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il paradiso delle signore

immensa. Negli angoli vi erano ornamenti piú complicati: stelle fatte di ombrellini a un franco e novantacinque, che con le tinte chiare, celeste, crema, rosa, splendevano come la dolce luce d’una fiaccola ardente dietro la porcellana; mentre sopra, smisurati ombrelli giapponesi, nei quali le gru d’oro volavano per un cielo di porpora, fiammeggiavano con riflessi di incendio.

La Marty cercava parole ch’esprimessero la sua ammirazione, e non poté dire altro che:

— È come nelle novelle!

Poi, cercando d’orientarsi:

— Guardiamo un po’: le stringhe si comprano alla merceria... Compro la mia stringa, e me la do a gambe.

— Vengo con voi! — disse la De Boves. — Bianca, non è vero? noi non si fa che traversare il magazzino, e ce n’andiamo.

Ma fin dalla porta le signore erano di già sperse. Voltarono a sinistra e, per quel tramutamento della merceria, caddero fra le gale e poi fra i vestiti. Nelle gallerie faceva un gran caldo, un caldo da stufa, pesante e rinchiuso, e carico dell’odore delle stoffe: lo scalpiccio della gente ne restava soffocato. Allora tornarono verso la porta: s’era già formata la corrente di quelli che uscivano, uno sfilare senza mai fine di donne e bambini, con sopra una nuvola di palloncini rossi. Dei palloncini ce n’erano pronti quarantamila, e garzoni apposta li distribuivano. A stare a guardare la gente che se n’andava, si sarebbe detto che enormi bolle di sapone volassero nell’aria, rattenute da fili invisibili, riflettendo l’incendio degli ombrelli. Tutto il magazzino n’era rallegrato.

— È proprio un caos! — esclamò la De


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