furono per gran tempo sterili; come i dorsi di Gelboè, dove periva il re Saul, abbandonato dalla protezione del Dio degli eserciti. A quei campi intristiti, dove regnavano le fiere, ha rivolte le sue cure la Chiesa. Essa, che si oppose da sola all’oltracotanza dei barbari invasori, essa arginò i vostri fiumi, risanò le vostre valli, ripiantò la vite sulle colline, dissodò il campo, vi condusse l’aratro e vi seminò il grano che doveva sfamare i vostri padri. E quando un così grande benefizio fu assicurato, e un po’ di gente timorata potè raccogliersi a vivere, a prosperare in pace, sotto l’ombra del tempio e sotto la protezione di Dio, dovevano venire i conquistatori ad usurpare il diritto antico e nuovo della Chiesa ristoratrice? La Chiesa può riconoscere la loro autorità, se è benefica, tener conto delle rette intenzioni e consacrare il poter loro sui popoli; ma essi debbono riconoscere i diritti della Chiesa, onorarne i [p. 111 modifica] privilegi. Dove essa è padrona, poi, dove le testimonianze viventi assicurano il suo legittimo possesso, nessuno può far atto di padronanza che non sia sacrilegio. Perchè non chiedono un componimento? perchè non domandano di acquistare dall’enfiteusi un diritto che l’usurpazione non dà? —

Il vecchio Dodone era stato ad ascoltare con molta attenzione il canonico legista. E come Ansperto, o perchè fosse stanco di quella volata, o perchè avesse finito, ebbe fatta una pausa più lunga, osservò timidamente, ma guardando fissamente negli occhi il suo interlocutore:

— La Chiesa può dunque sostenere i coltivatori delle terre che son sue, contro le angherie dei castellani e dei signori. Se io prendessi a livello il mio podere e pagassi il tributo e le decime alla Chiesa.

— Alla curia d’Alba, naturalmente; — soggiunse Ansperto.

— Ma la curia di Savona non vanta anche ella i suoi diritti su Croceferrea? — riprese Dodone. — Perchè due parti della Chiesa sono [p. 112 modifica] a contrasto? E se anche l’una cedesse alle ragioni dell’altra, mi sosterrebbero poi con la loro autorità contro gli arbitrii del castellano e del conte?

— Figliuol mio, — disse gravemente Anspcrto, — io ti ho spiegato il diritto. Ma il consorzio umano è turbato, la vita quotidiana è difficile, i tempi son grami per coloro a cui manca la forza; bisogna fare come si può.

— E col castellano inchinarsi; — mormorò il vecchio Dodone.

— Come col conte; — rispose il canonico Ansperto. — Son essi i potenti del giorno, quelli che Iddio ha esaltati per i suoi fini altissimi, che a noi non è sempre dato d’intendere. Coi potenti non si può, non si deve combattere. Bisogna esser calmi e misurati, mi capisci? bisogna andar cauti e pazienti. Colla pazienza, figliuol mio, molte difficoltà si vinceranno, che ora ti sembrano insormontabili. Ottone, il glorioso imperatore, comporrà un giorno o l’altro le cose di Lamagna, e scenderà in Italia a comporre le nostre, a far ragione ai diritti della Chiesa, a stabilire le [p. 113 modifica] sue relazioni coi signori di confine e con ogni altra genia di usurpatori. Per il caso tuo, lo capisco, non ci può nulla un diploma di Ottone. Ma qui basterà un po’ d’arte e di prudenza; e tu non ne manchi, anzi hai fama di possederne a dovizia, come di belle monete d’oro.

— Ciarle degli invidiosi! — borbottò l’aldione.

— È sempre meglio essere invidiati che compianti; — rispose Ansperto. — Consolati dunque, se ti fanno più ricco che non sei. Quanto all’altro tesoro che possiedi, e che devi da buon padre custodire, vedremo che cosa ci sia da fare. Parlerò alla tua figliuola, se vorrai mandarla da me. Non abbiamo feste solenni, che possano dar colore alla cosa. Ma tu mandala egualmente. Mi hai veduto, scendendo a Cairo per le tue faccende....

— Mettiamo pure per pagare l’annata. Avrò infatti da vedere il castellano, di questi giorni, per dargli il frutto dei miei sudori, il mio sangue! E tanto fa che ci vada quest’oggi.

— Bene, hai dunque il pretesto trovato. [p. 114 modifica] Quanto a lei, ti ho detto di possedere un pezzettino dei santo legno su cui fu crocifisso il nostro Signore Gesù Cristo, e di volerne dare una particella alla tua cara figliuola, come reliquia che protegga da ogni male la casa.

— Cosi farò; — disse Dodone. — Ma vedi tu di parlarle risoluto, che si persuada una volta. Se no, assaggerà un altro legno!

— Farò quel che potrò; — rispose Ansperto. — Siamo qui per consigliare, ma senza certezza di convincere; per curare, ma senza troppa speranza di risanare. Unica speranza, unica certezza, è lassù. Anche tu, Dodone, raccomandati al cielo. Ora va, e Dio ti guardi dal male. —

Il vecchio se ne andò, poco raffidato dalle promesse di Ansperto.

Quel gran discorritore aveva parlato molto dei privilegi della Chiesa, della sposa di Cristo; ma non si era punto occupato dei dritti dei poveri, che sono pure gli amici di Cristo, quei derelitti, quei soffrenti, per i quali egli dichiarò d’essere stato mandato dal padre celeste. Ah, la forza, la forza! come ha sempre ragione, la [p. 115 modifica] forza! e come soverchia facilmente tutte le altre ragioni, anche nell’animo di coloro che hanno per istituto di non riconoscer la forza, se non in quanto ella serve al trionfo della giustizia!

Un’altra cosa aveva notata Dodone, udendo i ragionamenti del canonico Ansperto. Il sant’uomo parlava libero e risoluto quando si trattava del conte Anselmo; stentato e dimesso quando occorreva di accennare al castellano Rainerio. Signore e vassallo, erano due padroni collegati contro i servi della gleba, ma il padrone più vicino era il più temibile, anche essendo il minore. Di Anselmo lontano e noncurante si poteva far poca stima; non così del vicino e vigilante Rainerio.

Così, anche il ministro del tempio, il consolatore degli oppressi, non che trovare nell’ufficio suo la virtù di resistere alla potenza degli oppressori, di assumere al loro cospetto la difesa dei miseri, cedeva disanimato davanti alla tracotanza dei castellani, padroni minori, oppressori di seconda mano, più prossimi e per conseguenza più gravi.