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1938


3 gennaio.

La vera, profonda, ragione della nostra incompatibilità è che lei accoglie tutte le cose con una franca avidità, cattolicamente, disponendole tutte in una gerarchia di valori che serba le grandi linee tradizionali. Accoglie tutto, con il corpo e con l’anima, secondo che si deve. Vedi la sua franca gioia della montagna, la dispersione stessa delle sue giornate sentita semplicemente come tale, la capacità di dedicarsi a ciò che nell’istante ha scelto di fare.

Tu hai sfasato il tuo accordo di corpo e d’anima, vivi in antinomie: voluttuoso-tragico, vile-eroico, sensuale-ideale, ecc. senza costruirle cattolicamente, senza possederti, ma osservando stupito gli eccessi di oscillazione. Tu la bevi con gli occhi mentre lei mangia la brioche. Eppure anch’essa ti vuole tutto il bene che la sua natura le consente. Ma per te è insieme la vita e la morte. Dei due, chi potrà essere vittima è però sempre lei.

[......]1. E sarebbe sempre piú quadrata di te che appunti tutto in una direzione sola. Perché tu vivi di pensieri, lei di realtà. E la realtà non è mai squilibrio, non è mai peccato. Nessuno ci crederebbe, ma quell’«essenzialmente...» è un complimento. Tanto è vero che, dove mi affaccio io, compaio in stato d’inferiorità («... e lo scrivo tremando...») E il male nasce sempre da chi è sfasato, non da chi è reale. Io non potrò mai, malgrado tutto, essere una sua vittima. Lei sí, in mille modi. Triste conforto. [p. 75 modifica]

4 gennaio.

[......]2.

Tu se ti proponi un sacrificio lo vuoi cosí intenso ed esclusivo che in definitiva non interessa piú nessuno. Ricordati sempre che alla prima comunione non deglutivi la saliva per non rompere il digiuno.

[......]3.

5 gennaio.

Non si cambia la propria natura. Hai scoperto ch’eri ingenuo, che ostentavi i tuoi sentimenti perché fossero anche piú assoluti (incapacità di mentire), e credendo di aver mutato registro, ora ostenti le tue tragiche convinzioni sulla necessità della menzogna.

Questo è definitivo: tutto potrai avere dalla vita, meno che una donna ti chiami il suo uomo. E finora tutta la tua vita era fondata su questa speranza.

[......]4.

L’arte di vivere è l’arte di saper credere alle menzogne. Il tremendo è che, non sapendo quid sit veritas, sappiamo però che cos’è la menzogna.

[......]5. [p. 76 modifica]

8 gennaio.

Non è affatto ridicolo o assurdo chi, pensando d’uccidersi, si secchi e spaventi di cadere sotto un’automobile o di buscarsi un malanno. A parte la questione del maggiore o minor dolore, resta sempre che volere uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia una suprema scelta, un atto inconfondibile. È perciò naturale che il suicida non tolleri il pensiero di cadere per caso sotto un veicolo o crepare di polmonite o qualcosa d’altrettanto insensato (meaningless). E dunque, occhio ai crocicchi e ai colpi d’aria.

15 gennaio.

[......]6.

La pena di chi si lascia andare ad atti contro natura, è che quando vorrà essere naturale non gli riuscirà piú. La storia di Jekyll e Hyde.

Tutti i caratteri che vanno famosi per olimpicità (ShakespeareGoetheSturani7 ), non hanno mai acquistato questa calma vincendo il tumulto, quasi premio di un eroico sforzo. Semplicemente erano già olimpici fin dal primo giorno, e non hanno mai dovuto fare sforzi, e se parevano sconvolti dal tumulto di una passione, avevano fin da allora un giudizioso modo di patirla che li lasciava immuni. Questo per consolarti nei tuoi sforzi di non scoppiare. Tu non sei nato olimpico e mai lo sarai: i tuoi sforzi sono inutili. Perché chi ha ceduto una sola volta al tumulto può sempre cedere un’altra. Problema d’ingegneria: ogni ponte ha una portata di là dalla quale non regge. È questione di tempra. La volontà è soltanto la tensione della propria tempra congenita. Non si può accrescerla di un’oncia. [p. 77 modifica]

La tua salvezza — bel fioretto da offrirti a trent'anni — sta soltanto nella vigliaccheria, nel ritirarsi nel guscio, nel non correre il rischio. Ma se il rischio ti cerca? E quanto durerà il guscio?

Sappi quest’altra cosa: per tremende che siano state sinora le prove, sei fatto in modo che domani saranno anche piú gravi. A te succede che cresce soltanto, con gli anni, la capacità di scatenarti, non quella di resistere. Perché il tuo guscio — oggi lo vedi chiaro — è sempre andato assottigliandosi, persino materialmente. Sei malato e disoccupato.

Come migliaia d’altri, del resto. «Neppur l’orgoglio di sentirmi solo»: eri un bel pesce, e il peggio è che lo sei ancora. Sei mai stato altro che quel bambino?

Perché la gente abbia pietà di noi occorre che ci presentiamo bene (keep smiling) che non siamo troppo sporchi, che rappresentiamo un vantaggio per chi si occupa di noi. Ma quello che veramente chiederebbe la pietà e il sacrificio — l’umiliato, l’ossesso, l’impotente, il tarlato; sudicio e malparlante; disperato e assetato — chi vorrebbe dedicargli la vita? Intendo la vita assolutamente, come sarebbe di una donna che se lo sposasse, senza riserve. Molti per carità lo sfamerebbero, lo ragionerebbero, gli laverebbero il pus, ma chi gli aggiogherebbe la sua vita?

C’è mai stato un santo che ha salvato una sola persona? Tutti ne hanno salvato molte, hanno svolto una missione, hanno cercato gli infelici, ma qualcuno si è mai fermato a un infelice, chiudendosi in questa tomba? E persino chi ha sacrificato la vita, offrendo il suo sangue per un altro, avrebbe saputo trascorrere tutti i suoi giorni aggiogato a quest’altro, a questo solo?

16 gennaio.

Vorrei esser sempre — come sono stamattina — sicuro che essendo la volontà dell’adulto condizionata dalle centomila decisioni prese via via dal bambino in stato d’irresponsabilità, è ridicolo parlare di libero arbitrio anche nell’adulto. Ci si trova a poco a poco caratterizzati (a 16, a 18, a 20, a 22 ecc.) senza sapere [p. 78 modifica] nemmeno come ci si è arrivati, ed è indubitabile che secondo il vario carattere, si agirà in un modo o nell’altro: dove va il libero e cosciente arbitrio?

È concepibile che si ammazzi una persona per contare nella sua vita? E allora è concepibile che ci si ammazzi per contare nella propria.

La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto d’ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione.

Le «illusioni» del Leopardi sono ridiscese sulla terra.

17 gennaio.

Succede questo: con un enorme dispendio di sincerità sofferta, il sentimentale raggiunge i risultati di un qualunque libertino. Si può ridere, ma l’amore è fatto cosí. Nulla nella vita vale la pena d’esser pagato di là dal suo valore. Ma la sentimentalità consiste appunto nello stravolgere i valori.

Le puttane battono a soldi. Ma quale donna si dà altro che a ragion veduta?

(notte, insonnia).


[......]8. [p. 79 modifica]

Molti che fanno morti edificanti, se li guarissero in extremis tornerebbero a imperversare.


Yet we all kill the thing we love
by all let this be heard
some do it with a bitter look
some with a flattering word...

[......]9.

Amare senza riserve mentali è un lusso che si paga si paga si paga.

19 gennaio.

Non c’è assolutamente nessuno che faccia un sacrificio senza sperarne un compenso. È tutto questione di mercato.

Se l’unica educazione la può dare il dolore, domando perché sia filosoficamente proibito d’infierire contro il prossimo, educandolo nel miglior modo?

Se in questa giungla d’interessi ch’è la terra dite che una cosa per bene c’è, e sarebbero gli entusiasmi per l’ideale — domando, quali ideali? — perché siete poi i primi a rompere la testa e trattare da delinquente chi non ha il vostro ideale. Ammettiamo dunque che ci si può sbagliare nella determinazione dell’ideale: una volta ammessa la possibilità d’errore, che cos’altro diventa la propria ricerca se non un problema d’astuzia? E allora — chi nasce astuto, chi no — dov’è piú la responsabilità? [p. 80 modifica]

Perché il veramente innamorato chiede la continuità, la vitalità (lifelongness) dei rapporti? Perché la vita è dolore e l’amore goduto è un anestetico, e chi vorrebbe svegliarsi a metà operazione?

Le crudeltà che si commettono contro il codice, sono una povera banale cosa, rispetto alle inaudite, acutissime, strazianti crudeltà che si esercitano per il solo fatto di esser vivo e tirare avanti alla peggio.

La solitudine è sofferenza — l’accoppiamento è sofferenza — l’ammassamento è sofferenza — la morte è la fine di tutto.

[......]10.

L’astuzia dell’uomo virtuoso! È possibile la virtú senza l’astuzia? Chiamo astuzia la capacità di cogliere i valori. E, senza calcolo, nessuno è buono. Perché il «puro folle» non è che un folle, anzi uno scemo.

Ma sono inconsciamente convinto che senza disinteresse si è solo — egoisti. Vedi le donne che, puoi strozzarle, ma non scorderanno mai l’interesse. E quelle sarebbero virtuose?

[......]11.

21 gennaio.

Una donna tiene a saper svegliare il desiderio dell’uomo, ma inorridisce se si conosca questa sua capacità. [p. 81 modifica]

Il fatto che la poesia decadente francese e quindi europea si sia formata e confortata sull’esperienza secolare di song inglese e specialmente su Poe, non starebbe a provare che gran parte del suo gusto per gli effetti fonici e delle sue ricerche sul valore essenziale, magico delle parole, nasce dalla frequentazione di una poesia straniera sempre soltanto semicompresa e quindi gustata essenzialmente come suono e come suggestione magica di sillabe misteriose?

22 gennaio.

È concepibile un individuo che facendosi piccino, scomparendo, scolorando, attraversi con una compagna gli anni migliori della sua vita, intatto da sventura. Non è concepibile un trionfatore, un fragoroso, un erotico, che sfugga all’ironia della vita.

Chi avrebbe mai pensato che dopo aver mirato in tutti i modi all’isolamento sessuale, all’«autarchia», avrei scoperto sulla mia pelle, che desideravo di sposarmi essenzialmente come prova di fiducia da parte della donna? E per serenità sessuale?

Se nascerai un’altra volta dovrai andare adagio anche nell’attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci.

 (Sua)

«Per capire che esser gelosi carnalmente è una sciocchezza bisogna essere stati libertini»...

24 gennaio.

Il sentimentale (= deformatore di valori) detto anche sognatore, comincia credendo che la sua inettitudine alle cose pratiche [p. 82 modifica]sia uno spregevole scotto da pagarsi all’Armonia Prestabilita in compenso delle ineffabili consolazioni e trionfi che troverà nei suoi sogni.

Poi scopre che anche il mondo dei sogni richiede una pratica, una astuzia, tale quale l’altro. Ma succede sempre che se ne accorge quando non è piú in tempo per vincere l’inveterata ingenuità. E questo è lo scotto vero che gli tocca di pagare.

In fondo io non cerco altro nella vita che le prove per darle della vacca dalla testa ai piedi. A chi? alla vita?

Impara da lei: tutte le volte che le leggi qualche pensiero indiscutibile e offensivo, lei sorride tollerante e non accetta la discussione. Cosí fanno i furbi. Specialmente con se stessi.

Si dovrebbe stupirsi se fosse diverso: si accumula, si accumula rabbie, umiliazioni, ferocie, angosce, pianti, frenesie e alla fine ci si trova un cancro, una nefrite, un diabete, una sclerosi che ci annienta. E voilà.

Il brutto delle disgrazie è che avvezzano a interpretare come disgrazie anche le cose indifferenti. (Sarà corretto il 1° novembre ’38).

Hanno ragione gli idioti, i pazzi, i testardi, i violenti, tutti meno le persone ragionevoli. Che cosa altro si fa nella storia, se non inventare spiegazioni ragionevoli per le proprie pazzie? Che è come evocare dei nuovi pazzi che metteranno tutto a soqquadro.

Bisogna esser pazzi, non sognatori. Essere al di qua dell’assestamento, non al di là.

Un pazzo può ancora rinsavire, ma al sognatore non resta che staccarsi da terra.

Il pazzo ha dei nemici. Il sognatore non ha che se stesso. [p. 83 modifica]

Il Cristianesimo non può morire perché contiene la possibilità di tutte le discipline.

Quest’è l’estratto di tutti gli amori:

si comincia contemplando, si finisce analizzando,
esaltati curiosi

Che cosa me ne importa di una persona che non sia disposta a sacrificarmi tutta la sua vita? Che questa sia l’inconfessata pretesa di ciascuno, si vede da ciò che ciascuno si sposa (o vorrebbe sposarsi). Forse che sposarsi è chiedere altro? Va da sé va da sé che anche noi siamo pronti al reciproco. Sí ma with a difference: se quell’altra persona cambia idea, naturalmente la cambieremo anche noi, mentre non è affatto naturale che se noi cambiamo idea (un cornetto fatto la domenica), anche l’altra abbia questo diritto. Dico bene?

25 gennaio.

Vivo attualmente come i piú spregevoli personaggi che mai mi abbiano fatto indignare in gioventú.

26 gennaio.

[......]12.

Non si sfugge al proprio carattere: misogino eri e misogino resti. Chi lo crederebbe?

È chiaro no, che senza di lei non accetti piú la vita? È chiaro che non tornerà mai piú indietro e se anche, che ormai ci siamo troppo violati, per convivere ancora? E dunque? [p. 84 modifica]

Perché scrivere queste cose, che lei leggerà e magari la decideranno a intervenire e darti il giro? Che altra vita faresti in questo caso se non ottobre ’37?

Ricorda che tutto è scritto: febbraio ’34 — la prima volta che hai salita quella scala e ti sei fermato a pensare che forse cominciava la fine.

Le manette di Sapri. A ogni urto di ruota ripetevi il suo nome.

[......]13. Lo sai che domani magari prendono il treno insieme e non ne saprai mai piú nulla? mai piú; come se tu fossi morto?

Da bambino soffrivi questo, vedendo due grandi che sprezzanti e soddisfatti si guardavano.

E non sapevi bene che cos’era che pensavano di fare e non avevi trent’anni. Ora sei come allora — soltanto sai l’orrore di quelle strette e hai trent’anni e non crescerai piú.

[......]14.

Oseresti tu causare tanto male? Ricorda come hai congedato E.

Ma tutto è ambivalente. L’hai congedata per virtú o per vigliaccheria?

Consolante pensiero: non contano le azioni che facciamo, ma l’animo con cui le facciamo. Cioè: soffrano pure gli altri, tanto non c’è altro al mondo che sofferenza: il problema è solo come portare una coscienza pura. E ciò sarebbe la morale.

Idiota e lurido Kant — se dio non c’è tutto è permesso. Basta con la morale. Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostojevskij, tutto il resto sono balle. [p. 85 modifica]

La morale è il mondo dell’astuzia. Solo la carità fa per te. Ma carità è un eufemismo per dire annientamento.

26 gennaio.

(insonnia).


[......]15.

Dicono delle donne timorate di dio, che son santarelline. Ma la libertà di spirito, alle altre, serve semplicemente a rialzare i prezzi.

1° febbraio.

È facile essere buoni quando non si è innamorati.

2 febbraio.

Le donne piú esigenti in fatto di capitali nel pretendente sono quelle che «loro il denaro lo disprezzano». Perché, per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto.

Vuoi sapere a che cosa pensa una donna quando le chiedi di sposarla? Leggi Moll Flanders.

3 febbraio.

Carissima. Malgrado questi mesi d’orrore, malgrado questa distruzione stupida e inconscia d’ogni energia che restava a un poveruomo che ha soltanto saputo straziare; malgrado la [p. 86 modifica]dissipazione di ogni bene che ancora avremmo potuto in avvenire vivere insieme; malgrado tutto il male che mi ha fatto — la compiango nella sua tristezza e nella sua inutilità, voglio bene non soltanto a quel corpo, ma ai suoi occhi pesanti, a tutte le sue futili e affannose fatiche, a tutto il suo splendido passato di povera bella donna innamorata della vita. Povera bambina: sia questo il mio saluto e la mia preghiera.

5 febbraio.

[......]16.

Perché quest’allegrezza sorda e profonda, fondamentale, che sorge nelle vene e nella gola di chi ha stabilito di uccidersi? Davanti alla morte non dura piú che la bruta coscienza che siamo ancor vivi.

9 febbraio.

L’origine di tutte le violenze tra uomo e uomo, e for all that tra uomo e donna, sta in questo che rarissimamente ci si trova d’accordo sul valore di un fatto, di un pensiero, di uno stato d’animo: ciò che per uno è tragedia per l’altro è gioco. E anche se inizialmente tutti e due sono disposti a sentire come seria una situazione, accade — essendovi sempre una lieve differenza d’intensità — che il piú serio è portato a esagerare la sua serietà e il meno a trasformare il tragico in gioco, per quell’amore di euritmia, di coerenza, di assolutezza, che è in tutti.

Potrebbe sfuggire a questo destino chi sapesse star da solo — esaurire tutte le sue esigenze nel giro chiuso della sua persona. Ma siamo cosí fatti che anche i nostri moti piú interiori cercano appoggio in un consenso sociale. E anzi, quelli che vivono piú solitari sono portati, quando trovino una risposta nel prossimo, a [p. 87 modifica]buttarcisi con piú entusiasmo ed esclusività, tendendo a creare una molteplice solitudine di anime. Per cui non si consiglierà mai abbastanza, a chi sia convinto dell’essenziale solitudine di ciascuno, di disperdersi in innumerevoli, e perciò poco impegnativi, legami sociali.

La solitudine vera, cioè sofferta, porta con sé il desiderio di uccidere.

15 febbraio.

Quante volte abbiamo preso questa sicura e buona risoluzione di «stare su di noi» — di trattarla come se tutto cominciasse ora ma con l’inenarrabile vantaggio che conosciamo ogni suo scambietto? E quante volte siamo venuti meno? Vediamo perché. Abbiamo fumed in solitudine, e di qui fatto l’ammazzato in sua presenza. Devi essere calmo e pronto in sua presenza; occupato in solitudine. Fare lo scoglio, non piú l’onda. Ricreare la tua solidità del ’33 in barca. Riempire le riserve interne di succo. Concedere, non chiedere. Aspettare. Conosci la strada di ogni impulso. Dominare tutti quelli che portano alle note situazioni avvilite. Se non sai far questo, non farai mai nulla.

[......]17.

16 febbraio.

Sono soddisfatto di aver sempre atteso qualcosa da Pinelli. Con l’Ippogrifo dimostra di intendere molte cose moderne che pareva ignorare, e di essere sensibile al ritmo della città. Questa tecnica ha possibilità infinite. Permette di raccontare con tutta la concisione della scena. Accompagna il cinema.

È bello vedere che sotto questa vitalità resta cattolico; anzi la fede è la sua spina dorsale. È inutile, in tutti i tempi, di moderne veramente, non c’è che le persone di buon senso. [p. 88 modifica]

Abbiamo delle debolezze. Siamo convinti che il proprio bagaglio nessuno lo può cambiare. Cerchiamo con l’astuzia di trasformare in valori le debolezze. Ma se nel bagaglio manca proprio l’astuzia?

Ti piacciono le cose assolute? Non puoi costruire un amore totalitario: costruisci una bontà totalitaria. Ma non far coglionerie: escludi il sesso.

17 febbraio.

I giudizi morali di Madame Bovary ignorano ogni principio, se non quello dell’artista che violenta e atteggia ogni gesto umano. Certi si ringalluzziscono del quadro che dell’amore dà Madame Bovary intendendolo una sana critica dei ciarpami romantici fatta da una robusta coscienza, e non vedono che la robusta coscienza non è altro che il guardar netto, lo sciorinare con foga i tristi moventi umani. Come si può vivere, secondo Madame Bovary? In un solo modo: facendo l’artista tappato in casa.

Guàrdati bene dal prendere sul serio le critiche di Flaubert alla realtà: non sono fatte secondo altro principio che questo: tutto è fango, tranne l’artista coscienzioso.

19 febbraio.

Quei filosofi che credono all’assoluto logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con una donna.

20 febbraio.

Dovendo perdere una persona carissima, chi non preferirebbe che costei muoia piuttosto che semplicemente se ne vada e riviva altrove? Si può tollerare che quella, che era tutta la vita, cessi di [p. 89 modifica]essere tale per noi e cominci ad esserlo per altri o per sé sola? Suppongo anche che il distacco sia tale che escluda ogni possibilità di ritorno e ripresa.

Non sei stato capace di porre un argine alla tua vita e vuoi incanalare e descriverne di quelle altrui?

Tu delle cose dello spirito (arte, moralità, dignità, conoscenza) hai rimasticato quel tanto che è bastato a lasciartene nella bocca il gusto, poi sei tornato al tuo pane e patate.

Dimentichi sempre che sei nato schiavo. Ti pare sempre di ricevere dei torti. Ma può uno schiavo ricevere dei torti?

La bontà che nasce dalla stanchezza di soffrire è un orrore peggio che la sofferenza.

[......]18.

21 febbraio.

Perché essere geloso? Lui non vede in lei quel che vedo io — probabilmente non vede nulla. Tanto varrebbe esser geloso di un cane o dell’acqua della piscina. Anzi, l’acqua è piú all-pervading di qualunque amante.

Perché quasi tutti hanno sofferto una delusione d’amore? Perché proprio l’amore in cui si sono buttati con slancio, li deve tradire — per la legge che si ottiene solo ciò che si chiede con indifferenza. [p. 90 modifica]

23 febbraio.

Per ottenere amore tragico ci vuole astuzia. Ma sono appunto gli incapaci di astuzia che hanno sete di amore tragico.

25 febbraio.

Nella pausa di un tumulto passionale — oggi — l’ultimo? — rinasce voglia di poesia. Nella lenta atonia di un silenzioso collasso nasce voglia di prosa.

La chiusa violenta e stremata di una passione somiglia al tuo arrivo a Branca19. Ti sei guardato intorno stupito e ammaccato, e hai visto dell’aria, delle case, della spiaggia bassa — tutto a colori aspri e teneri, come il rosa su una parete scabra. E hai tirato un sospiro di sollievo.

Chiari, i primi giorni. Ma poi? Appena ti sei accorto ch’eri solo?

Bisogna confessare che hai pensato e scritto molte banalità nel diarietto di questi mesi.

Lo confesso ma c’è qualcosa di piú banale che la morte?

Ragionamento d’innamorato: s’io fossi morto lei continuerebbe a vivere e ridere e correre la buona fortuna. Ma mi ha piantato, e continua a vivere e ridere, ecc. Dunque, io sono come morto.

1° marzo.

Glamis hath murdered sleep. [p. 91 modifica]

5 marzo.

Vendicarsi di un torto ricevuto è togliersi il conforto di gridare all’ingiustizia.

L’amore interessa la persona amata in ragione delle cose che porta con sé. Per cui chi si preoccupa di amare sinceramente e integralmente quasi mai ha avuto tempo nella vita di accumulare le cose (personalità, ricchezze, forza, mezzi, qualità, ecc.) che farebbero accettare il suo amore. Dell’amore in sé nessuno sa che farsene. E siamo giusti: che cos’è l’amore in sé, altro che la libidine di uno scimmione?

10 marzo.

Un uomo che soffre lo si tratta come un ubriaco. «Su, andiamo, basta, via, ora basta, non cosí, basta...»

23 marzo.

Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi.

Ciò che non si è saputo fare con la forza vergine dei venticinque anni, come è possibile farlo con le tare dei trenta?

Farsi amare per pietà, quando l’amore nasce solo dall’ammirazione, è un’idea molto degna di pietà.

Che non riusciremo mai a piantarci nel mondo (un lavoro, una normalità), è chiaro.

Che non conquisteremo mai una donna (né un uomo), è chiaro, tanto per la precedente debolezza quanto per quella che sai. [p. 92 modifica]

Che non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire, è chiaro — vedi l’esperienza fatta.

Che non avremo mai il coraggio di ammazzarci, è chiaro — vedi quante volte l’abbiamo pensato.

[......]20.

26 marzo.

A che cosa ha servito questo lungo amore?

A scoprire tutte le mie tare, a provare la mia tempra e giudicarmi.

Vedo ora il perché del mio isolamento fino al ’34. Sentivo inconsciamente che per me l’amore sarebbe stato questo massacro.

Niente si è salvato. [......]. La coscienza si è spaccata: vedi lettera e tentazione omicida. Il carattere si è piegato: vedi confino. L’illusione dell’ingegno è svanita: vedi lo stupido libro e la mia natura di traduttore. La fermezza dell’uomo comune, persino, è venuta meno: a trent’anni non ho un mestiere.

Sono arrivato al punto di sperare la salvezza dall’esterno, e non c’è oscuramento piú grande: penso ancora che con lei potrei vivere e lottare. Ma di quest’illusione fa giustizia lei stessa: mi ride in faccia e cosí risparmia anche quest’ultima penosa esperienza.

«... Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
noi gli uomini, i padri...»

Tutto giusto. Solo che non siamo stati nemmeno padri.

[......]21. Anche fisicamente, ora non sono piú lo stesso.

Eppure è accaduto a molti che un amore li ha distrutti e ammazzati. Sono forse piú bello perché non debba capitare a me?

La lotta ora non è piú tra il sopravvivere o decidermi al salto. È tra decidermi al salto da solo come sono sempre vissuto, o portare con me una vittima — perché il mondo se ne ricordi. [p. 93 modifica]

Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare cosí. Nessuno ci crede: è naturale. È forse questa la mia vera qualità (non l’ingegno; non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.

È davvero l’ultimo orgoglio: nessuno per nove mesi avrebbe retto a uno strazio simile. Anche lei che parla: un altro — chiunque — a quest’ora l’avrebbe già uccisa.

[......]22.

La cosa segretamente e piú atrocemente temuta, accade sempre.

Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.

27 marzo.

Una domenica passata a vagolare col pensiero come una mosca legata, tutto intontito corpo ed anima, percorso da brividi di rabbia, o stretto dalla mano di ferro, o blandito da una vagula apprensione di futuro meno atroce.

Osservo che il dolore abbrutisce, intontisce, schiaccia. Ogni tentacolo con cui una volta sentivo, provavo e sfioravo il mondo, è come troncato e incancrenito al moncone. Passo la giornata come chi ha urtato uno spigolo con la rotula interna del ginocchio: tutta la giornata come quell’istante intollerabile. Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un’enorme ferita.

Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani avrò una rapida felicità, e poi di nuovo i brividi, la stretta, lo squarcio. Non ho piú fisicamente la forza di star solo. Una volta sola mi è riuscito, ma ora è una ricaduta e, come tutte le ricadute, è mortale.

Eppure a questo stato si aggiunge un’altra sofferenza, come chi, [p. 94 modifica]tagliato in due, senta ancora un mal di denti. È questa: che da Brancaleone ho scritto un 2 febbraio una lettera simile, quella della crosta. Quale è stata la mia vita da allora? Valeva la pena essere cosí vile, per ottenere che cosa? Altri squarci, altra cancrena, altro sfottimento.

Sono diventato idiota. Mi chiedo e richiedo: che cosa le ho fatto di male? Abbi il coraggio, pavese, abbi il coraggio.

[......]23.

Pensa che hai un merito, se spacci te solo. Ti sarà contato.

25 aprile.

Perché — quando si è sbagliato — si dice «un’altra volta saprò come fare», quando si dovrebbe dire: «un’altra volta so già come farò»?

6 maggio.

A tutto c’è rimedio. Pensa che sia l’ultima sera che passi in prigione. Respiri, guardi la cella, ti intenerisci sui muri, sulle sbarre, sulla scarsa luce che entra dalla finestra, sui rumori che sussultano da ogni parte e ormai appartengono a un altro mondo.

Perché ti fa pena la cella? Perché è diventata cosa tua. Ma se ti dicono improvvisamente che c’è un errore, che non uscirai domani, che resterai non sai ancora quanto, manterrai la calma?

Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso?

Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare? [p. 95 modifica]

11 maggio.

Esamina quante cose ti piacciono e ridestano solo perché «fanno bizzarro» e vergógnati.

Tra le persone non piú tanto. Ma nella natura! Il giardino tigrato, le nuvolette della primavera, il salto da Torino alla pianura della Dora, l’odore di benzina tra le piante dei viali ecc. ecc.

In fondo tutto il delirante delle tue passeggiate è fatto di bizzarro, che si differenzia dal pittoresco dell’800 solo perché hai avuto la bontà di preferirlo.

Va da sé che vorremmo dargli un valore universale tanto solidamente costruito da riscattarlo. «There is no excellent beauty that bath not some strangeness...» Tutto il problema sta nella strangeness. Ma la frase continua «... in the proportion». Vale a dire: la costruzione della bellezza deve avere bizzarro, gli elementi vanno banali e — dico io — immediatamente riconoscibili. Perché, insomma, scoprire una strangeness di cose è facile e non significa nulla; bisogna scoprire una strangeness di rapporti — di costruzione - e allora si sarà insegnato a vedere il bizzarro, si sarà mostrato come il bizzarro nasce e vive tra la banalità e serietà universali.

Indiscutibile essendo che tutta l’arte mira alla «meraviglia»: meglio, a «insegnare la meraviglia». Stupendosi del «come» e non del «che» ci si potrà stupire poi, sempre che si voglia.

13 maggio.

Siccome Dio poteva creare una libertà che non consentisse il male (cfr. lo stato dei beati liberi e certi di non peccare), ne viene che il male l’ha voluto lui. Ma il male lo offende. È quindi un banale caso di masochismo.

E stare attenti che il poeta ragiona col come e non col perché. «Hai fregato X., fregherai me; come me, Y.; come lui, me ecc.».

Vendredi, treize, — indiscutibilmente, non siamo piú bambini. [p. 96 modifica]

16 maggio.

Hai sfogliato Lavorare stanca e ti ha avvilito: composizione larga, assenza di ogni momento intenso che giustificherebbe la «poesia». Le famose immagini che sarebbero la struttura stessa fantastica del racconto non le hai vedute: valeva la pena spenderci dai 24 anni ai 30? Al tuo posto, io mi vergognerei.

24 maggio.

È bello quando un giovane — diciotto, vent’anni — si ferma a contemplare il suo tumulto e cerca di cogliere la realtà e stringe i pugni. Ma meno bello è farlo a trenta come se niente fosse successo. E non ti viene freddo a pensare che lo farai a quaranta, e poi ancora?

26 maggio.

La ragione perché gli unici filoni ricchi di materia che hai trovato sono gli anni dai sei ai quindici, da cui ti giungono storie e poesie mature e saporite — è questa: in quegli anni vivevi nel mondo, vitellescamente e ottusamente ma nel mondo. Il tuo io interessava sí tutti i tuoi contatti pratici col mondo, ma lasciava intatta tutta la corrente di simpatia tra te e le cose.

Dopo i quindici il tuo io è uscito dalla brutalità pratica, e ha cominciato a erigersi anche in un mondo ch’era stato sin allora della contemplazione pura. E ogni cosa si è fatta sterile e torbida e voluta.

Il problema di uscire dall’adolescenza trentenne in cui ti muovi, è questo: vedere i maneggi della virilità con lo stesso occhio pratico con cui il bambino vedeva i suoi, ma tuffarti con la stessa ingenuità nella corrente di simpatia per questo lurido mondo.

In fondo, l’unica ragione perché si pensa sempre al proprio io, è che col nostro io dobbiamo stare piú continuatamente che non con chiunque altro. [p. 97 modifica]

A proposito di quella storia dei filoni. È però da rilevare che delle molte esperienze della tua infanzia, tu hai scelto certe che hanno un’aria di famiglia, tra sognante e brutale, e le hai scelte proprio nella lunga elaborazione degli anni adolescenti. Come resta?

È un fatto che veramente tuo è ciò solo che ti ritorna infinite volte alla fantasia, e non puoi non sognare. Problema: lo scegli perché hai dei gusti già formati, o è esso che ti forma il gusto? La solita risposta — che nascono insieme — non mi sembra gran cosa.

30 maggio.

Ennesimo distacco. Ciò che dipende da sé soli, basta volerlo decisamente, e si ottiene. Ciò che dipende dal consentimento altrui è un do ut des, in cui non bisogna assolutamente mostrare volontà disperata e sincera. Soltanto con l’indifferenza si ottiene, e si conserva.

Vigono, nei problemi di convivenza, le stesse leggi che regolano il mercato. Essere tanto indifferenti da sapere contrattare.

Sinceri con se stessi, falsi con gli altri.

L’unico modo per conservarti una donna — se ci tieni — è metterla in una situazione tale che il mondo, il rispetto umano, l’interesse, ecc. le impediscano di andarsene. Chi cerca di conservarsela per pura forza di dedizione e di sincerità è un ingenuo. Avere la legittimità dalla propria: è il modo con cui si stabilizzano le rivoluzioni e si tengono le donne. Liberarsi da ogni nobile gusto, e accettare di essere a righteous citizen, un grasso borghese. Guarda come si sono messi a posto principescamente le tue conoscenze. Chiavar bene e mangiare meglio; piace a tutti.

Ed è gente che si stupirebbe moltissimo se tu mettessi in dubbio che si sacrifica per gli ideali. La vita pratica è astuzia, nient’altro.

Tutto si riduce alla sacramentale astuzia della fidanzata che non deve dargliela al moroso, altrimenti lui la pianta. [p. 98 modifica]

31 maggio.

Eppure, fin che sentirai dentro di te quest’astio, fin che sarai costretto a non fantasticare per non impazzire, fin che «accuserai la botta», è chiaro che non potrai piú lavorare. Almeno le cose bisogna amarle, per creare qualcosa. Per essere solo e creare qualcosa. Chi odia, non è mai solo: è in compagnia dell’essere che gli manca. Ma per amare le cose, bisogna amare anche le persone. Non si scappa. Infatti, la logica conclusione del tuo stato è il suicidio. O commetterlo una buona volta o perdonare al mondo — e a lei, che è tutto il mondo. Perdonale, e cosí sarai solo — solo con lei. Anche questa è astuzia.

Che tutta la tua posizione sia falsa si vede dal terrore che hai della sua morte e del suo suicidio. Se veramente l’odiassi, dovrebbe sorriderti questo pensiero. Ma ti atterrisce, dunque non l’odi. Che sia perché ti vedi sfuggire la vittima? C’è anche questo, ma non basta a spiegare la tua ansia. Che sia per semplice vigliaccheria di sapere la cosa fatta? C’è anche questo — e dovresti vergognartene — ma non basta a spiegare quest’ansia. — Dunque perdonale, sii quell’uomo che hai sempre finto e abbi pace.

2 giugno.

Nelle cose sessuali mi pare che l’uomo soddisfacendosi si tranquillizza e distacca, la donna si riaccende e illibidinisce.

Ragione questa del fatto naturale che la donna sfugge, e tenta perennemente di lasciar l’uomo con l’uzzolo, per legarlo a sé. Mentre all’uomo non serve di rifiutarsi alla donna per legarla a sé.

Inoltre la donna che fa il figlio, trova in questo la sua pace; l’uomo, se non trovasse la pace nel semplice coito, non la troverebbe mai.

3 giugno.

In questo mestiere di poetare non è la calda ispirazione che crea l’idea felice, ma l’idea felice che crea il calore ispirato. [p. 99 modifica]

D’estate e in primavera, al caffè, per i corsi, sotto i portici ecc. le donne eleganti che passano mi ricordano sempre le antiche babilonesi o le alessandrine. Probabilmente è tutto effetto dei belletti, delle unghie rosse, delle gambe scoperte, risaltate dal sole e dal sereno e dall’ozio, e quindi miste di barbarico e raffinato, secondo appunto che immagino quelle due civiltà.

7 giugno.

Pericoli di far troppo l’angelo: quando il mondo ti tratta come ha sempre legittimamente trattato gli angeli, con sadica e divertita villania, ecco che diventi il peggiore e piú abbietto demonio, quello che, incapace di far bene il male, impiega una giornata a uccidere un coniglio perché ogni tanto si ferma a rimproverarsi e poi ricomincia perché i guaiti del coniglio lo insospettiscono di essere preso in giro. Non c’è nulla di piú deforme che un angelo decaduto.

Tra le altre profondità del cristianesimo metti questa: il vero male viene da chi era un tempo buono, non da uno spirito che, essendo sempre stato cattivo dall’eternità, non avrebbe nessun accanimento possibile e un bel giorno si seccherebbe delle sue carognate.

Una conferma di ciò è la tradizione che fa di Nerone giovane un San Luigino ipocrita e smanceroso.

Peccato che tutto ciò sia un’interpretazione romantica (il Corsaro, il Bandito per vendetta) e come tutte le scoperte che fai non valga nulla.

Le cose che ti sono accadute finora, avrebbero dovuto accaderti sui vent’anni. Questa è tutta la tua anormalità, non l’ingegno o che so io. In questa sperequazione tra possibilità vitale ed esperienza sta la causa del tuo apparente fiorire sui venticinque e della decadenza attuale. Innumerevoli cose ti mancavano allora, cui supplisti con la dedizione appassionata alla singolarità e alla poesia; troppo tardi le hai avute ora per saperle ancora giudicare nel loro concreto valore. Hai deformato tutto. [p. 100 modifica]

Naturalmente, però, se questa sperequazione è stata, non è nata dal caso, ma da una tua iniziale sordità e dispersione che stravolse sui vent’anni i valori e ti fece cercare cose insolite in modo insolitamente storto. Perché chi cerca trova e le esperienze muovono soprattutto dall’intimo e abbiamo le avventure che scegliamo di avere.

La sublimazione e l’angelicamento delle donne nello Stil Nuovo, non era poi un modo di levarsi d’attorno l’empiastro e badare, dopo reso l’omaggio, a cose piú serie e vitali?

La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.

Sono in ritardo di almeno otto anni sui miei coetanei. Solitamente essi a ventidue sono già convinti di ciò che a trenta non mi convince ancora.

È ridicolo supporre che i propri rapporti vitali con una persona possano mai cambiare.

11 giugno.

Osservo che non ho quasi verso di lei risentimento. Credo che sia buon segno di perseveranza.

[......]24.

Una cosa anche ostica è un conforto se la scegliamo noi, mentre se viene imposta da altri è tutta sofferenza. [p. 101 modifica]

È una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi, retorica.

Del resto Cristo — il nostro divino modello — non pretendeva di meno dagli uomini.

Da chi non è pronto — non dico a sacrificarti il suo sangue, che è cosa fulminea e facile — ma a legarsi con te per tutta la vita (rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) — non dovresti accettare neanche una sigaretta.

Cara mia, coi bambini non si scherza. Sono stato un bambino anch’io (primo mese).

12 giugno.

Terzo pomeriggio della morte di lei.

Vissuto eroicamente e non voluttuosamente.

Che la poesia venga piú di rado, non vuol dire che sia finita, ma che sono meno contentabile in fatto di soggetti e di esecuzione.

Tutti gli «affetti piú sacri» non sono che una pigra abitudine.

13 giugno.

[......]25.

Che cosa c’è di piú puro stile alfieriano che questa lettera? Che tutto il mio contegno in questa storia? E tutti i rovelli, gli schianti, gli urli, ecc.? Nient’altro che la storia di Saul: non valeva la pena di nascere un secolo dopo.

Per me ha ancora da avvenire la rivoluzione francese, e quando avverrà mi disgusterà. [p. 102 modifica]

16 giugno.

C’è il tipo d’uomo che non può tollerare di lasciare una donna, una persona in genere con la quale sia entrato in rapporto geloso, senza sbatterle la porta in faccia.

Non credo che sia malvagità. È semplicemente bisogno di fare clamorosamente, totalitariamente quello che in altro modo parrebbe solo approssimativo e non certo.

È debolezza. Consiste in attaccarsi ai simboli esterni della separazione (parolacce, schiaffi, gesti, scandali) per mera sfiducia verso la propria intima risoluzione.

È paura di esser fatto fesso e vedersi rimettere nella situazione di prima — nel quale caso sarebbero desolatamente irriti, sprecati, tutti gli spasimi che la separazione ha pure causato.

Non è malvagità. Ma certo tutte le malvagità nascono di qui, se tutte nascono dall’ambizione frustrata.

Con la tua definizione del sacrificio che consisterebbe in vivere con una persona, non nel rinunziarvi, ottieni di mettere dalla parte del torto chi ti rifiuta. Ma perché poi si debbono fare sacrifici?

Non ti accorgi che — se pure rigetti una sana e normale struttura morale — ti resta il culto del gesto morale, privato di ogni appiglio storico o trascendente — cioè mera retorica?

[......]26.

17 giugno.

L’effetto del dolore (disgrazie, sofferenze, quando siano mentali) è di creare un filo spinato nella mente e costringere i pensieri a evitare certe aree, per sfuggire alle angosce che vi regnano. In questo senso, soffrire limita l’efficienza spirituale.

Che, finito il dolore, la propria potenza si trovi accresciuta non è poi tanto gloriosamente vero, anzitutto perché un certo [p. 103 modifica]indolenzimento nell’area resta sempre, e una tendenza a evitare il malo passo, e poi perché, se durante la pena non si è acquistato nulla, non si vede come si possa acquistare dopo, nella normalità.

Il fatto è questo, che si è acquistata esperienza: la cosa cioè piú astratta e vana. Quanto alla tempra, la si è solo indebolita. Nessun carattere ha dopo un dolore la tempra che aveva prima. Come nessun corpo dopo una ferita ha la salute di prima, se non un indurimento esacerbato: il famoso stato corneo.

Tutti questi grandi spiritualisti parlano in fondo di risultati materiali: nozioni su se stesso, sulla vita, massime che ci si dà, ecc. L’efficienza, la tempra, la «portata del ponte», ognuno vede chiaramente che col dolore subisce soltanto una limitazione d’attività, e quando ritorna ad avere campo libero non ha nemmeno il vantaggio di essersi rinvigorita con un riposo — dato che soffrire travaglia e lima anche se non lascia libero gioco.

20 giugno.

È notevole come divenendo adulti non s’imparino nuovi modi di fare il bene — di essere buoni — ma soltanto di fare il male, anzi di essere cattivi. Di questi sí, non si finisce mai d’impararne.

Perché? Forse perché il piú serio desiderio di bontà non va oltre la ricordata innocenza infantile? Dico ricordata, perché in pratica si era carogne anche allora.

22 giugno.

Il mondo si vive con l’astuzia. E va bene. Solamente gli astuti sanno fare il male, trionfando. Chi soffra di questo stato di cose e decida di fare una porcata per vendicarsi, per mettersi a posto, per trionfare, deve riflettere che poi gli toccherà sempre di vivere con astuzia, saper trionfare, altrimenti l’astuta porcata commessa una volta tanto servirà solo a tormentarlo, contrastando con tutto il suo persistente stato di non-astuto, di non-porco, d’inetto. [p. 104 modifica]

Il peccato è agire contro il proprio solito. È una rottura d’equilibrio.

Di qua nasce che quando uno ha peccato (cioè gli rimorde, altrimenti non è peccato), tutta la propria vita pare messa in questione.

Consiglio ai peccatori: non mai fermarsi a metà, ma impegnare tutto se stesso e cercare di darsi il nuovo indirizzo come un’abitudine, di trasfigurare in questo senso specialmente il proprio passato.

Può parere il contrario, ma la cosa che piú fa orrore a chiunque, è di svegliarsi, un mattino, diverso dalla sera prima. Perdere cioè il senso della propria impalcatura.

Qual è la differenza tra un delitto compiuto e uno fantasticato, gustato, amato ma non commesso? Questa: che il primo non potrà piú non essere, e il secondo lascia l’illusione di non averci disturbato la nostra natura. Come coscienza dovrebbero invece darci lo stesso rimorso; ma non ce lo dànno perché nel secondo caso nulla ci vieta di tornare come prima.

Anche in questo il cristianesimo è in gamba: «chi guarda una donna con concupiscenza, ha già commesso adulterio...»

Insomma: la buona coscienza non è altro che l’espressione del desiderio che tutti abbiamo: essere noi — starcene comodi.

Soffrono immensamente di piú i piccoli occasionali prevaricatori che non i grandi delinquenti, e semplicemente perché i secondi ci sono connaturati.

Rimordendoci una mala azione, non è del dolore inflitto agli altri che ci dispiace, ma del disturbo recato a noi stessi. (Cfr. Raskolnikoff). [p. 105 modifica]

L’arte di vivere — dato che per vivere bisogna straziare altri (vedi vita sessuale, vedi commercio, vedi ogni attività) — consiste nell’abituarsi a fare ogni porcata senza guastare la nostra sistemazione interiore. Essere capace di qualunque porcata, è il miglior bagaglio che possa avere un uomo.

23 giugno.

La bella formola «Non devo» che nella sua assolutezza pare il segno piú certo di una trascendenza dell’imperativo morale, non è poi piuttosto un’efficace ellissi che sottintende tutta la considerazione di un complesso calcolo?

7 luglio.

Il colloquio del Po.

8 luglio.

«Ha trovato uno scopo nei suoi figli». Perché trovino anch’essi uno scopo nei loro figli? Ma a chi serve questa fottitura generale?

Tanto poco un uomo s’interessa dell’altro, che persino il cristianesimo raccomanda di fare il bene per amore di Dio.

E gli riempí la bocca con un pugno.

Tanto stupido che per trovare uno scopo alla sua vita, ha dovuto fare un figlio. [p. 106 modifica]

9 luglio.

In nessuna attività è buon segno se all’inizio c’è la smania di riuscire — emulazione, fierezza, ambizione, ecc. — . Si deve cominciare ad amare la tecnica di ciascuna attività per se stessa, come si ama di vivere per vivere.

Solo questa è vera vocazione e pegno di seria riuscita. In seguito potranno venire tutte le passioni sociali immaginabili a rimontare il puro amore della tecnica — è debito che vengano anzi — ma cominciare da loro è indizio di scioperataggine. Bisogna insomma amare un’attività, come se non ci fosse nessun altro al mondo, per se stessa. Per questo il momento significativo è quello degli inizi: perché allora è come se il mondo (passioni sociali) non esistesse ancora rispetto a quest’attività.

Anche perché sono tutti capaci a innamorarsi di un lavoro che si sa quanto renda; difficile è innamorarsi gratuitamente.

13 luglio.

È peccato ciò che infligge rimorso.

Che le stesse cose, per uno siano peccato per altri no (5 maggio ’36) è naturale: basta non averne rimorso. Come fare? Fare come dice 22 giugno ’38. Levarsi intanto di testa che il rimorso sia una realtà assoluta che infallibilmente piomba addosso. Lo provano solo coscienze particolarmente educate. Si può quindi educarsi in modo da non sentirlo. Dicono che sentirne per molte e molte azioni dove l’ineducato non sente nulla, sia pegno di finezza e ricchezza interiore. È poi vero? Non è concepibile una ricchezza interiore che non porti ad esclusione di stati di coscienza, ma li accetti tutti quanti, anche quelli che solitamente dànno rimorso? Qui c’è un sofisma, perché se qualunque genere di stato di coscienza è arricchimento, anche quello di rimorso è arricchimento, e si torna al punto di prima.

Ma parlando di arricchimento si parla di godimento. Diremo dunque che anche lo stato di rimorso è benvenuto, non in se stesso (ché, come ogni dolore — 17 giugno — è nella sua attualità impoverimento, anchilosamento, impietramento) ma come premessa del [p. 107 modifica]godimento recato dalla compunzione e conseguente scelta risoluta di nuove buone azioni che non diano piú rimorso.

Resta, però, che questa condizione («solo quelle che non diano piú rimorso») pare legarci le mani e quindi impoverirci.

Per non dire che, se il rimorso e relativa compunzione e risoluzione a ben fare sono un processo positivo (arricchimento), non si vede perché non si dovrebbe peccare per percorrere poi questa scala di arricchimento.

Conclusione: infatti è legittimo peccare in modi inauditi, scopritivi, che ci portano a rimorsi, e quindi a compunte risoluzioni, a noi nuove (= arricchimento).

È peccato solo il rifare un’azione che già si sa porta al rimorso e quindi a una risoluzione (arricchimento) che non ci arricchisce piú, avendoci già arricchito una volta. Dico bene?

14 luglio.

Per capire l’atteggiamento serio di una donna tra molti giovanotti, respingente e disinvolto e imbarazzato e compunto, pensa al tuo, davanti a cinque o sei puttane che tutte ti guardano e aspettano la scelta.

22 luglio.

Stare in guardia da chi non è mai irritato. (Cfr. 7 dicembre ’37, VI).

Scritta la prima riga di un racconto è già tutto scelto e lo stile e il tono e la piega dei fatti.

Data la prima riga, è questione di pazienza: tutto il resto ne deve e ne può venir fuori.

Può anche darsi che avere in fondo al cuore un rimorso, la piaga di una villania commessa in passato, aumenti la coscienza che si ha di se stessi, ci renda interessanti a noi stessi, ci occupi [p. 108 modifica]molti minuti desolati che altrimenti si trascorrerebbe in vuoto galleggiare.

Qualunque rimorso, perché una mala azione è sempre stata un’affermazione di passione e quindi ci ha per un momento illusi di avere una certa energia.

Il rimorso di non essere stati capaci, invece, non dà nessun conforto, a meno che si riesca a interpretarlo come un’affermazione di energia, di sacrificio, di disinteresse, ecc. Non è però sempre un facile trick, questo.

28 luglio.

Il nerbo di ogni trama è questo: vedere come quel tale se la cava in quella tale situazione. Il che vuol dire che ogni trama è sempre un atto d’ottimismo in quanto è una ricerca di come si reagisce (va da sé che anche la sconfitta di quel tale è quest’atto: se per l’autore è sconfitto, vuol dire che non se l’è saputa cavare — implicito giudizio su come occorreva fare per cavarsela). È questo il messaggio di ogni trama: cosí si deve, o non si deve, fare. Per questo, esistono opere immorali: le opere in cui non c’è trama.

L’arte moderna che sembra sfuggire alla trama, semplicemente sostituisce a quella ingenua dei fatti di cronaca, una sottilissima miriade di avvenimenti interiori in cui ai personaggi si sostituisce un solo personaggio (average man) che chiunque di noi può essere — anzi, è, sotto le antiche grossolane schematizzazioni psicologiche.

Il vertice di quest’arte si raggiunge con un trucco: all’average man guardato come straordinario eroe (primo momento dell’arte moderna) si sostituisce lo straordinario eroe guardato nella sua normalità (averageness). E siccome si evitano le schematizzazioni del passato, si cerca lo straordinario eroe nel patologico (lo straordinario comune) e lo si segue con indifferente homeliness (Faulkner? O’Neill? Proust?)

2 agosto.

[......]27. [p. 109 modifica]

7 agosto.

Il vero bel seno è quello in cui consiste tutto il petto, acuminato in due, e ha quindi radici fino alle costole.

Gli altri sono belle cose aggiunte, ma il petto esiste sotto ad essi.

28 agosto.

Il fascino sottile delle convalescenze consiste in questo: tornare alle proprie abitudini con l’illusione di scoprirle.

I propri difetti irriducibili bisogna trasformarli in virtú. Assodato che mi piace recitare davanti a me stesso, posso riscattare questa sciocca dispersione imparando a investirmi di parti ignote e vederle cosí svolgersi secondo la loro natura. È in fondo una premessa di poesia.

30 agosto.

Ciò che si trova di grande in Vico — oltre il noto — è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita storica; inseparabile da religione, politica, economia; «popolarescamente» vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di tutta una cultura.

In particolare, il senso che ci vuole una particolare disposizione («logica poetica») per fame.

Ed è ancora in fondo la teoria che meglio rivive e spiega le epoche creatrici di poesia, il mistero per cui tutte le forze vive di una nazione sgorgano a un dato momento in miti e visioni.

Le mie storie non sono che storie d’amore o storie di solitudine. Per me pare che non esista altro modo di uscire dalla solitudine che «attaccare» una ragazza. Possibile che non m’interessi d’ [p. 110 modifica]altro? o è perché il rapporto erotico riesce piú facilmente mitologizzabile senza particolareggiare?

17 settembre.

Non conta l’esperienza per un artista, conta l’esperienza interiore.

Argomento per loro. L’uomo si ritrae in solitudine per peccare.

C’è un conforto a pensare che la debolezza può essere una forza, come la cagionevolezza una difesa contro le gravi malattie?

Via via che passano gli anni, in faccia a ciascuno va sempre piú disegnandosi il teschio.

Quella che per Svevo è senilità, a me pare adolescenza.

Un cristiano direbbe che credendo di trovare il piacere, si scoprono invece le proprie tare. Che l’ufficio provvidenziale del piacere è di far dimenticare all’uomo le cautele e, sbattendolo cosí contro le pareti della sua cella, insegnargli l’umiltà. Solo cercando avidamente il piacere si capisce che cos’è il dolore.

Le prove dell’esistenza di Dio non sono propriamente nell’armonia dell’universo, nell’equilibrio miracoloso del tutto, nei bei colori dei fiori ecc., ma nella disarmonia dell’uomo in mezzo alle cose: nella sua capacità di soffrire. Perché insomma non c’è ragione che l’uomo soffra in questo mondo, se non esiste la responsabilità morale, cioè la capacità — il dovere — di dare alla propria sofferenza un significato. [p. 111 modifica]

18 settembre.

Nei rapporti con la gente basta un istante d’ingenuità per rovinarci giornate intiere di asservimento altrui.

Ingenuità non è carità. È scoprire all’offesa un proprio egoismo.

La carità invece non può ricevere offesa.

19 settembre.

Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo o nei discorsi o nella scrittura, sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore.

Date una compagnia al solitario e parlerà piú di chiunque.

21 settembre.

Non dobbiamo lagnarci se una persona a noi carissima ci presenta a volte atteggiamenti odiosi che ci tirano i nervi o, comunque, ci fanno soffrire. Non dobbiamo lagnarci, ma tesorizzare avidamente queste nostre ire e amarezze: ci serviranno per lenire il dolore il giorno che quella persona ci verrà in qualche modo a mancare.

Ciò che precede, serve fino a un certo punto. Avere qualcosa da rimproverare a chi è scomparso, non lenisce il dolore della scomparsa, ma lo complica. Che una persona ci abbia fatto odiosamente soffrire, non allenta i legami che ci stringono a lei; tutt’al piú aggiunge alla privazione presente uno struggimento d’astio che non si potrà sfogare mai piú, una tortura d’inferiorità impotente, un suggello di privazione perenne. [p. 112 modifica]

L’origine di tutti i peccati è il senso d’inferiorità — detto altresí ambizione.

Il condensamento di una novella non consiste nel ficcare le notizie una dentro l’altra come le scatole giapponesi, ma nel tono che presenta lo sgorgo dei fatti come qualcosa che avviene pensatamente, a una ragionevole distanza, ed è pieno dei sottintesi suggeriti appunto dalla distanza!28

La novella tipo Due amici, quella cioè dove si sciorina con una certa implacabilità avvenimenti sensoriali e psicologici tutti allo stesso piano di coscienza, è un infelice compromesso con la drammaturgia che guarda avvenire fatti psicologici attraverso una tecnica «immediata» tutta speciale. Il proprio del raccontare è invece un ripensare avvenimenti piú e meno illuminati, non un lasciarli avvenire sotto una stessa inesistente luce diffusa.

22 settembre.

Basta a volte, nella seconda riga, una pennellata naturalistica («Faceva un tempo fresco, con un po’ di nebbia») per provocare pagine e pagine di naturalismo implacabile, documentarie e non piú narrate, dove cioè ogni avvenimento si colloca sul piano della detta pennellata, rifiutando di lasciarsi ripensare.

Queste precisazioni iniziali («Faceva...») servono solo nel caso di una novella che avviene in un breve e temporalmente determinatissimo giro (Notte di festa), nelle novelle insomma che hanno un taglio e una evidenza scenica e potrebbero venire recitate. Sulla scena infatti tutto accade documentariamente, e il décor e i gesti corrispondono alle descrizioni.

Il vero racconto (Primo amore e il Campo di grano) tratta il tempo come materia non come limite e lo domina scorciandolo o rallentandolo e non tollera didascalie che sono il tempo e la visione [p. 113 modifica]della vita reale; piuttosto, risolve in impulso (sintesi fondamentale o idea generatrice) di costruzione (distanza prospettica o ripensamento) l’ambiente temporale.

Ognuno, passata la trentina, identifica la giovinezza con la tara piú grave che gli pare di avere scoperto in sé. (Cfr. 31 ottobre ’37).

29 settembre.

Dovrò smettere di vantarmi incapace dei sentimenti comuni (piacere della festa, gioia della folla, affetti familiari, ecc.). Incapace sono invece dei sentimenti eccezionali (la solitudine e il dominio) e se non riesco bene in quelli comuni, è perché una ingenua pretesa a quegli altri mi ha corroso il sistema dei riflessi che avevo normalissimo.

In genere ci si accontenta di essere incapace di quelli comuni, e si crede che ciò voglia dire «essere capace degli altri».

Si può analogamente essere incapace di scrivere una sciocchezza e incapace di scrivere una cosa geniale. L’una incapacità non postula l’altra capacità, e viceversa.

Si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente di essere un poco. Si odia se stessi. Le qualità piú interessanti e fertili di ciascuno, sono quelle che ciascuno piú odia in sé e negli altri. Perché nell’«odio» c’è tutto: amore, invidia, ignoranza, mistero e ansia di conoscere e possedere. L’odio fa soffrire. Vincere l’odio è fare un passo nella conoscenza e padronanza di sé, è «giustificarsi» e quindi cessare di soffrire29.

Soffrire è sempre colpa nostra. [p. 114 modifica]

3 ottobre.

Noi sappiamo molte cose che nella pratica della nostra vita non si realizzano nella stessa forma. L’uomo d’azione non è l’ignorante che si butta allo sbaraglio dimenticandosi, ma l’uomo che ritrova nella pratica le cose che sa. Cosí il poeta non è l’inetto che indovina, ma la mente che incarna nella tecnica le cose che sa.

Da «29 settembre» consegue che odiare è necessario. Ogni contatto con una nuova realtà comincia con l’odio. L’odio è un presupposto della conoscenza. I disagi pratici non sono odio se non in quanto escono dalla sfera dell’interesse e diventano riluttanza davanti a un ignoto, cosa che in grado maggiore o minore accade in ogni caso.

(Cfr. 21 settembre, IV). La difficoltà del tempo nella narrazione consiste nel trasformare il tempo materiale, monotono e bruto, in un tempo immaginario tale che abbia, però, la stessa consistenza dell’altro.

La falsità eterna della poesia è che i suoi casi avvengono in un tempo diverso dal reale.

5 ottobre.

L’offesa piú atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra.

Come non si pensa al dolore degli altri, si può non pensare al proprio.

8 ottobre.

[......]30. [p. 115 modifica]

9 ottobre.

L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie. L’arte di non farci mai avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene. L’arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire. L’arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella. L’arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo piú di ciascuno, semplicemente perché siamo noi. L’arte di considerare la donna come la pagnotta: problema d’astuzia. L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone. L’arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno s’interessa soltanto di sé. L’arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all’istante se è sensato.

L’arte di fare a meno dell’arte.

L’arte di essere solo.

10 ottobre.

Naturalmente, ammetti che il piú odioso degli uomini mangi a quattro ganasce e se la goda. Questa ti pare anzi la sottolineatura della sua odiosità.

E ammetti dunque che il piú odioso degli uomini si goda la donna piú bella, viva con lei in buona armonia, abbia una casa fine e di buon gusto, sia padre felice, domini nel mondo, goda dell’onestà ecc.

C’è forse differenza tra il masticare di gusto e questi altri piaceri? Non solo, ma devi anche concedergli il piacere di sentirsi infelice ogni tanto, sommamente infelice, di sentirsi nobile per la sua sofferenza.

Che cosa puoi rifiutare al piú odioso degli uomini? Non puoi rifiutargli nulla. [p. 116 modifica]

Ridere smodatamente è un segno di debolezza allo stesso modo che piangere. Infatti, dopo ci si sente stracci.

In genere è segno di debolezza tutto ciò che ci toglie coscienza. La massima debolezza è morire.

13 ottobre.

Se una donna non tradisce, è perché non le conviene.

Ogni lusso bisogna pagarselo. Tutto è lusso; a cominciare dall’essere al mondo.

Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno.

La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante. Non potrà mai sparire dal mondo, proprio per questa ragione.

Cfr. 10 ottobre ’38, I — Soffrire (cfr. 17 giugno ’38) è quindi una debolezza.

Non è vero che la morte ci giunga come un’esperienza in cui siamo tutti novellini (Montaigne). Tutti prima di nascere eravamo morti.

15 ottobre.

Certo che, soffrendo, si può imparare molte cose. Il male è che avendo sofferto abbiamo perduta la forza di servircene. E semplicemente sapere è meno che nulla (cfr. 3 ottobre ’38, I). [p. 117 modifica]

L’accettazione della sofferenza (Dostojevskij) è in sostanza un modo di non soffrire. Dunque... Chi si sacrifica non lo fa per lenire la sofferenza di un altro? Che torna come dire: soffra pure io, purché non soffrano gli altri tutto è bene. E se ciascuno s’occupasse di non soffrire lui, non sarebbe piú spiccia?

Ma, appunto, la trovata dostojevskiana è che si cessa di soffrire soltanto accettando. E pare che si possa accettare la sofferenza soltanto sacrificandosi.

In queste cose il torto è di fare il passo piú lungo della gamba. Si accetta di soffrire (rassegnazione) e poi ci si accorge che si è sofferto e basta. Che la sofferenza non ha servito a noi e gli altri se ne infischiano. E allora si digrigna i denti e si diventa misantropi. Voilà.

La cosa piú atroce è sempre il «passare per fessi». Cioè veder negata (vanificata) la propria sofferenza (cfr. 5 ottobre ’38).

16 ottobre.

Non si desidera di godere. Si desidera sperimentare la vanità di un piacere, per non esserne piú ossessionati.

18 ottobre.

Descrivere la natura in poesia, è come quelli che descrivono una bella eroina o un forte eroe.

Riuscire a qualcosa, qualunque cosa, è ambizione, sordida ambizione. È logico quindi ricorrere ai piú sordidi mezzi.

19 ottobre.

Quando si soffre, si crede che di là del cerchio esista la felicità; quando non si soffre si sa che questa non esiste, e si soffre allora di soffrire perché non si soffre nulla. [p. 118 modifica]

Il pessimismo cosmico è una dottrina di consolazione. Molto peggio sta chi credendo all’ambivalenza dell’ordine esistente, riconosce se stesso per inadatto, quindi per condannato a soffrire.

(Cfr. 22 giugno ’38).

La coscienza esiste, ma non è come dicono il cristallino assoluto che ci sorveglia: è la protesta del nostro amor proprio che sa come in avvenire noi stessi giudicheremmo un nostro atto e vuole impedirci di metterci contro alla risultante di tutta la nostra esperienza. In ogni uomo la coscienza vieta o ammette cose diverse e con diverse intensità. Questi interventi sono sempre risultanti dell’esperienza.

Dare un giudizio morale su di un atto altrui, è rilevare il disagio in cui quest’atto metterebbe o non metterebbe noi se, fatti come siamo, l’avessimo compiuto. È illogico, ma come valutare il disagio in cui è caduto o meno l’autore, visto che un’esperienza è sempre incomunicabile? o, che torna lo stesso, comunicandosi muterebbe perché mescolata con quella che precedentemente era nostra?

Un tentativo interessante è la Spoon River Anthology, dove ciascun morto si giudica in base all’esperienza propria. Va da sé — per il già detto — che propriamente parlando la cosa è assurda: è l’autore che giudica ciascuno in base all’esperienza sua; ma è questo un assurdo che si rinnova per tutti i narratori, di cui naturalmente le dramatis personae sono un personaggio solo, l’autore. Interessa il fatto che Lee Masters giudica il mondo come un luogo dove ciascuno trae dalla sua esperienza la propria condanna o la propria giustificazione.

Inutile dire che nell’esperienza di ciascuno di noi concorre anche il conto in cui teniamo i giudizi altrui.

22 ottobre.

Il personaggio e le sue cose vanno sempre presupposti come esseri reali. Non bisogna aver paura nelle prefantasie di vederli vivere e agire. Bisogna anzi lasciarli fare tutto ciò che possono.

A un certo punto, riferire quanto hanno fatto. [p. 119 modifica]

(Questo vuol dire che lo stile non deve influire nella formazione della storia: ad essa preesiste un nucleo di realtà e di persone che sono accaduti. Fermo questo, si potrà affrontare il blocco e sbriciolarlo come meglio verrà fatto. «Letteratura» è quando lo stile preesiste al nucleo fantastico).

(vedi la confutazione di ciò al 24 ottobre)


Chi sente il bisogno di essere disinteressato e ha orrore di mostrarsi keen after something, sarà anche staccato nei suoi rapporti con parenti e amici, temerà sempre di formare con loro un blocco organizzato d’interessi comuni; e nutrirà per loro sensi di freddezza.

Il disinteresse materiale porta cioè all’isolamento e all’egoismo.

Riprendo. Il poeta epico crede avvenuto quello che racconta. Gli inizi di una creazione che sa di essere fantastica sono anche gli inizi della «letteratura». In Grecia, la commedia nuova e il romanzo.

(Concretamente, va da sé che c’è «letteratura» anche in Omero).

Qui cade a proposito il Leopardi e il fatto che i grandi libri non sono scritti per far poesia. Proporsi di rendere una realtà significa volere usare a qualche altro scopo questa realtà. Invece, fantasticare vuol dire appunto avere lo scopo di far poesia. E il vantaggio non è dei fantastici.

(vedi la confutazione di ciò nel 24 ottobre)


23 ottobre.

L’idea di Gertrude31 è che ogni essere umano possiede una certa energia; spesa la quale si è serviti. Si vede qui la sua educazione clinica. È cattolica nel senso che sono cattolici i medici; i compilatori amorosi di tabelle. Come tutti loro, sa cogliere e apprezzare una fondamentale normalità matter-of-fact. [p. 120 modifica]

Ignora il dramma di chi ammette come lei la misurabilità di ciascuno ma non ci si vuole rassegnare. Ignora il dramma della volontà infinita. È, come tutti i medici, una maestra di saggezza.

Nelle sue pagine la vita è terribilmente chiara. Al senso delle cose immisurabili, al fantastico, sostituisce l’incantesimo del tranquillo fluire, dell’essere proprio una rosa una rosa una rosa.

«Dunque sono un infelice, e non è colpa mia né della vita» è la legge della tragica misurabilità, esaurita la quale si può morire tranquillamente.

24 ottobre.

Riprendo. Ma ora succede che proprio il raccontare un fatto e un personaggio, è fare l’oziosa creazione fantastica, perché a questo raccontare si riduce il concetto tradizionale di poesia. Per scrivere mirando a qualche altro scopo, ora bisogna proprio lavorare di stile, cercare cioè di creare un modo d’intendere la vita [il tempo nel suo fluire (cfr. 3 ottobre, III)] che sia una nuova conoscenza. In questo senso va accettata la mia antica mania di fare argomento della composizione l’immagine, di raccontare il pensiero, di uscire dal naturalismo.

Questo non è fantasticare; ma conoscere: conoscere che cosa siamo noi nella realtà. Ecco soddisfatta l’esigenza di credere avvenuto quello che stiamo per raccontare: rimane dunque vero che solo ciò che stimiamo realmente esistente (il nostro stile, il nostro tempo = l’oggetto della nostra conoscenza) vale la pena di essere scritto. Se miriamo a insegnare un nuovo modo di vedere e quindi una nuova realtà, è evidente che il nostro stile va inteso come qualcosa di vero, di proiettabile al di qua della pagina scritta. Altrimenti, che serietà sarebbe quella nostra scoperta? (Resta confutata la parentesi del 22 ottobre, I).

Bisogna raccontare sapendo che i personaggi hanno un dato carattere, sapendo che le cose avvengono secondo determinate leggi; ma il point del nostro racconto non devono essere né quei caratteri né quelle leggi. [p. 121 modifica]

25 ottobre.

La fantasia umana è immensamente piú povera della realtà. Se pensiamo all’avvenire noi lo vediamo sempre svilupparsi secondo un monotono sistema. Non pensiamo che il passato è un multicolore caos di generazioni. Questo può anche giovare a consolarci dei terrori per il «tecnico e totalitario imbarbarimento» del futuro. Nei cento anni avvenire potrà accadere un seguito di almeno tre momenti, e lo spirito umano potrà successivamente vivere in piazza, in carcere, e sui giornali.

Lo stesso si dica dell’avvenire personale.

26 ottobre.

Se potessimo trattare con noi stessi come trattiamo con gli altri, di cui vediamo il volto chiuso e supponiamo una misteriosa e incontrollabile potenza. Invece, di noi stessi conosciamo tutte le tare, chiaramente distinguiamo le esitazioni e siamo ridotti a sperare in una inconscia forza che ci sorga nell’intimo e agisca con una sua sottigliezza.

27 ottobre.

È possibile non pensare alla donna, come non si pensa alla morte.

28 ottobre.

Di qualunque nostra sventura non dobbiamo incolpare altri che noi. (28 gennaio ’37).

Soffrire non serve a niente (26 novembre ’37).

Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ’38).

Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38).

Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38).

Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze. [p. 122 modifica]

29 ottobre.

Altro è ricordarsi dei propri consigli di tecnica, che occorrono quando si è seduti al tavolino, dediti a meditare e vagliare la scelta; altro ricordarsi di quelli di vita che dovrebbero occorrere nell’orgasmo della gioia o del dolore quando si deve reagire a fuggevoli situazioni.

Che lamentarsi davanti al mondo sia inutile e dannoso, è positivo. Resta da vedere se non sia altrettanto inutile e dannoso lamentarsi davanti a se stessi. Evidentemente. Infatti non ci si lamenterà davanti a sé per muovere se stessi a pietà, ché non significherebbe nulla, dato che la pietà per definizione è il voluttuoso connubio di due spiriti. Per che cosa allora? Non per ottenere favori, ché l’unico favore che uno spirito può fare a se stesso è concedersi indulgenza e ognuno vede quanto sia dannoso che la volontà indulga alla propria lamentata debolezza.

Resta che si faccia per scavare verità nel proprio cuore ammollito dalla tenerezza. Ma l’esperienza insegna che le verità affiorano soltanto alla pacata e severa ricerca che arresta la coscienza in un inaspettato atteggiamento e lo vede, come un film che si fermi di colpo, stupefatta ma non commossa.

Dunque basta.

- Prima di essere astuti con gli altri, occorre essere astuti con se stessi (7 dicembre ’37).

- L’arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi... (9 ottobre ’38).

- Se potessimo trattare con noi stessi come trattiamo con gli altri... (26 ottobre ’38).

- Lamentarsi davanti al mondo... Altrettanto inutile e dannoso lamentarsi davanti a noi stessi... (29 ottobre ’38).

Ci trovo:

Sforzo di equiparare l’io oggettivo agli altri per: liberarci dal falso vantaggio che la singolarità di essere noi dà al nostro io; sgominare la maudlin self-pity e la cancerosa importanza che assume ogni nostro umore davanti all’occhio intimo; trattarci utilitariamente, come utilitariamente trattiamo gli altri. [p. 123 modifica]

Tutt’al piú commuoversi sugli altri, mai su se stesso.

To pity others perhaps, never to pity one’s self.

(Commuoversi significa anche irritarsi).

Émouve-toi, si tu veux, sur les autres, ne t’émouve jamais sur toi-même.

Be touched by others, don’t be touched by yourself. (Cfr. II).

30 ottobre.

Si perdona agli altri quando ci conviene.

1° novembre.

I caratteri che per un nonnulla si accasciano sono i piú adatti a subire grandi colpi. Vivono nell’atmosfera di tragedia piú agevolmente degli energici. Hanno presto esaurita la loro riserva di strazio e tirano avanti. (Cfr. 17 settembre, III).

Abituarsi a considerare ogni graffiatura una disgrazia, toglie vigore al colpo di una grande e vera sventura. (Cfr. 19 ottobre).

Succede una disgrazia:

«l’ottimista baldanzoso» soffre atrocemente,

«quello a cui tutto va male» soffre cosí cosí,

«il pessimista integrale» gode della conferma.


Per non soffrire occorre convincersi che tutto è sofferenza. Il Leopardi poteva avere vita felice.

Per non soffrire occorre soffrire. Cioè: occorre accettare la sofferenza (cfr. 11 giugno-15 ottobre ’38).

Ma «accettare la sofferenza» significa conoscere un’alchimia per cui il fango diventa oro. Non si può «accettarla» e basta. I pretesti saranno (I) che si diventa migliori, (II) che si conquista Dio, (III) che se ne trarrà poesia (il piú magro), (IV) che si paga uno scotto che tutti pagano.

Ma quando si tratti della sofferenza suprema, la morte, il I e il III pretesto cadono: restano la conquista di Dio o il destino comune. [p. 124 modifica]

2 novembre.

Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente.

Sapienza di Dante nel punire avari e prodighi insieme: soltanto i prodighi sono avari veramente, e soffrono a spendere. L’avaro si sente prodigo e il prodigo avaro, e se ne tormenta. Chi si sente avaro, per il terrore di cosí sordido contegno diventa prodigo. E viceversa.

3 novembre.

Tutti sappiamo fare dei pensieri cattivi, molto raramente delle cattive azioni. Tutti sappiamo fare delle buone azioni, ma buoni pensieri pochi. (Cfr. 20 giugno ’38).

È piú forte il rispetto umano che la coscienza. Chi non preferisce cedere alla piú abbietta tentazione dentro di sé, consentire, piuttosto che compiere magari innocentemente un’azione abbietta quando, beninteso, sia impossibile scolparsi?

4 novembre.

Siccome tutti gli stati passionali hanno un loro chimismo deterministico che trasporta per gioco di causa-effetto a situazioni esasperanti subite e contraddittorie e fintamente create da noi, bisognerà opporre a ogni compiacenza passionale una dura volontà di estirpamento — come un rullo compressore sull’erba — che ignori ogni deviazione e si compiaccia di sé. Voluttà per voluttà è altrettanto ricca questa quanto la dispersione, e molto piú sana. Il piacere di spezzare ogni catena deterministica di gioie od esasperazioni, per sé solo.

La sua stessa esclusività e monotonia renderà questo piacere volontario e non deterministico. O almeno, le sue cause saranno volute una volta per tutte e non subite d’ora in ora. [p. 125 modifica]

Chi non ha avuto volontà dura, è il piú deciso a conquistarsi questa potenza perché sa quanto essa valga (= Alfieri).

Il tranello sta nel fatto che senza carità e attaccamento la vita si fa cadaverica, ma con la carità e l’attaccamento ci si espone alla dispersione passionale e conseguente esasperante chimismo deterministico.

Il rullo e il filo d’erba.

Nella poesia tu senti lo stesso bisogno. L’interesse minuto e pettegolo al deterministico intrico passionale (Proust!) contrasta col violento e sicuro gesto che schiaccia e conclude d’imperio tutta una vita (Lee Masters).

Non ti piace abbandonarti al determinismo dell’analisi. Ma vuoi scegliere un rapido gesto che sia mito, cioè volontario avvenimento imposto sulle deviazioni.

Fai bene a conoscere tutti gli intrichi esasperanti e semoventi della passione. Ma devi sceglierli, cioè non consentirvi, come fanno tutti gli analisti nonostante le ironie contro il meccanismo generico della passione.

Cedere come hai ceduto nella vita alla passione, ma vedere limpidamente lo scopo — il mito delle nozze — e schiacciare di colpo quell’erba non appena questa conclusione si rivela impraticabile, involibile. Ne hai il temperamento: vedi le rivolte e il secco rifiuto dell’aprile del ’36 e dell’agosto del ’38.

Sostenere che i nostri successi ci sono impartiti dalla Provvidenza e non dall’astuzia, è un’astuzia di piú per aumentare ai nostri occhi l’importanza di questi successi.

Avere un libidinoso gusto dell’accasciamento, dell’abbandono, della snervante dolcezza, e una spietata volontà di scatto [p. 126 modifica]serra-mascellem esclusiva e tirannica, è una promessa di perenne e feconda vita interiore.

5 novembre.

La prosa saggistica, descrittiva, moralizzante, sociale è al romanzo quello che la lirica all’epica.

Cinquecento e Seicento e Settecento ebbero il saggio, poi venne il romanzo. Che questa prosa ritorni con la decadenza conferma il parallelo: anche la lirica fa questo.

Il fatto che un tempo, se l’uomo ingannava, la donna ne aveva l’infamia, è una prova che nelle cose sessuali non si giudicava eticamente (di quell’etica che è creazione virile) ma difensivamente, importando ad ognuno nel commercio sessuale soltanto di preservarsi la donna per sé e non di rispettare un’assurda giustizia. Diritto di guerra in cui il vinto ha l’infamia, e la giustizia consiste nell’asservimento (cfr. 15 dicembre ’37) (31 dicembre ’37, III) (19 gennaio ’38, V) (1° febbraio ’38) (5 febbraio ’38, II) (20 febbraio ’38).

L’astuzia della famiglia è che concilia l’egoismo col bisogno di versarsi all’esterno, di amare, cioè di sacrificarsi

Lo stile del novecento approfondisce il distacco dal Leopardo‐Stendhaliano già iniziato con l’impressionismo dei veristi. E ciò fa tornando a rialzare il concetto di stile onde i suoi creatori si rispecchiano in Leopardi-Stendhal ultimi eroi dello stile costruito. Ma questo concetto non sta piú nell’universale modello umanistico: sta nel modello ideale sul quale ogni spirito ritma e distende la sua realtà: un magico farsi del pensiero, della vita interiore, per cui non sussiste pacatezza preesistente, non esiste «lingua della ragione» né cioè pensiero astratto. È uno stile che esprime ma non spiega. Nacque dalle ricerche dei narratori del secolo scorso, non [p. 127 modifica](come il Leopardi-Stendhal) dalle pagine dei saggisti umanistici che si rifacevano allo stile logico della trattazione.

Le ricerche dei narratori veristi avevano annullato lo stile (insigni Dickens e Dostojevskij) introducendo al mondo delle sensazioni e delle sfumature (Balzac, Tolstòj, Maupassant, ecc.). Era necessario per suscitare il particolare di ogni vita interiore, ma non era stile. L’antiverismo cominciò ad accentuare il timbro comune di tutte le impressioni di una unica coscienza (stili estetizzanti Pater-Wilde, carnalità d’Annunzio, sogneria psicologica Proust, preziosa volgarità Joyce, ecc.) e finalmente lasciò il passo ai ritrovatori dello schema vivente e ritmico che par suscitare i suoi pensieri esprimendoli. Schema, a proposito, già incontrato da qualche antiverista e — massime — da Verga.

Questo è il perché negli stili passati t’interessa tanto il gioco dell’immagine, il passaggio da essa alla realtà, la loro compenetrazione. Presentisci in quei momenti lo stile novecentesco che è un perenne farsi di vita interiore e là traspare nei momenti in cui soggetto del racconto è il legame di realtà e immagine, cioè il farsi di una realtà interiore espressiva. Dico meglio: nei momenti in cui, snodandosi l’immagine, interessa vedere come il suo decorso rifletta, corregga e ricrei il primo termine di paragone, come cioè la realtà narrativa venga stilizzandosi in fantasia.

6 novembre.

Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia...

Naturalmente (e lo provi nell’Eremita) l’immagine non è necessario instaurarla sul come o equivalenti. L’immagine ti si compone anche (è anzi la sola che conti) quando alludi a un’esperienza diversa che giova a finire la figura o la situazione dandole sfondo. Esempio: il mare e la folgore. Ma siamo chiari: questi tratti, nei quali senza smettere di narrare prendi campo e ricordi-approfondisci l’esperienza totale, oltre che descrizione fanno simbolo. Benché quindi siano immagini, nel senso che ricorrono a una parvenza naturale per chiarire una realtà interiore, sono nel tuo racconto [p. 128 modifica]quello che in un mito sono gli statici attributi di un dio o di un eroe (i corpi bianchi delle Oceanine, le mani omicide di Achille, il cinto di Afrodite), racconti dentro il racconto alludenti alla realtà segreta del personaggio.

Quindi lascia il nome d’immagine ai tratti del capretto (Eremita) o della dinamo a valvole (Fedeltà), oneste immagini all’antica.

8 novembre.

Non si può conoscere il proprio stile, e usarlo. Si usa sempre uno stile preesistente, ma in un modo istintivo che ne plasma un altro attuale. Lo stile presente si conosce solo quando è passato e definitivo e si torna a scorrerlo interpretandolo, cioè chiarendosi come è fatto.

Ciò che stiamo scrivendo è sempre cieco. Se ci viene bene (se cioè dopo, ritornandoci, lo stimeremo riuscito) non possiamo per il momento saperlo. Semplicemente lo viviamo e va da sé che le astuzie, gli accorgimenti che vi spendiamo, sono un altro stile composto in precedenza, estraneo alla sostanza di quello attuale.

Scrivere è consumare i cattivi stili adoprandoli. Ritornare sul già scritto per correggere è pericoloso: si giustapporrebbero cose diverse.

Dunque non c’è tecnica? C’è, ma il nuovo frutto che conta è sempre un passo avanti sulla tecnica che conoscevamo e la sua polpa è quella che ci nasce via via sotto la penna a nostra insaputa.

Che noi conosciamo uno stile, vuol dire che ci siamo resa nota una parte del nostro mistero. E che ci siamo vietato di scrivere d’or innanzi in questo stile. Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il nostro mistero e allora non sapremo piú scrivere, cioè inventare lo stile.

10 novembre.

La letteratura è una difesa contro le offese della vita. Le dice «Tu non mi fai fesso: so come ti comporti, ti seguo e ti prevedo, [p. 129 modifica]godo anzi a vederti fare, e ti rubo il segreto componendoti in scaltrite costruzioni che arrestano il tuo flusso».

A parte questo gioco, l’altra difesa contro le cose è il silenzio raccolto per lo scatto. Ma bisogna imporselo, non lasciarselo imporre. Nemmeno dalla morte. Scegliere noi magari un male è l’unica difesa contro questo male. Questo significa l’accettazione della sofferenza. Non rassegnazione, ma scatto. Digerire il male di colpo. Hanno vantaggio quelli che per indole sanno soffrire in modo irruento e totalitario: cosí si disarma la sofferenza, la si fa nostra creazione, elezione, rassegnazione. Giustificazione del suicidio.

Qui non ha luogo la Carità. O non è forse la vera carità questo getto violento di sé?

11 novembre.

Le osservazioni raccolte il 5 novembre II sullo stato di guerra tra i consessuali, vanno illuminate allargandole a ogni caso di godimento materiale. Non solo vedere accoppiarsi, ma vedere mangiare con foga, vedere usare crudeltà, ecc. ci fa fremere e odiare il fortunato che ci appare un indegno e una carogna. Forse l’indignazione che si prova vedendo o sentendo usare crudeltà politiche, nasce da questo: potremmo tollerare che noi — o i nostri — usassimo la stessa crudeltà, ma non che lo faccia chi nemmeno idealmente possiamo investire del nostro egoismo. In senso assoluto, non possiamo recarci davanti agli occhi lo spettacolo di uno che goda (il piacere che si può attribuire al prossimo è sempre soltanto fisico) senza riempirci di livore. E a volte ce la prendiamo con noi stessi quando, sdoppiandoci, ci cogliamo intenti a godere fisicamente. Odiamo allora la grossolanità di quel godimento, cioè la sua alterità, la qualità che lo accomuna ai piaceri degli altri. Perché la grossolana epidermide non è cosa nostra. L’odio è sempre una contrapposizione del nostro spirito al corpo altrui32.

(E insieme non è forse il sospetto che quel corpo abbia uno spirito e se la intendano in modi inauditi, superiori ai nostri o per lo meno sconosciuti? cfr. la fine di 29 settembre e il II 3 ottobre). [p. 130 modifica]

L’odio sarà — quindi — il sospetto che un corpo altrui possegga per suo conto uno spirito e di noi faccia a meno. Quello che tutti vogliamo insomma dagli altri è il consenso asservito e amoroso alle nostre esigenze (anche a quella, fortissima, di umiliarci ai loro piedi), che solo, e in ragione della sua ininterrotta presenza, può fare che ci compiacciamo dei godimenti dell’altro.

In questo senso odiare è veramente ignorare il prossimo, anzi sapere di ignorare il prossimo e non vederne che l’esterno. E siccome non si può sapere di ignorare senza desiderare di conoscere, l’odio è sete d’amore.

La carità è tutta questione di nervi.

13 novembre.

Nel racconto in prima persona si può essere realistici senza tuttavia cadere nel verismo. A parità di realismo il racconto in prima persona riesce piú cantato di quello in terza.

Proust è ossessionato dal pensiero che ogni speranza realizzandosi sostituisce appunto se stessa col nuovo stato e cancella perciò quello precedente (sogni di Swann che si sposerà. Sogni di Je che sarà ricevuto in casa Swann). Oltre l’incomunicabilità delle anime, anche quella degli stati d’animo tra loro. Di qui il senso che tutto è relativo e vano — a meno di ritrovare il temps perdu. Di qui il gusto per la fantasticheria e il sadico rilevare come negli scontri con la realtà essa dilegui e occorra quindi cercare una legge che serva a eternare ogni sogno.

Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli. [p. 131 modifica]

17 novembre.

Una classe prende la mano a un insegnante per trapassi impercettibili, che l’insegnante tollera per signorilità sapendo che la sua presenza non i suoi richiami debbono ispirare il silenzio. Ma via via il brusio si fa generale e l’insegnante deve intervenire e richiamare qualcuno. La classe capisce che l’insegnante non è invulnerabile, che qualcuno ha parlato, che quel qualcuno ciascuno può esserlo. Seguono altri richiami che abituano al richiamo. Siccome non tutti possono essere colpiti, si forma uno stato di brusio tollerato che scusa ciascun allievo in particolare. L’insegnante richiama ora con maggior violenza e quindi — tanto vale — i brusii si fanno piú maligni, intenzionali, dato che l’insegnante o per signorilità rilutta o non riesce a trovare sanzioni agghiaccianti. Il brusio diventa quindi uno stato endemico, di distrazione, di sfogo, di guerra, ora che si sanno i limiti delle reazioni dell’insegnante. La sua semplice presenza non basta piú a far tacere, ci vuole il richiamo e il richiamo ha scoperto la sua precarietà.

21 novembre.

Sentir parlare insieme persone della stessa attività, mestiere, professione, sesso, setta, ecc. disgusta di questa attività, ecc. A meno che l’ascoltatore non sia di questa attività, mestiere, ecc. La ragione è che la competenza trasforma la piú avventurosa delle occupazioni in abitudine e precisando le toglie ogni mistero e tutti quei falsi veli, nati appunto dal mistero, che stanno a lei come la leggenda sta alla storia. Fin qui giungerebbe il Leopardi.

Di là dal Leopardi, noi diremo che l’incompetenza è molto piú infelice della competenza, perché condannata a scoprirsi vana un bel momento e aggiungere alla delusione delle fantasie la triste convinzione della propria sciocchezza e inettitudine. Mentre c’è un robusto e stoico piacere a uscire da questa vanità e muoversi come tra i congegni di una macchina nello spietato mondo delle verità effettuali. Piacere del resto che, senza averlo giustificato, anche il Leopardi gustava nelle sue malvage analisi. [p. 132 modifica]

24 novembre.

Quei coetanei conosciuti nella tua giovinezza che senti giudicare ora dalla giovane N., con la quale t’intendi, «vecchi ruderi».

«Ma perché si trovano ancora quei vecchi ruderi?» — come potrebbero sfuggire a questo giudizio? Evidentemente non facendo piú come facevano da giovani, cioè non «trovandosi» piú, non continuando gli stessi discorsi, non rievocando con la loro presenza un impossibile fantasma svanito. Come può una persona di trentanni non sentirsi un rudere? Smettendo di vivere sulle speranze: cioè smettendo di credere che il reciproco contatto amichevole possa cambiare qualcosa alla loro vita, e di ricercare nei discorsi un appiglio, un ampliamento della loro persona.

Si dice che la giovinezza è l’età della speranza, appunto perché in essa si spera confusamente qualcosa dagli altri come da se stessi - non si sa ancora che gli altri appunto sono altri. Si cessa di essere giovani quando si distingue tra sé e gli altri, quando cioè non si ha piú bisogno della loro compagnia. E s’invecchia in due modi: o non sperando piú nulla nemmeno da sé (impietramento, rimbecillimento, ecc.), o sperando soltanto da sé (operosità).

In maturità ci sono due modi di trattare gli altri: come se tutti si fosse giovani ma senza impegnarsi, sapendo di farlo; come se tutti si fosse vecchi, e lasciando intendere quindi che si sa dell’isolamento di ciascuno.

Perché sposarsi segna il trapasso dalla giovinezza alla maturità? Perché con quest’atto si sceglie tra le compagnie una che separa da tutte, che s’identifica con noi, che diventa l’arena circoscritta della nostra socialità onde non avere piú bisogno di cercare la compagnia fuori di noi. È il suggello dell’egoismo che occorre per vivere moderatamente, un egoismo cui serve di scusa il fatto che si crea dei doveri.

Dei due modi di essere maturi sopra accennati, il primo è tremendamente difficile perché appunto si muta facilmente nella sciocca illusione d’essere ancora giovane e nella speranza e ricerca di uno stracco contatto che non crede piú a se stesso. Cioè, crea i ruderi scettici. Il secondo è piú istintivamente facile, ma torce i nervi e mette in situazioni spiacevoli e alla lunga cede a qualche postuma e indistruttibile speranza di contatto, di compagnia, in cui ci si butta, come per reazione, tanto piú ciecamente. Cioè, crea i ' [p. 133 modifica] ruderi ingenui. Inutile dire che anche questi ruderi e anche i maturi che resistono nella loro maturità, sono egoismo.

La carità non si vede. Quella dei giovani non è ancora carità, appunto perché diventerà uno di questi egoismi, al massimo sui trentanni.

(Tutto questo discorso è un’illustrazione della bella massima del 31 ottobre ’37).

26 novembre.

Mentre dura lo stupore di essere uscito di prigione in paese straniero, vedere andare un altro — già caro — in prigione, e l’idea fissa di questo secondo carcere colorirsi dell’estraneità del paese che mostra, nella nuova solitudine, il volto segreto. Il Genovese altoparla nella sua volgare disinvoltura le strane cose del paese e rilutta e condanna non ricettivo ma esigente e quindi approvatore quando il paese gli cede.

Riprendo il 24 novembre. — La serietà genera l’ingenuità.

29 novembre.

Il senso della cella invisibile genera provvisorietà anche a quell’ambiente umano che accoglie. Chi si fa casa di una cella?

30 novembre.

I) Fare una novella ha due tempi. C’è un’acqua che s’intorbida, ci sono dei gesti violenti, dei sussulti, della schiuma; poi c’è una calma, una passività, l’acqua che trema si fa immobile, dirada, si schiarisce, e tutto traspare impreveduto. Il fondo e il cielo eccoli immobili.

La novella è avvenuta pacatamente, in questo decantarsi d’ogni moto e impurità. Ricordare: è avvenuta pacatamente. [p. 134 modifica]

II) Cosí nasce una novella: l’acqua scomposta si schiarisce tremando e si ferma.

I) e II) sono i due tempi, il I) torbido e scomposto, il II) sereno.

3 dicembre.

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra — che già viviamo — e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.

Com’è grande il pensiero che ogni sforzo è inutile! basta lasciare affiorare il nostro io, accompagnarlo, dargli mano, come se si trattasse di un altro; avere fiducia che noi siamo piú definitivi di quanto noi non sappiamo.

4 dicembre.

Il Fioretto della Predica agli Uccelli può insegnare a chiunque la costruzione simbolica. San Francesco è in dubbio se orare o predicare e lo fa chiedere a «sirocchia» Clara e a frate Silvestro che aveva veduto la croce d’oro, dalla bocca di San Francesco alle estremità del mondo. La risposta è che predichi. (E allora con impeto di spirito predica a Carmano comandando alle rondini di tacere, e tutta la gente vuole seguirlo e San Francesco li fa frati minori). Poi predica a Bevagno alle «sirocchie» uccelli che, ascoltato e benedette, volano in segno di croce, significando la predicazione alle quattro estremità del mondo.

L’interesse simbolico annoda Clara sirocchia e Silvestro crocifero alle sirocchie e crocifere uccelli (attraverso la predicazione di Carmano che sotto il segno delle rondini trasforma tutta una gente in frati minori). Che gli uccelli siano atteggiati a sirocchie (Clara) [p. 135 modifica]e a crociferi (Silvestro) questo è l’accorgimento che costruisce la storia e fa di una semplice graziosità (contegno degli uccelli alla predica) un’immagine profonda e ricca di vita interiore. Questo sarà simbolo, ma certo è poesia. Clara e Silvestro (i compagni) dànno e prendono significato agli uccelli — e questa la chiamo un’immagine. (La divozione della gente di Carmano e il tacere delle rondini sono un accorto nodo che unisce i due termini della maggiore immagine).

Suggerire con un gesto ripetuto, con un appellativo, con un richiamo qualunque, che un personaggio o un oggetto o una situazione ha un legame fantastico con un altro del racconto è togliere materialità a ciascuno dei due soggetti e instaurare il racconto di questo legame, di quest’immagine, invece che quello dei casi materiali di entrambi.

«Quest’immagine» non dev’essere una somiglianza e punto. Quest’immagine deve colorare di sé tutto il suo soggetto e mostrarlo veduto in una certa luce, in un certo significato, che è poi la verità da comunicare: il «sirocchie e la croce» trasformano compagni e uccelli in «creature di carità testimonianti Dio», cioè comunicano un «messaggio di operosa carità».

Cosí trattare i simboli danteschi, che non sono già la Croce e l’Aquila, ecc. (o meglio questi sono i piú banali), ma, per esempio, la nota crepuscolare di tutti gli episodi del Purgatorio che dà e prende significato alle visioni e loro risvegli e che esprime il messaggio di «mondo che sfuma gioiosamente».

6 dicembre.

La vecchiaia — o maturità — scende anche sul mondo esterno. La rigida e trasparente notte invernale che staglia le case nel cielo che attende la neve, un tempo toccava il cuore e apriva un mondo d’ansia eroica.

Non è piú necessario, col tempo, muoversi nel mondo esterno vivendoci l’ansia: basta il suo rapido accenno, sapere che esiste ed esiste in noi, e attendere un mondo tutto fatto di vita interiore che ha preso ormai la novità e la fecondità della natura. La maturità è anche questo: non piú cercar fuori ma lasciare che parli, col suo ritmo che solo conta, la vita intima. È ormai povero e materiale il [p. 136 modifica]mondo esterno davanti alla inaspettata e profonda maturità dei ricordi. Persino il sangue e il corpo nostri si sono maturati e intrisi di spiritualità, di largo ritmo.

La giovinezza è non possedere il proprio corpo né il mondo.

Rinasce come corollario l’antico pensiero che il genio è fecondità — ottanta tragedie, venti romanzi, trenta opere, ecc. — . Perché il genio non è scoprire un motivo esterno e trattarlo bene, ma giungere finalmente a possedere la propria esperienza, il proprio corpo, i propri ricordi, il proprio ritmo — ed esprimere, esprimere questo ritmo, fuori dalla limitatezza degli argomenti, della materia, nella perenne fecondità di un pensiero che per definizione non ha fondo.

La giovinezza non ha genio e non è feconda.

8 dicembre.

Chi denunci l’immoralità dell’amore mercenario, dovrà lasciar stare ogni donna, perché, esclusi i rari attimi in cui ci si offre il corpo per amore, anche la donna che ci ha amati si lascia fare e fa soltanto per cortesia o per interesse, su per giú rassegnata come una meretrice.

Lo stesso, benché forse meno frequente, va detto dell’uomo.

Per uscire da questo dramma, non c’è che condannare anche l’amore sincero in quanto diretto a godersi. Ma resta sempre che il chiavare — che richiede carezze, che richiede sorrisi, che richiede compiacenze — presto o tardi per uno dei due diventa un fastidio in quanto non si ha piú naturalmente voglia di carezzare, di sorridere, di compiacere quella data persona; e allora diventa una menzogna come il meretricio. Non si scappa. Anche se lo scopo è fare dei figli.

La chiusa del 6 dicembre conferma le affermazioni del 24 novembre sulla giovinezza. «Si cessa di essere giovani quando si distingue tra sé e gli altri». «La giovinezza è non possedere il proprio corpo». Maturità è l’isolamento che basta a se stesso. [p. 137 modifica]

10 dicembre.

L’ozio rende lente le ore e veloci gli anni. L’operosità rapide le ore e lenti gli anni. L’infanzia è la massima operosità perché occupata a scoprire il mondo e svariarselo.

Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l’infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la piú corta è la vecchiaia perché non sarà piú ripensata.

Ogni cosa che ci è accaduta è una ricchezza inesauribile: ogni ritorno a lei l’accresce e l’allarga, la dota di rapporti e l’approfondisce. L’infanzia non è soltanto l’infanzia vissuta, ma l’idea che ce ne facemmo nella giovinezza, nella maturità, ecc. Per questo appare l’epoca piú importante: perché è la piú arricchita dai ripensamenti successivi.

Gli anni sono un’unità del ricordo; le ore e i giorni, dell’esperienza.

20 dicembre.

Al gusto della battuta significativa e bizzarra, sostituire il pensiero significativo e bizzarro non piú dialogato, ma approfondito a tessuto connettivo della storia.

La prima è realismo descrittivo, il secondo è costruzione.

Via i personaggi che dicono cose intelligenti: le cose intelligenti devi saperle tu e distenderle a costruzione della storia.

26 dicembre.

Il carcere deve apparire come il limite di ogni carità, il congelamento della simpatia umana, per cui la storia è, in fase ascendente, lo sciogliersi di queste pareti (la stranezza del mondo nuovo non dev’essere fine, ma mezzo a che meglio risalti lo stupore) e, in fase discendente, l’orrore del nuovo richiudersi di un altro, e qui di nuovo la stranezza accrescerà la gravità della solitudine. [p. 138 modifica]

27 dicembre.

Benché in realtà l’infanzia sia fatta di lunghi periodi di opacità e di rari contatti col mondo (i primi), pare al ricordo molto lunga appunto perché quelle importantissime scoperte le sappiamo intercalate da lunghe pause.

L’arte di vivere è l’arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiamo bisogno d’invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle ma bisogna anche disprezzarle.

Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi.


Note

  1. Omessa una riga e mezza [N. d. E.].
  2. Omesse tredici righe [N. d. E.].
  3. Omesse quattro righe [N. d. E.].
  4. Omesse quattro righe [N. d. E.].
  5. Omesse trenta righe [N. d. E.].
  6. Omesse quattro righe [N. d. E.].
  7. Mario Sturani, amico di giovinezza dell’A. [N. d. E.].
  8. Omesse venticinque righe [N. d. E.].
  9. Omesse cinque righe [N. d. E.].
  10. Omesse quattro righe [N. d. E.].
  11. Omesse dodici righe [N. d. E.].
  12. Omesse tre righe [N. d. E.].
  13. Omesse quattro righe [N. d. E.].
  14. Omesse cinque righe [N. d. E.].
  15. Omesse due righe [N. d. E.].
  16. Omesse otto righe [N. d. E.].
  17. Omesse dodici righe [N. d. E.].
  18. Omesse dodici righe [N. d. E.].
  19. Brancaleone Calabro [N. d. E.].
  20. Omesse venticinque righe [N. d. E.].
  21. Omesse tre righe [N. d. E.].
  22. Omesse tredici righe [N. d. E.].
  23. Omesse tre righe [N. d. E.].
  24. Omesse tre righe [N. d. E.].
  25. Omesse tre righe [N. d. E.].
  26. Omesse nove righe [N. d. E. ].
  27. Omesse sette righe [N. d. E.].
  28. Le parole in corsivo sono segnate nel manoscritto da una sottolineatura e da un punto esclamativo a matita rossa, evidentemente posteriori [N. d. E.].
  29. Le parole in corsivo tono segnate, nel manoscritto, da una sottolineatura a matita rossa, evidentemente posteriore. L’A. ha annotato in margine che le sottolineature «si riferiscono alla citazione dell’11 novembre» [N. d. E.].
  30. Omesse due righe [N. d. E.],
  31. Gertrude Stein [N. d. E.].
  32. Sottolineature in matita rossa [N. d. E.].