Il prato maledetto/IV
Questo testo è completo. |
◄ | III | V | ► |
Capitolo IV.
D’un giovanotto che voleva farsi impiccare, e d’un vecchio che voleva romper l’osso del collo alla sua figliuola.
Marbaudo, frattanto, non poteva fare a meno di avvedersi delle gite troppo frequenti del castellano Rainerio al podere di Croceferrea.
Era vasto il giro dei possedimenti, più o meno legittimi, che amministrava Rainerio; dai Vignaroli a Cairo, e via via per San Donato, per Carcare e Bausile, il dominio del conte Anselmo si stendeva fino alla corte di Lagorotondo, sotto il colle di San Giacomo, toccando sui lati Ferrania e Vignale, con le terre intermedie di Bragno, di Cengio e San Pietro di Millesimo.
Erano tutte terre, a dir vero, sprovvedute di popolo, e noi non dobbiamo giudicare della loro importanza d’allora con le nostre cognizioni d’adesso.
Molti erano i nomi dei luoghi; e taluni di essi ebbero fortuna, perchè vi crebbe l’abitato, fino a diventare un ceppo di case, e il ceppo di case un piccolo borgo di montagna; altri non rimasero ricordati che sulle carte del tempo, nei diplomi imperiali, negli atti notarili delle curie episcopali, e gran fatica si dura dagli eruditi moderni per identificare nei punti conosciuti di presente quei nomi antichissimi di corti e di ville, nomi anche spesso errati, nella trascrizione di un cancelliere Eriberto, o d’un Pietro di Cuma, i quali “rogavano„ i loro atti a Roma “feliciter„ sì, per la loro salute, ma non egualmente per la esattezza ortografica dei nomi di tanti luoghi lontani, ad essi riferiti nella forma vernacola, e da essi tradotti in un capriccioso latino.
Ma non ci perdiamo in inezie: ritorniamo a Marbaudo, che aveva capita la ragione delle troppo frequenti gite di Rainerio alla casa di Dodone.
Un rivale s’indovina d’istinto, si conosce al fiuto, come da certi cani il tartufo. Che se il mio paragone vi paresse volgare, pensate che esso è tutto a danno del tartufo, ottimo fra i tùberi, e in molte guise mangiabile. Il tartufo ha soave fragranza, mentre che il rivale ha mal odore; quello si manda giù facilmente, affettato; questo, anche fatto a spicchi, e magari in minuzzoli, vi riesce sempre indigesto.
Che il nostro giovinotto si fosse apposto al vero, sospettando di Rainerio, gli fu dimostrato uno di quei giorni dal vecchio Dodone. Il quale, imbattendosi in lui, mentre saliva il colle di Croceferrea, lo trasse bel bello con sè, per fargli vedere una sua recente piantata di viti. Marbaudo lodò, come potete immaginarvi; in primo luogo perchè Dodone faceva le cose per benino e meritava la lode di tutti gl’intendenti; poi perchè Dodone era il padre di Getruda, e chi aveva fatto Getruda non poteva far cosa che non fosse bellissima.
— E voi altri, laggiù agli Arimanni, che fate? — gli disse Dodone. — È già un pezzo che non scendo da quelle parti. Quando vado a Cairo, passo sempre per valli e per monti, da Cresta di Gallo alla Bàissa. Già, capisco: orzo e fieno, voi altri: non è vero?
— Sì, e meglio il fieno che l’orzo. Di vigna ne abbiamo poca; — rispose Marbaudo. — Sai che per la vigna non abbiamo colline abbastanza. E quel po’ di filari che si son piantati più in basso, ce li mangia la brina.
— Ad ogni terra i suoi frutti; — disse Dodone; — e ad ogni età i suoi pensieri. Quando fai conto di prender moglie, ragazzo mio?
— Eh! — mormorò il giovanotto, a cui la domanda fece sgranar tanto d’occhi. — La voglia ci sarebbe tutta, e più ancora; ma bisognerebbe trovare ben disposto il padre della ragazza.
— Gli si domanda; — disse Dodone. — Chi non domanda non ha, e chi non impara non sa.
— Padre mio, se tu volessi domandare e imparare per me....
— Dimmi il nome del vecchio, e ti servirò, ribaldaccio! — borbottò il vecchio, battendo della mano sulla spalla a Marbaudo. — Ma lasciamo per ora questo discorso, che non preme. Sarebbero contenti in casa tua che ti allontanassi dagli Arimanni, per andare a vivere in casa del tuo suocero?
— Eh! — disse Marbaudo, tentennando la testa. — Se non si trattasse di andar troppo lontano....
— Non troppo, fìgliuol mio, non troppo. Figurati un luogo dove capiti spesso.
— Allora a Croceferrea?
— Bravo! Capisci a volo; — rispose Dodone. — Ma se almeno tu mi avessi anche detto di sì.... —
Marbaudo afferrò la mano del vecchio e la strinse, l’accarezzò tra le sue.
— Dodone, — diss’egli poscia, — tu ben potevi immaginartelo. Ma se vuoi che io ti parli sinceramente, sappi che io ti servirò, come.... come l’altro giorno ci han narrato in chiesa che il patriarca Giacobbe servisse il suo parente Labano. —
Il vecchio sorrise ed ammiccò, a quella citazione biblica, che gli prometteva tante cose.
— Bada, — rispose poscia a Marbaudo, — io non ho due figlie, come Labano; ne ho una sola. Farai tu un servizio di quattordici anni per questa?
— Tutta la mia vita io li darò; — disse il giovane, andando in visibilio. — Sposo di Getruda! io! e sei tu, suo padre, che mi offri la sua mano! Io, poveretto, lo speravo così poco, che non avevo mai ardito parlartene.
— Ma avrai bene ardito parlarne alla mia figliuola, eh, ribaldaccio!
— No, davvero; non ho mai avuto questo coraggio.
O come? da un anno non passa giorno che non ti veda quassù, e tu vorresti darmi ad intendere....
— Quello che è il vero; — interruppe Marbaudo. — La cosa e proprio cosi, come io ti racconto. Qualche parola, sì, mi ò accaduto di dirla; ma niente che andasse contro il dovere, niente che accennasse ad un mio desiderio, che pure si poteva indovinare. Tu stesso, che hai notata la frequenza delle mie visite a Croceferrea, hai pensato che questa fosse una maniera di parlare.
— Si, di parlar con le gambe, che è parente del ragionare coi piedi; — rispose il vecchio Dodone, ridendo. — Ma va pur franco, ora; parla con la bocca; ti dò licenza di farlo.
— Ah! — esclamò Marbaudo, accompagnando la interiezione con un grosso sospiro.
— Ebbene, che cosa vuol dire questo ah? — riprese il vecchio aldione di Croceferrea. — Ti perdi d’animo a questo modo, e quando avrebbe per l’appunto a venirti il coraggio? Va, flgliuol mio; Getruda è sull’uscio della casa; chiedile un sorso d’acqua, ed ella, spero, non vorrà far torto alle costumanze di suo padre, e ti offrirà una tazza di sidro. Bevi, rimettiti un po’ di fiato in corpo e dille.... tutto quello che ti parrà più conveniente di dirle.
— Ma io....
— Ma tu mi sembri un allocco, ora, e mi faresti scappar la pazienza. Benedetti innamorati! Tutta la furia, quando non è ancora il momento buono; e poi, se hanno da stringere, gli cascan le braccia, chò è una compassione a vederli.
— Oh, senti! — rispose Marbaudo, punto sul vivo dai sarcasmi del vecchio. — Non è che mi caschin le braccia, se si tratta di stringere, come tu dici. Ma la tua figliuola è così severa!...
— Come dev’essere una costumata fanciulla, che non ha volontà innanzi a quella dei suoi parenti. Ma quando tu lo dirai che hai parlato con me, e che io vedo volentieri il tuo onesto desiderio ti ascolterà. Fammi la grazia! —
Con queste parole lo accomiatò, indicandogli la strada che doveva tenere. Ma egli non era tanto sicuro dentro di sò, come appariva, rispetto all’animo della sua bella figliuola.
Aveva parlato a Getruda con risolutezza paterna, lasciandole intendere ciò ch’egli desiderava, o che uomo volesse per genero. Cosi aveva preparato il terreno; e aspettava che Marbaudo facesse il rimanente, dicendo qualcheduna di quelle calde parole che piacciono alle fanciulle, e che i babbi non sanno nè possono dire, per conto dei giovani. Del resto, già gli pareva di aver fatto molto, aprendo l’animo suo a Marbaudo, andando incontro ad una confessione che costui non ardiva di fargli.
Ma a questo si era dovuto risolvere, vedendo la necessità di affrettare le cose. Rainerio poteva sviargli la fanciulla, e Dodone non aveva speranza di rifarsene, egli aldione contro un castellano, che godeva la protezione del conte Anselmo. Se anche fosse stato libero, avrebbe Rainerio impalmata la figliuola di Dodone? No, di sicuro; ambizioso com’era, avrebbe mirato a ben altro. Il meglio che potesse toccare alla bianca Getruda sarebbe stato di sposare un servo del castellano, uno di que’ ribaldi uomini d’armi, che egli teneva presso di sè, per difesa della sua persona e per mostra della sua autorità.
Ciò, non poteva convenire a Dodone; donde la necessità di affrettarsi, di togliere ogni occasione ai disegni del castellano. Forse non era che un capriccio passeggero, e le nozze di Getruda con Marbaudo l’avrebbero fatto svanire; o forse gli avrebbero dato un giro diverso, in cui il vecchio Dodone non aveva più da vedere.
Far presto, adunque; era questo l’essenziale. Che se la sua ambiziosa figliuola.... Ma perchè accogliere un dubbio di quella fatta? perchè e con quali speranze si sarebbe ella risoluta di non obbedire a suo padre? Il vecchio aldione pensava ancora a queste cose, quando si vide ricomparire dinanzi il giovanotto, mogio mogio, come un can bastonato.
— Ebbene! — gli chiese.
— Ah, Dodone! — esclamò Marbaudo, sospirando. — Io son pur disgraziato!
— E perchè?
— Perchè la tua figliuola non vuol saperne di me.
— Che sarei stato felice.... che non desideravo altro a questo mondo.... insomma, tu sai bene, tutto quel che si dice in simili momenti. — E lei?
— Mi ha risposto che non ha ancora nessuna intenzione di maritarsi.
— Ma può averne una suo padre, e di maritarla presto, di maritarla subito. Perchè non le hai fatto capire che la cosa piaceva a me, se non piaceva a lei?
— Questo io le dissi, — rispose Marbaudo. — e soggiunsi che prima di parlare a lei, siccome era debito di un giovane onesto, avevo parlato a suo padre.
— E ti disse, allora....
— Che era dolente di farmi dispiacere; ma che quella intenzione non l’aveva ancora, e che voleva rimanere in casa, senza pensieri, come c’era stata finora.
— Ho capito! — borbottò il vecchio. — Solite scioccherie delle ragazze!
— Eh, volesse il cielo che fosse così! — rispose Marbaudo. — Ma io credo di sapere, pur troppo, che cosa c’è sotto.
— Che cosa? Ti piaccia di dirlo anche a me.
— Eh, niente, niente! Sospetti miei.
— Ebbene, dimmi che cosa hai sospettato; — replicò Dodone. — Non dovevi incominciare; ora devi finire. Son padre, e voglio sapere.
— Che vuoi ch’io ti dica? Ci dev’essere qualcheduno che l’ha stregata, la tua bella figliuola. Una volta ella non era così. Non ti dirò che solo a vedermi le brillassero gli ocelli; ma infine, dal modo come mi accoglieva c’era da credere che non fossi il diavolo, per lei. Ora invece m’ha in uggia. Ah, per l’Anticristo! se ho indovinata la cagione di tutto ciò, voglio che m’appicchino sulla più alta torre di Cairo: ma prima ne avrò fatta qualcuna delle mie.
— Quale?
— Mi sarò messo sulla coscienza il castellano Rai....
— Zitto! — gridò il vecchio Dodone, mettendogli per maggior sicurezza una mano sulla bocca. — Che discorsi son questi? Vuoi farti impiccare davvero? Sei aldione, ricordalo; e puoi farti un brutto partito; e puoi farlo brutto anche a me, che ho il torto di starti a sentire. Ami tu la mia figliuola’? Orbene, sta zitto, preme a me che tu la sposi, quanto può premere a te. Dunque, non mi far ragazzate, e non ne dire, se non ti è venuta a schifo la vita. Lascia a me la cura d’ogni cosa. Veramente, io speravo che andasse più liscia; ma per san Donato, nostro buon protettore, aggiusteremo questa faccenda. Non son padre per nulla. Getruda vuol rimanere in casa a spulciare il gatto? Leveremo di casa il gatto, e la vedremo, perdiana! Tu la sposerai, te lo prometto io; va, ragazzo mio; e acqua in bocca, mi raccomando! —
Marbaudo se ne andò, sospirando e sbuffando, ma dopo aver promesso che non avrebbe tentato nulla contro il castellano Rainerio. Povero ragazzo! egli pensava alla triste novità del suo caso. Da principio, la bella Getruda lo vedeva abbastanza volentieri; certamente pareva anteporlo a tutti gli altri vagheggini della vallata. Poi, tutto ad un tratto, gli si era voltata contro, gli si era mostrata fredda, e quel giorno, poi, aveva finito con dirgli un no tanto fatto. E questo mutamento nell’animo della fanciulla si combinava con lo spesseggiar delle visite del castellano al podere di Croceferrea. Ma quali speranze nutriva in cuore la figlia di Dodone? Quali disegni aveva formati nella sua testa bizzarra? Siamo tutti così alieni dal trovare le male ragioni negli atti di una fanciulla, vissuta sempre sotto gli occhi dei parenti, nel santuario delle domestiche pareti, che a Marbaudo non balenò niente della verità dolorosa.
Egli, del resto, come ha veduto il lettore, aveva dai sermoni di chiesa qualche infarinatura di storia sacra; ma non sapeva nulla di storia profana; il caso di Fredegonda era lontano dalla sua mente; anzi, egli ignorava affatto che una Fredegonda fosse esistita, quattrocent’anni addietro, e potesse dare esempio di malvagia ambizione ad altre figliuole d’Eva, facili tutte, come l’antica madre, ad ascoltare il serpente.
Quel medesimo giorno il vecchio Dodone faceva una intemerata alla sua cara figliuola. Getruda lo lasciò dire fino a tanto non si fu bene sfogato; poi gli rispose, con la sua audacia tranquilla:
— Perchè vuoi rompermi il collo? perchè vuoi darmi in moglie al primo che capita? ti peso forse, in casa? —
Al vecchio prudevano le mani; e in ogni altra occasione non si sarebbe trattenuto dal cresimare la figliuola, senza aiuto di vescovo. Ma troppo gli premeva per altro di prenderla colle buone; perciò stette saldo, e replicò, abbastanza pacato:
— Tu mi pesi così poco, che avevo stabilito di tenerti in casa, anche maritata. Il giovanotto degli Armanni, poi, non è il primo che capita; è un buon figliuolo, intelligente, forte e bello; gran fortuna per la casa, ed ottimo partito per te. Finalmente, non ti rompo il collo, perchè lavoro a collocarti. Te lo romperai da te, restando senza marito, seguendo i capricci della tua testa e correndo tutti i pericoli che tengono dietro ai capricci. Bada a te, Getruda! finirai male, non accettando la mano di un uomo della tua condizione, finirai male!
— Che profezie! Sono stata in casa finora, e nessuno ha ancora potuto dir nulla di me. Sto bene cos=; tu non pensi a discacciarmi: perchè cambierei?
— Non vivrò sempre io; — disse Dodone. — I tuoi fratelli, o le mogli dei tuoi fratelli ti costringeranno a uscir di casa, o a far la serva ai loro figliuoli.
— Ci sarà tempo a vedere; — rispose Getruda, alzando le spalle.
Qui veramente il vecchio Dodone fu per dare di fuori; ma gli passò davanti agli occhi l’immagine fosca del castellano Rainerio.
— E tu vedi, allora; — rispose; — ma pensaci anche, prima che tu abbia a vedere.
— Ci ho pensato già; — disse Getruda.
— Ma è una vera pazzia, che t’ha presa!
— Come vorrai; ma io non voglio Marbaudo.
— Non vuoi!... non vuoi!... Ma proprio il mondo ha da finire, che una figlia risponde cos= audacemente voglio e non voglio a suo padre! Basta, per ora; ma sappi che di qua al finimondo ci corrono ancora dieci anni, ed io ti romperò davvero l’osso del collo, se non farai prima giudizio. —
Ciò detto, ed altro ancora, il vecchio aldione esci brontolando, a guisa di burrasca che s’allontani. E andò, scendendo la collina, andò tanto, risalendone un’altra e ridiscendendola del pari, che giunse fino a Cairo.
Oltrepassato l’androne della vecchia porta romana, si avviò verso la chiesa di Santa Maria, entrò nel chiostro attiguo, e domandò del canonico Ansperto.
Questi era per l’appunto in casa, ritirato nella sua cella, raccolto nelle sue meditazioni religiose.