Il prato maledetto/VI
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Capitolo VI.
Il castellano alle vedette.
Rainerio faceva ritorno al suo torrione, quando gli venne veduto il padre di Getruda, sul punto che questi esciva dal chiostro di Santa Maria.
Dodone andava per l’appunto da lui; ma non fu molto contento di vederlo per via, o, per dire più veramente, di esser veduto sul limitare del chiostro.
Avrebbe voluto confondersi, passare inosservato tra le quindici o venti persone che stavano sulla piazzetta; ma non gli fu possibile; Rainerio lo aveva veduto alla prima, coi suoi occhi di falco, e si era fermato, per chiamarlo a sè con un gesto tra familiare e imperioso.
— Ebbene, vecchio Dodone, — esclamò il castellano, — veniamo da raccontare le nostre marachelle ai canonici di Santa Maria? Ci siamo ben ripulita l’anima al tribunale della penitenza? C’è dunque da sperare che saremo più giusti e più probi nel pagare i diritti al padrone?
— Venivo appunto per ciò; — disse il vecchio. — Ma tu sai che io, povero aldione, invecchiato nella fatica dei campi, non ho mai cercato altro che di accrescerne i frutti, e pago, si può dire, ogni anno di più.
— Si, lo so, vecchio amico, e mi piace di riconoscerlo; — rispose il castellano, ridendo. — Ma mi piace anche di celiare un tantino, come si usa tra amici.
— Amici! — ripetè Dodone, tentennando la testa. — È presto detto, amici! Ma tu sei il mio signore, io il tuo servo.
— E siamo tutti servi; — riprese Rainerio, mettendo per gran degnazione una mano sulla spalla del vecchio, mentre con lui si avviava verso la sua corte; — il castellano è servo del conte; il conte è servo dell’imperatore; e l’imperatore è servo di Dio. Non tc lo hanno detto i canonici, che l’imperatore è servo di Dio.... ed anche del suo vicario, che è il Papa?
— Non abbiamo avuto a parlare di ciò; — rispose l’aldione. — Questo io so, senza che nessuno me lo dica, che io sono il servo di tutti. Nella scala della padronanza e della servitù, è già un bel guadagno aver meno gradi sopra di sè.
— Ti lagni d’essere nel più umile? Hai ancora la terra, che serve a te, che ti ubbidisce e ti dà frutto. Nè io voglio credere che ogni cosa si converta in tributo al conte. Non saresti il savio uomo che io conosco, se qualche bella moneta imperiale non ti restasse appiccicata alle dita. Aggiungi poi che nel tuo stato non hai il fastidio dei gravi pensieri, che turbano la mente agli imperatori, ai conti, ed anche ai. poveri castellani.
Sospirò, così dicendo, il castellano Rainerio, e la sua mano si degnò di premere più amorevolmente sulla spalla del vecchio.
— Questo sì, grazie a Dio benedetto! — mormorò Dodone. — E se non fosse per quelli che mi dà il bisogno di collocare la mia figliuola, potrei essere contento abbastanza ne’ miei poveri cenci. —
Vedete un po’ che stranezza! Era balenato in quel punto allo spirito del villano di Croceferrea di toccare il castellano nel cuore. Quella degnazione, quella bontà di Rainerio, gli erano parse di buon augurio, quasi un invito a toccare quel tasto.
— Ali, ci siamo! — disse il castellano. — Tu hai sempre in testa di dare la tua figliuola, quell’occhio di sole, ad un servo della gleba. Caro mio, tu vivi nell’errore, e vuoi anche morirci impenitente. GliChe pazzia è mai questa tua! E non pensi che quella cara fanciulla può essere la fortuna della tua casa.
— In che modo?
— Non saprei dirtelo ora. Tu, del resto, vuoi capir così poco!
— Eh, capir molto non è mai stato il fatto mio. Viviamo tra i sassi, e siamo un po’ duri come quelli. Ma una cosa capisco bene: che il podere di Croceferrea ha bisogno di uno che lo ami e lo faccia fruttare come ha fatto finora il vecchio Dodone.
— È un savio consiglio; — disse Rainerio; — ed è tale da piacer molto al conte Anselmo. Ma io te l’ho già detto una volta; piacerà poco alla tua bella figliuola.
— Speriamo che qualcheduno la consiglierà, per il suo meglio, e per quello di suo padre; — rispose Dodone.
Rainerio gli diede una guardata, e lasciò cadere il discorso. Il silenzio del castellano potè va anche parer naturale, poichè erano giunti nella caminata, ossia nella sala maggiore della casa, dove il castellano esercitava gli atti della sua giurisdizione, e si trattava di noverar le monete che il vecchio Dodone non traeva senza sospiri dalla sua borsa di cuoio.
— Ah vecchio briccone! — brontolò il castellano, come quell’altro fu partito. — La consiglierà qualcun altro! Sì, veramente; e qualcun altro comanderà per tutti. —
E chiuso nella cassa ferrata il tributo di Dodone, escì dal palazzo per andare al chiostro di Santa Maria.
Ansperto non fu poco meravigliato vedendo comparire nella sua cella il castellano Rainerio. Si alzò, con molta premura, per offrirgli una seggiola, e gli chiese frattanto a qual cagione dovesse egli ascriver l’onore di una visita così ragguardevole.
Rainerio non gli lasciò finire la frase, e sedutosi a cavalcioni sul primo scanno che trovò presso il leggio del canonico, gli disse:
— Tu devi parlare alla figliuola di Dodone, che è stato poc’anzi da te.
— Io.... — balbettò Ansperto.
— Ed hai preso l’incarico di consigliarla ad accettare la mano di Marbaudo, l’aldione degli Arimanni.
— Ma io, veramente.... non ho a dire....
— Nè io ti chiedo di dirmi un segreto, — riprese il castellano. — Vedi che so già tutto; me lo ha detto or ora il vecchio Dodone.—
Ansperto ricordò che infatti il padre di Getruda gli aveva detto di doversi recare dal castellano, per pagargli l’annata.
— Se così fosse — rispose allora il vecchio prete — la cosa non escirebbe punto dagli obblighi del mio ministero. Sono il confessore della fanciulla di Croceferrea; e il consiglio che io potrei darle sarebbe conforme all’utile suo e della sua casa.
— Ma non all’utile della casa di Aleramo, — replicò Rainerio.
— Come? — si provò a dire Ansperto. — Così alte ragioni si opporrebbero a così umile negozio di povera gente dei campi?
— Di questo è giudice il conte; — ribattè Rainerio; — e per lui ne son giudice io, investito da lui della autorità necessaria.—
Ansperto s’inchinò, ma non si diede ancora per vinto.
— Diamo a Cesare quel che è di Cesare; — mormorò egli. — Io m’attengo al modesto uffìzio di consolare gli afflitti e di guidare le anime dei fedeli sulla via della salute.
— Per il mondo di là; — soggiunse Rainerio.
— È giustissimo. Noi pensiamo al mondo di qua; ognuno di noi nella misura assegnata. Io sopraintendo alle terre del conte Anselmo e a coloro che ci vivono, per farle fruttare. Il conte sa, per mezzo mio, che cosa debba fruttargli il suo dominio; io attendo, in nome suo, a tutti i provvedimenti che possono farlo prosperare.
— Non vedo in che potrebbero far contro a questa savia massima le nozze di Getruda con l’aldione degli Arimanni.
— Niente è più facile di questa dimostrazione — disse Rainerio. — La scelta della sposa por il servo, o dello sposo per la figlia del servo, appartiene al signore; il quale se ne occupa, o no, secondo i casi, ed usa del suo diritto come e quando gli conviene. Egli ad esempio, ti può impedire di congiungere in matrimonio una donna delle sue terre con un uomo delle terre altrui; nè men chiaro è il suo diritto quando si tratti di due servi del suo dominio, e di regioni e di poderi diversi. Perchè ciò? per una ragione naturalissima. Egli deve scegliere, nelle unioni dei servi, quello che più giova alla prosperità del suo fondo.
— E Dodone e Marbaudo, — osservò il canonico — sono uomini liberi, come aldioni, o censuarii.
— Aldioni, sicuramente; questo è il nome abusato, di cui li decorate voi altri. Se poi appartenessero alla Chiesa le terre su cui essi vivono, intendereste altrimenti la cosa. Il conte Anselmo, del resto, non sa e non deve sapere di questa libertà, che è priva di ogni documento. In quella vece è chiaro e rimane inconcusso che dove la terra è sua, anche l’aria è sua, e l’aria rende servo chi la respira, se costui non è espressamente dichiarato libero, se non è livellario, o rivestito di sacro carattere. Non mi parlar dunque del diritto di questi aldioni, che lavorano la terra e non la possiedono. Il matrimonio che Dodone vorrebbe per la sua Getruda non può farsi se il conte non vuole.
— Ma almeno egli non si opporrà a questo matrimonio senza una giusta cagione.
— Sia pure; ma io, investito della sua autorità, ne ho una giustissima per ricusare Marbaudo. Il fondo di Croceferrea, per confessione del vecchio censuario, ha bisogno di un uomo forte e intelligente, che lo conservi nel suo stato presente di prosperità, ed anche lo migliori, se occorre. Ciò basta perchè l’autorità mia s’intrometta e respinga la domanda dell’aldione degli Arimanni. In queste valli, da Saliceto a Biestro e Lagorotondo, da Ferrania a Millesimo e Cengio, ci sono a dozzine più forti giovani e più intelligenti di lui.
— Dodone non li ha trovati; — notò il canonico, che tentava le ultime difese.
— Se non è che questo, — rispose il castellano, — gliene troverò io quanti vuole.
— E potrai farlo sicuramente; io non ho pratica di queste cose; — disse Ansperto, inchinandosi. — Ma non è men vero che la fama di Marbaudo, come buono e forte villico è sparsa per tutta la valle. Io ricordo ancora che l’anno scorso, in otto giorni, falciò egli solo il gran prato che fu già della chiesa, tra San Donalo e il podere degli Arimanni. —
E sospirò, il canonico Ansperto, proferendo la frase: “che fu già della chiesa„.
— Ah sì, bella forza! — esclamò il castellano. — Si potrebbe doverlo falciare in quattro giorni, il gran prato, e poi vantarsi, come di lui prodigio compiuto. In sette fu creato il mondo, così grande e così vario com’è, con tutto il suo corteggio di stelle; — soggiunse Rainerio, ghignando maliziosamente. — Non è egli forse vero, o buon Ansperto? Ma basti di ciò, che io non debbo metter bocca in queste cose, che voi soli sapete come siano avvenute. Io dovevo farti avvertito, perchè siamo amici, e il castello e la chiesa debbono vivere in pace, non darsi molestia a vicenda. Che se alla chiesa piacesse di far contro al castello, sappia ella che il suo posto, più elevato in cielo, è ancora troppo più umile in terra. A buon conto, la merlata del Castello di Cairo soverchia di più cubiti la guglia del campanile di Santa Maria. Spero perciò che tu non consiglierai la bianca Getruda a sposare il rustico Marbaudo. Il tuo consiglio, del resto, sarebbe vano, perchè il conte Anselmo non vorrà mai queste nozze.
— Quel che sarà destinato da Dio, avverrà; — disse Ansperto, girando largo al cantone.
Ma l’altro aveva parlato abbastanza chiaro, e non reputò necessario di aggiunger parola. Salutò asciuttamente il canonico, e se ne andò via, pettoruto ed arcigno, dal chiostro di Santa Maria.