Il mestiere di vivere/1937
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 1936 | 1938 | ► |
1937
8 gennaio.
Gli sbagli sono sempre iniziali.
13 gennaio.
I vecchi e i giovani1 è un romanzo sbagliato perché, farcito di antefatti e spiegazioni sociali e politiche che dovrebbero farne un poema morale di idee in organismo e sviluppo drammatico, si frantuma invece in figure che hanno per legge interiore la solitudine e concludono ognuna — con la logica della solitudine — alla pazzia, all’inebetimento, al suicidio o alla morte senza eroismo. Tutte sono deformate in un ticchio, in un abito interiore, che tende a esprimersi o in monologo o in macchiettata.
Manca al racconto un ritmo di alternanze di prosa stesa e di dialogo; e non c’è la forma della solitudine se non per ciascun personaggio in separata sede; manca l’epopea del mondo di solitari. Anche, ogni personaggio separato, è dall’esterno costruito di antefatti, di analisi, di uscite, che non hanno un ritmo; si sente che l’autore butta giú con calcolo logico molta roba a giustificare i momenti in cui il solitario culmina e s’esprime, talvolta molto efficacemente.
La prova dell’essenziale composizione a freddo è lo stile, lucido, vitreo, anche se ogni tanto si colora di passionali scatti. Sono calcolati, ragionati, anche questi.
17 gennaio.
Quanto piú un uomo s’impaccia in una passione, tanto piú casi di per sé indifferenti gli risultano a dolore; deludendo appunto per la loro indifferenza la sua avidità protesa. Un ambizioso soffrirà per la mancata protesta di riconoscimento da parte di un celebre; il quale inferirà a un evangelico ricercandone la conversazione scrupoli di tentazione; che a loro volta faranno dispetto a un individualista, assalendolo suo malgrado. L’invidia, ambizione rovesciata, sta alla base di ogni angustia sofferta. Non si può tollerare che una cosa avvenga indifferentemente, per caso, fuori della nostra impronta.
Qualunque genere di fervore porta con sé la tendenza a sentire una prestabilita legge nella vita, che punisce chi abusi o trascuri il fervore stesso. Uno stato di passione — fosse anche l’ebbrezza dell’assoluta autodeterminazione — talmente organa e anima l’universo, che ogni rovescio appare poi portato da una rottura del vitale equilibrio di quella diffusa passione, che cosí si difende come un corpo vivente. E secondo il temperamento parrà di aver abusato o d’esser stato inferiore: comunque ci si sentirà organicamente puniti dalla legge della passione stessa e dell’universo. Che è quanto dire che ogni fervore porta con sé un superstizioso convincimento di aver da fare i conti con la stessa logica delle cose. Persino il fervore del miscredente nella trascendenza di una legge.
28 gennaio.
Qualunque sventura, o ci si è sbagliati e non è una sventura, o nasce da una nostra insufficienza colpevole. E siccome sbagliarci è colpa nostra, cosí di qualunque sventura non dobbiamo incolpare altri che noi. E adesso consòlati.
18 giugno.
1 Marmaglia - Prete - Discorsi (Pomeriggio)
2 In fuga - Strada - Fischio (Crepuscolo)
3 Inchiesta - Prete in preghiera
4 Donna e lui (Notte alta)
5 (Mattino) Vestizione - Ritorno2.
4 luglio.
[.....]3.
3 agosto.
Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre.
27 settembre.
(29 — reso Stendhal)
30 settembre.
Le uniche donne che vale la pena di sposare, sono quelle che non ci si può fidare a sposare.
Ma questa è la piú atroce: l’arte della vita consiste nel nascondere alle persone piú care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si pèrdono.
12 ottobre.
[.....]4.
31 ottobre.
Si cessa di essere giovani quando si capisce che dire un dolore lascia il tempo che trova.
6 novembre.
Il maggiore torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo. Niente è piú abbietto dello stato di disintegrazione morale cui porta l’idea — l’abitudine dell’idea — del suicidio. Responsabilità, coscienza, forza, tutto galleggia alla deriva su quel mare morto, e affonda e riaffiora futilmente, a ludibrio d’ogni stimolo.
Il vero raté non è quello che non riesce nelle grandi cose — chi mai c’è riuscito? — ma nelle piccole. Non arrivare a farsi una casa, non conservare un amico, non contentare una donna: non guadagnarsi la vita come chiunque. Questo è il raté piú triste.
9 novembre.
La ripetizione nelle nuove poesie non ha una ragione musicale ma costruttiva. Osservare come le frasi-chiave in esse sono sempre al presente, e le altre vi convergono anche se al passato. Voglio dire che mi succede in queste poesie di afferrare una realtà attuale, non narrativa ma evocativa, dove accade qualcosa a un’immagine, accade ora, in quanto l’immagine viene ora elaborata dal pensiero e veduta agire e affondare le sue radici nella realtà.
La parola o frase ripetuta non è altro che il nerbo di questa immagine, costruito da cima a fondo come un’impalcatura, il perno per cui la fantasia gira su se stessa e si sostiene appunto come un giroscopio che esiste solo nel presente, in azione, e poi cade e diventa un ferro qualunque.
13 novembre.
Ai piccoli grandi uomini giunge sempre un momento in cui gli fanno pagare la grandezza dicendogli: «Sei grande, ma appunto per questo non mi arrischio ad affidarti la mia vita».
Un uomo non rimpiange per amore chi l’abbia tradito, ma per avvilimento di non avere meritato la fiducia.
16 novembre.
Non è già chiaro tutto il suo destino in un bimbo di tre anni che, mentre lo vestono, pensa inquieto come farà a vestirsi da grande, lui che non sa?
Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonargli, non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore. Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona. Erano in gamba gli inventori dell’amore di Dio: altro che insieme si possieda e si goda, non esiste.
17 novembre.
Ogni donna desidera avidamente un amico, con cui confidarsi e riempire il vuoto delle ore in cui il terzo è lontano; esige che questo amico non le disturbi il suo amore; s’irrita se le chiede qualcosa che interferisca col suo amore: ma che l’amico si raccolga in sé e castighi i propri sguardi e le proprie parole all’unico scopo di non piú soffrire di quel desiderio e subito la donna — ogni donnam — rimette fuori sguardi, unghie e parole per saperlo e vederlo soffrire. E lo fa senz’accorgersene.
E soprattutto ricordarsi che far poesie è come far l’amore: non si saprà mai se la propria gioia è condivisa.
È incredibile che la donna adorata venga a dire che i suoi giorni sono vuoti e tormentosi ma che di noi non vuole saperne.
Il compenso di aver tanto sofferto è che poi si muore come cani.
I grandi poeti sono rari come i grandi amanti. Non bastano le velleità, le furie e i sogni; ci vuole il meglio: i coglioni duri. Che si chiama altresí l’occhio olimpico.
20 novembre.
Tutto quanto potevo concedere alla «poesia pura» risulta dalla unificazione estatica d’ogni poesia nell’attimo contemplativo. L’oratoria manca, mancando il pensiero tramato. Tutto si risolverà in un’illuminazione accesa dai vari pensieri e dalle sensazioni intrecciate. L’immagine-racconto era questo. Soltanto, era un racconto fatto di un solo verbo (Uccise - Fumò - Bevve - Godette - ecc.). Il problema è come uscire dalla semplice proposizione e scrivere dei periodi.
Sarà come per il romanzo attuale? Ai fatti concatenati sostituire il paesaggio interiore? Tornare alla idea di dare il pensiero in movimento?
Il piú ordinario e banale modo di raccontare il pensare è di impiantare una figura che va costruendosi col proprio passato e avvenire. Il vecchietto di Semplicità. Il dio-uomo di Mito. La puttana della Puttana contadina5. Il metodo di queste poesie è un compromesso tra la posizione del personaggio e la logica fantastica della materia che li costruisce. Non racconto soltanto la loro essenza e non racconto soltanto il mio fantasticare. È sempre ambiguo se essi pensino o io li pensi. M’interessano insieme le loro esperienze e la mia logica fantastica. Ma siamo chiari: la mia logica è un mezzo, un modo d’essere delle loro esperienze. La «scoperta di rapporti che è essa stessa argomento del mio raccontare» parrebbe quindi una chimera.
Siamo chiari: at the back of my head io non tollero che l’argomento sia la scoperta dei rapporti. Nemmeno nell’estasi il mezzo non è il fine. In pratica nessuno può raccontare il suo stile: lo stile è per definizione cosa che si adopera a un fine.
Dove lo stile diventi esso un fine, diverrà qualcosa di oggettivo, una situazione, che non si vede perché debba avere maggior dignità di un qualunque altro mondo narrativo.
Del cugino dei Mari del Sud dicevo che faceva una cosa e un’altra, mentre della puttana contadina dico che le ritorna nel mattino, suggerito dall’ambiente (odori, sole, membra, letto), il complesso dell’infanzia e a questo proposito si pensa il sentenzioso finale.
Anche dell’eremita del Primo Paesaggio dicevo che faceva una cosa e un’altra e la novità sui Mari era che questi fatti avevano rapporti fantastici oggettivi. Con l’io di Gente Spaesata soltanto comincio a dire che si pensa un complesso fantastico, e questo pensare è materia del racconto.
Nasce quindi dall’io personaggio l’immagine-racconto (cfr. anzi l’io fanciullo dei Mari che nel suo poco è già persona di cui si dice meno quello che fa che non ciò che pensa). Questo è il punto: l’io nascosto del Dio caprone, l’io di Mania di solitudine, l’io di Pensieri di Dina lo confermano: l’io che racconta il suo pensare ha creato il metodo delle successive poesie in terza persona dove l’argomento non è piú ciò che il personaggio fa, ma ciò che pensa. La poesia d’ora in poi dice del personaggio il complesso fantastico a lui interiore. E che il secco pensare sia diventato dall’eremita in poi lussureggiare di sensazioni non ha importanza specifica.
Sbagliavo nel Mestiere del poeta affermando che con l’eremita ho fatto argomento del racconto l’immagine: con l’eremita ho la prima volta goduto di sensazioni e loro rapporti, però l’argomento erano ancora i fatti.
Cosí, intravisto il momento evolutivo, è chiaro perché mi paresse di dover parlare di un compromesso. Se l’immagine-racconto è nata empiricamente dalla situazione di un io che racconta i suoi fatti sotto forma di pensieri ( = immagini), le poesie oggettive, in terza persona, sono una ordinaria trasposizione in terza persona della secolare tecnica introspettiva. Per accorta o trasecolante che sia l’evocazione dei vari complessi fantastici (le immagini-racconto) ecco che si chiarisce come il soggetto non sia il processo logico-fantastico di una mente, ma sempre ancora ciò che quella mente pensa e sente. Non lo stile, ma il contenuto. Che è conclusione tanto ordinaria, da sembrare stupida.
Siamo chiarissimi: per ottenere un vero racconto del pensare dovrei evocare il complesso interiore di un tale che medita sopra i propri modi di pensare. E non pare un grande soggetto.
La verità del motto «Rinunciate alla terra e la terra vi sarà data per soprammercato» consiste in ciò: che avendo rinunciato a tutto, giganteggiano le piccole cose che ancora ci restano. È un modo, insomma, di estrarre il sugo dalle minime cose solitamente trascurate.
E poi c’è questo: per gli altri il valore delle cose che essi stessi ci negano, è segnato in gran parte dalla nostra avidità di possederle. Che noi guardiamo da un’altra parte, e subito i proprietari delle cose se le vedranno invilire tra le mani, e ce le tireranno dietro.
Questo per la sapienza mondana. Ma siccome la sentenza vuole avere un riferimento mistico, ne consegue molto male per il misticismo. Che anche Dio faccia il valore delle sue creazioni secondo che noi le desideriamo o meno? Un Dio col complesso d’inferiorità: chi l’avrebbe mai detto?
21 novembre.
Se è vero che ci si abitua al dolore, come mai con l’andar degli anni si soffre sempre di piú?
No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte — non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.
Se in tutte le cose il martellamento trionfa, perché non anche in questa?
Pensare che quel corpo ha pure un pensiero, un risveglio, un riposo, un languore, una quotidiana durata, e s’io fossi quell’uomo, avrei davvero tutto questo, nella stanza vicina o sotto gli occhi. La giornata finirebbe in lei: questo, questo ho perduto. E non c’è forza umana che possa ridarmelo. E tutto questo è stato buttato senza amore. E non è un delitto, non è un peccato, non è nemmeno una scorrettezza: è una cosetta che si fa; che non rimorde, come schiacciare un moscerino.
Allegri, c’è una legge morale.
23 novembre.
L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso — prigione, malattia, abitudine, stupidità — , si vorrebbe morire.
È per questo che quando una situazione dolorosa si riproduca identica — appaia identica — nulla ne vince l’orrore.
Il principio suddetto non è poi da viveur. Perché c’è piú abitudine nell’esperienza ad ogni costo (cfr. il brutto «viaggiare ad ogni costo»), che nella normale rotaia accettata doverosamente e vissuta con trasporto e intelligenza. Sono convinto che c’è piú abitudine nelle avventure che in un buon matrimonio. Perché il proprio dell’avventura è di serbare una riserva mentale di difesa; per cui non esistono buone avventure. È buona quell’avventura cui ci si abbandona: il matrimonio insomma, magari di quelli fatti in cielo.
Chi non sente il perenne ricominciare che vivifica un’esistenza normale e coniugata, è in fondo uno sciocco che, quantunque dica, non sente nemmeno un vero ricominciare in ogni avventura.
La lezione è sempre una sola: buttarsi a capofitto e sapere portare la pena. È meglio soffrire per avere osato far sul serio, che to shrink (o to shirk?) Come nel caso dei figli: lo vuole del resto la natura, e dare indietro è vile. Alla fine — e si è visto — si paga piú cara.
25 novembre.
La legge morale serve a non fare del male a noi, non a risparmiarlo agli altri. La carità soltanto può dirci quanto male facciamo agendo secondo il nostro dovere. Ciò si vede non solo nei casi d’amore, ma in tutta la vita. Ma questo sarebbe un immenso ideale: chiedere sempre, instancabilmente, a ciascuno che cosa l’offende, lo priva, lo tortura, e compensare, abbracciare, riaccendere.
Ma a ciascuno vuol dire a tutti, e vuol dire sempre, e non si può. Non si può specialmente perché uno almeno non avrebbe questo compenso e questo abbraccio, e quest’uno siamo noi. Perché una cosa è certa: veder godere, anche per opera nostra, non basta alla nostra pace. Esempio: le donne insoddisfatte.
Pare un miscuglio di sacro e di profano, ma non è. La vita comincia nel corpo.
Scrivo: ***, abbi pietà. E poi?
Non dovrai mai piú prendere sul serio le cose che non dipendono da te solo. Come l’amore, l’amicizia e la gloria.
E quelle che dipendono da te solo, importa poi molto se le pigli o no sul serio? Chi ne saprà nulla? Perché, se si è soli, non c’è chi: anche l’io se ne scompare. Sempre piú bello.
26 novembre.
Perché dimentichiamo i morti? Perché non ci servono piú.
Un triste o un malato lo dimentichiamo — respingiamo — in ragione della sua inservibilità psichica o fisica.
Nessuno mai si abbandonerà in te, se non ci vedrà il suo tornaconto.
E tu? Credo di essermi abbandonato una volta disinteressatamente. Quindi non debbo piangere se ho perduto l’oggetto di quell’abbandono. Non sarei piú stato disinteressato, in questo caso.
Eppure, a vedere quanto si soffre, il sacrificio è contro natura. O superiore alle mie forze. Non posso non piangere. E piangere è cedere al mondo, è riconoscere che si cercava il tornaconto.
C’è qualcuno che rinuncia pur potendo avere? Questa carità non è altro che l’ideale dell’impotenza.
E allora, basta con la virtuosa indignazione. Se avessi avuto denti e astuzia avrei raccolto io la preda.
Ma questo non toglie che la croce del deluso, del fallito, del vinto — di me — sia atroce a portare. Dopotutto il piú famoso crocefisso era un dio: né deluso né fallito né vinto. Eppure con tutta la sua potenza, ha gridato «Eli». Ma poi si è ripreso, e ha trionfato, e lo sapeva prima. A questo patto, chi non vorrebbe la crocefissione?
Tanti sono morti disperati. E questi hanno sofferto piú di Cristo.
Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente.
Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione; il punto di scontro tra il loro essere reale, scheletrico, e l’infinita complessità della vita. E tutti prima o poi se ne accorgono. Di ciascuno bisognerà indagare, immaginare il lento accorgersi o il fulmineo intuire. Quasi tutti — pare — rintracciano nell’infanzia i segni dell’orrore adulto. Indagare questo vivaio di retrospettive scoperte, di sbigottimenti, questo loro angoscioso ritrovarsi prefigurati in gesti e parole irreparabili dell’infanzia. I Fioretti del Diavolo. Contemplare senza posa quest’orrore: ciò ch’è stato, sarà.
28 novembre.
In amore conta soltanto aver la donna in letto e in casa: tutto il resto sono balle, luride balle.
La forma piú banale d’amore trova pasto in ciò che si ignora dell’oggetto. Ma che cosa supera un amore che sia fatto di ciò che si conosce dell’oggetto?
La verità è che io arrivo sempre tre o quattro anni dopo i miei coetanei: di qui l’attaccamento disperato e insieme infastidito alle mie verità.
Prova della vanitas vanitatum: ci si interessa tanto a se stessi, eppure che siamo noi e non altri è solo casuale. Potevo nascere donna e fare la serva, e allora, quali problemi?
Non è illusoria anche l’importanza che ci si attribuisce quando l’interesse contempli noi e la serva e tutto il genere umano? Persona di vasti interessi.
Non è tragico il fatto che ogni persona di fede sia un poco ridicola? Se ci fosse una sola fede questo non accadrebbe. La grande, la tremenda ironia della vita è che in qualunque momento possiamo essere sciocchi. Tutti temono ciò: si preferisce essere carogne che imbecilli. Vecchia canzone. La ragione è che ogni imbecille è anche carogna e non viceversa. È concepibile una saggia carogna. Esiste invece un imbecille buono? Nell’attimo forse, ma l’annata, la vita dell’imbecille conta sempre delle carognate, perché l’insipienza porta in situazioni da cui non s’esce che violando le regole del gioco sociale.
Conosco uno sciocco che ha rifiutato d’imparare in giovinezza le regole del gioco, perduto dietro chimere, e ora le chimere sfumano e il gioco lo stritola.
Problema: la donna è il premio del forte o l’appoggio del debole, secondo ch’essi vogliono?
Ironia della vita: la donna si dà come premio al debole e come appoggio al forte. E nessuno ha mai il fatto suo.
29 novembre.
Non dovrà sorprendermi, in qualche mattina di nebbia e di sole, il pensiero che quanto ho avuto è stato un dono, un grande dono? Che dal nulla dei miei padri, da quell’ostile nulla, sono pure sgorgato e cresciuto io solo, con tutte le mie viltà e le mie glorie e, a fatica e durezza, scampando a ogni sorta di rischi, sono giunto a quest’oggi, robusto e concreto, incontrando lei sola, altro miracolo del nulla e del caso? E che quanto ho goduto e sofferto con lei, non è stato che un dono, un gran dono?
30 novembre.
Ogni critico è propriamente una donna nell’età critica, astioso e refoulé.
Un uomo ha fatto un delitto. Leviamo la paura che arrivi subito qualcuno, l’ansietà della faccia da mostrare al mondo, il terrore del mondo armato contro di lui. Leviamo la preoccupazione di salvarsi, di andarsene come nulla fosse stato; mettiamo che ci sia la certezza di scampare. Non rimane però un abisso di orrore: la certezza che la vittima — adorata o aborrita — non esiste piú, non sarà piú nulla né per il nostro odio né per il nostro amore? L’angoscia di una nuova vita da rifarsi, perché con la vittima siamo morti anche noi, l’improvviso venir meno di tutta la nostra sostanza, che — se il delitto era veramente passionale — faceva un tutto con l’esistenza della vittima?
Eppure non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché?
Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo — sperando — che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un’ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma — parlo di me — si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto piú importante di tutta la vita.
Pensiero d’amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso.
1° dicembre.
La mia felicità sarebbe perfetta, se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre. Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo.
2 dicembre.
Oggi hai parlato troppo.
4 dicembre.
Hanno senso umoristico quelli che hanno senso pratico. Chi trascura la vita rapito in una sua ingenua contemplazione (e tutte le contemplazioni sono ingenue), non vede le cose staccate da sé, dotate di libero e complesso e contrastante movimento, ciò che forma l’essenza della loro comicità. Il proprio della contemplazione è invece di fermarsi al sentimento diffuso e vivace che sorge in noi al contatto con le cose. Qua è la scusa dei contemplativi: essi vivono a contatto delle cose, e necessariamente non sentono la loro singolarità e proprietà, ma solo appunto le sentono. I pratici — paradosso — vivono staccati dalle cose, non le sentono, ma le comprendono nel loro meccanismo. E ride di una cosa solo chi ne sia staccato. Qui è implicita una tragedia: ci si impratichisce di una cosa, staccandosene e cioè perdendovi interesse. Di qua, la corsa affannosa.
Naturalmente, di solito nessuno è contemplativo o pratico in modo totale, ma siccome tutto non si può vivere, resta anche ai piú navigati sentimento di qualcosa.
Hai affidato la tua vita a un capello: non dibatterti, altrimenti lo strappi.
[.....]6.
L’ingenuità ha una sua scaltrezza ch’è fatta proprio della sua insouciance. «Sei tanto stupido, che nessuno ti resiste».
Sotto una varietà di curiosi accorgimenti, una all-pervading sciocchezza è la miglior politica.
5 dicembre.
L’errore dei sentimentali è non di credere che esistano «teneri affetti», ma di accampare un diritto su questi affetti in nome della propria tenera natura. Mentre soltanto le nature dure e risolute sanno e possono crearsi una cerchia di teneri affetti. E va da sé — tragedia — che esse li godono meno. Chi ha denti, ecc.
Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale che non riguarda l’oggetto amato — nemmeno se questo riami. Ci si scambia, anche in questo caso, dei gesti e delle parole simboliche in cui ciascuno legge quanto ha dentro di sé e per analogia suppone viga nell’altro. Ma non c’è ragione, non c’è bisogno, che i due contenuti combacino. Ci vuole un’arte tutta propria per sapere accettare e interpretare favorevolmente quei simboli e disporvi la propria vita in modo soddisfacente. Nulla può fare l’uno all’altro se non offrire di questi simboli, illudendosi che la corrispondenza sia reale. Ma occorre una riserva at the back of one’s head di pratica scaltrezza: occorre aver deciso di servirsi di questa offerta (fatta per bisogno individuale dell’oggetto amato) per appagare le proprie necessità. Chi sarà stato scaltro nell’impostazione della corrispondenza, non soffrirà vicende, farà accadere ogni cosa secondo il suo vantaggio, creerà un mondo di cristallo in cui si godrà l’oggetto. Ma non dimenticherà mai che la sfera di cristallo è un vuoto dove l’aria non penetra, e si guarderà dal romperla nell’ingenuo tentativo di aerarla. Abbandoni, trasporti, figli, devozioni, fiduce: sono simboli individuali, dai quali l’aria — la mistica penetrazione dell’altro — è sempre esclusa. Vi è insomma tra questi simboli e la realtà lo stesso rapporto che tra le parole e le cose. Bisogna essere cosí scaltri da prestar loro un significato senza scambiarli con la sostanza vera. Che è la solitudine di ciascuno, fredda e immobile.
7 dicembre.
Se fosse vero che l’uomo possiede il libero arbitrio, se ne parlerebbe tanto? Chi sa che non si tratti di un postulato: si può, volendo, essere liberi e si può essere effetti. Ma la scelta iniziale?
Chi non ha provato la muraglia di una impossibilità fisica in cose che interessino tutta la vita (impotenza, dispepsia, dispnea, ergastolo, ecc.) non sa che cosa sia soffrire. Difatti, per questi casi si è escogitata la rinuncia: il disperato tentativo di farsi un merito con ciò che pure è inevitabile. Si può immaginare cosa piú vile?
Notevole è lo stato di chi non sente la tentazione di ciò che non fa; non lo stato di chi è tentato e rinuncia. In termini realistici, il primo è la pace, il secondo è lo strazio. Checché ne dicano gli eroici. Soffrire è una sciocchezza.
Prima di essere astuti con gli altri, occorre essere astuti con se stessi. C’è un’arte di far accadere le cose in modo che sia in coscienza virtuoso il peccato che commettiamo. Imparare da qualunque donna.
L’arte di farsi amare consiste in tergiversazioni, fastidi, sdegni, avare concessioni che epidermicamente riescono dolcissime, e legano il malcapitato a doppio filo; ma in fondo al suo cuore e al suo istinto fan nascere e covano un rabbioso rancore, che si esprime in disistima e desiderio tenace di vendetta. Far degli schiavi è cattiva politica, e si è visto, e si vedrà ancora.
La consueta tragedia: sa farsi amare soltanto chi sa farsi odiare, dalla stessa persona.
Cosí finisce la giovinezza: quando si vede che l’ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo. Noi siamo stati dei primi. Allegro.
Un uomo vero, nel nostro tempo, non può accettare con cautele l’ananche della guerra. O è pacifista assoluto o guerriero spietato. L’aria è cruda: o santi o carnefici. Siamo proprio capitati bene.
Perché è sconsigliabile di perdere la testa? Perché allora si è sinceri.
11 dicembre.
Che la castità sia un richiamo sessuale — anche solo supposto — non è vero, perché allora le donne dovrebbero essere assai ghiotte di fraticelli e pretini di primo pelo, quali si suppone prendano sul serio la regola. Invece sono ghiotte dei porci anzianotti — gli uomini navigati — stempiati e maliziosi.
E anche tu, hai mai sognato monache?
13 dicembre.
Prova a far del bene a qualcuno. Dopo un poco vedrai come odierai quella faccia compunta e raggiante.
15 dicembre.
Che la vita sia una lotta per la vita si vede bene nei rapporti sessuali di uomini e donne, dove, malgrado tutti gli sforzi castigatori dell’ideale cavalleresco, malgrado le esigenze sociali di conformismo e stabile rassegnazione, malgrado ogni cosa, è sacrosanto che si rifiuti l’altro se non dà il piacere richiesto e liberatore.
E si comprende l’innata solitudine rapace d’ognuno, osservando come il pensiero che un altro compia l’atto con una donna — anche qualunque — riesce ad incubo, a disagiata coscienza di un’indegna oscenità, a velleità di far cessare e, se fosse possibile, distruggere. Si può veramente tollerare che un altro — chiunque — faccia con un’altra — chiunque — l’act of shame? Noooo. Eppure è questa l’attività centrale della vita, senza dubbio. Ecco la falsità di ogni nostro altruismo. Per santi che siamo, sapere che un altro chiavi, ci disgusta e ci offende.
16 dicembre.
Maledetto chi «aux choses de l’amour mêlat l’honnêteté»? Lo stesso vale per le cose dell’arte. La ragione è che arte e vita sessuale nascono sullo stesso ceppo.
Come, però, grande artista è chi costruisca amoralmente un solido mondo morale; grande amante è chi porti una straordinaria intensità morale in ogni singolo suo universo erotico. L’artista è sempre sincero con se stesso, pena il fallimento dell’opera. Il grande amante, idem (cfr. 25 febbraio — primi di marzo ’34): pena non sentire il suo amore.
17 dicembre.
Primo amore: «quando saremo grandi, questi discorsi li potremo fare con le donne».
18 dicembre.
C’è una cosa piú triste che fallire i propri ideali: esserci riusciti.
22 dicembre.
Ciascuna tua novella è un complesso di figure mosse dalla stessa passione variamente atteggiata nei singoli nomi. Notte di festa, il festeggiare il Santo; Terra d’esilio, tutti confinati; Primo amore, tutti mossi dalla scoperta sessuale. Parlo delle lunghe. Le brevi ti riescono le meno realistiche.
La tua vera musa prosastica è il dialogo, perché in esso puoi far dire le assurdo-ingenuo-mitiche uscite che interpretano furbescamente la realtà. Il che non potresti fare in poesia.
23 dicembre.
Il bambino che passava la giornata e la sera tra uomini e donne, sapendo vagamente, non credendo che quella fosse la realtà, soffrendo insomma che ci fosse il sesso; non annunciava l’uomo che passa tra uomini e donne, sapendo, credendo che questa è la sola realtà, soffrendo atrocemente della sua mutilazione? Questo senso che il cuore si stacchi e sprofondi, questa vertigine che mi squarcia e annienta il petto, nemmeno alla delusione d’aprile l’avevo provata.
M’era riservato (come il topo, ragazzo!) di lasciarsi formare quella cicatrice e poi (un soffio e una carezza, un sospiro), l’hanno riaperta e straziata, e aggiunto il nuovo male.
Né delusione né gelosia m’avevano mai dato questa vertigine del sangue. Ci voleva l’impotenza, la convinzione che nessuna donna gode con me, che non godrà mai (siamo quello che siamo) ed ecco quest’angoscia. Se non altro, posso soffrire senza vergognarmi: le mie pene non sono piú d’amore. Ma questo è veramente il dolore che accoppa ogni energia: se non si è uomo, [......]7, se si deve passare tra donne senza poter pretendere, come si può farsi forza e reggere? C’è un suicidio meglio giustificato?
A un cosí tremendo pensiero, è giusto corrisponda quell’inaudito senso di schiacciamento, di vanificamento al petto, ai muscoli e al cuore, — sinora solo un attimo; ma il giorno che durerà di piú? che riempirà un’ora o una giornata?
[.....]8.
25 dicembre.
O con amore o con odio, ma sempre con violenza.
Andare al confino è niente; tornare di là è atroce.
L’uomo di massa non dovrebbe essere il piazzaiolo, ma il disciplinato. Noi non siamo né l’uno né l’altro. C’è qualcosa di piú triste che invecchiare, ed è rimanere bambini.
Se il chiavare non fosse la cosa piú importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lí.
Naturalmente tutti ti dicono «che importa? Non c’è solo questo. La vita è varia. L’uomo vale per altro» ma nessuno — nemmeno gli uomini — ti dànno un’occhiata se non hai quella potenza che irradia. E le donne ti dicono «che importa? ecc.» ma sposano un altro. E sposarsi vuol dire costruire una vita. E tu non te la costruirai mai. Questo vuol dire, esser stato bambino troppo tempo: questo.
Se ti è andata male con lei che era tutto il tuo sogno, con chi ti potrà mai andare bene?
Ricordi come i tuoi sogni di case operaie e limpide, i tuoi corsi alberati su un prato, la tua città fredda sotto le montagne, le insegne al neon rosso di fronte alla piazza delle montagne, le domeniche erranti verso questa piazza, sui selciati, e poi il tuo lacerante sogno di compagnie piemontese-intemazionali, di ragazze che vivono sole e lavorano, di plebea eleganza e serenità, e poi tutte le tue poesie del primo anno: si sono annichilati per sempre col 9 aprile? Non c’è tutta la tua giovinezza nel cinema e nella piazza Statuto? morta, morta assolutamente?
Ricordi come a Brancaleone hai pensato alla piazza Statuto?
Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto, e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto.
Dopotutto oggi è il 25. E lei è in montagna. C’è stato un 25 che non è andata. Veramente?
Che cosa importa di vivere con gli altri, quando di tutte le cose veramente importanti per ciascuno ciascun altro s’infischia?
Per piacere agli uomini bisogna professare ciò che ciascuno di questi uomini nella sua vita segreta respinge e odia.
[.....]9.
Sinceramente. Vorrei piuttosto morir io, che ricevere questa notizia di lei. Qui davvero vorrei credere in Dio per pregarlo. Che non muoia. Che non le accada nulla. Che tutto ciò sia un sogno. Che perduri un domani. Che piuttosto scompaia io.
Insegna piú una sola creatura che cento.
30 dicembre.
Perché piegarci? Quest’anno 1937 abbiamo risanato la rovina del ’36, abbiamo trasformato un collasso atroce (’35-’36) in crisi di passaggio alla maturità. Ritrovato assurdamente un amore che ha del domani; ritoccato il fondo del nostro cuore vivo; risfiorato la poesia-sfogo e vinto, e creato la Vecchia ubriaca; raggiunto un solido complesso meditativo e giudicante con questo giornale; accumulato una messe di novelle varie e solide e feconde — qualcuna definitiva — ; ritrovato il ritmo della creazione.
Tradotto quattro libri con un guadagno di 6200 lire. Date molte lezioni e trovato un ritmo d’allievi. Speranze di altrettanto per il 1938.
Non è questo il momento perché una guerra ci mandi tutto all’aria? Sarebbe un bel tratto di ironia cosmica. Varrebbe la pena.
Che non venga questa beffa e rispondo di me. E rispondo di lei. E rispondo di tutto.
[.....]10.
E in quest’anno è venuta al pettine la mia lunga e segreta vergogna. In quest’altro 1934 c’è anche il 13 agosto. Eppure vivo. Non è un miracolo?
31 dicembre.
Vi è un solo vizio, il desiderio, che si chiama, negli Ivan, ambizione; e nei Mitja, concupiscenza. La Genesi nella sua oscurità pone all’origine un’ambizione che può interpretarsi concupiscenza. Il tragico della vita è che bene e male sono la medesima materia d’azione — desiderio — solamente, colorata in modi opposti. Ma come colori veduti di notte che si distinguono o per partito preso o per istinto, mai per chiara conoscenza. Il fascino e il tremore del vizio è la trepidezza che dà di notte un colore che noi crediamo cosí e invece è diverso.
Noi maneggiamo masse di colore incerto, sovente credendo sia un rosso e invece è un blú, e trepidando sempre non appena vogliamo discernere. La tragedia del bene intenzionato è la tragedia dell’omino che dovrà avere ammassato all’alba tanto blú, e nel buio brancica e teme sempre di scegliere i rossi, e poi magari sono i gialli. La coscienza non è piú che un fiuto, un colore conosciuto al tatto.
Questo c’è di vero nell’«arte per l’arte»: ci si mette al tavolino e si gusta il puro arbitrio, un arbitrio cui la necessità di leggi interne è un sale, perché fa nascere da noi soli un ordine e una scelta immuni da ogni brutale esternità, e sorgenti e palpitanti dalla nostra stessa coscienza. Via via che quest’ordine si compone, diventa necessario, ma il nostro godimento appunto si va componendo via via e oggettivando. Finita l’opera ecco il distacco e in fondo lo scontento: quest’ordine e questa scelta si sono esternati, noi non possiamo piú dire la nostra, dobbiamo accettarli come una realtà naturale. Siamo padre, non piú amante: studiamo l’opera nostra con una cauta curiosità e ansietà un poco ostili: è il figlio che si stacca.
Per inferiore che sia l’opera al sogno, chi non la contempla stupefatto e passivo? e non vi trova cose ignote?
Tutta la serenità e l’altruismo e la virtú e il sacrificio cadono alla presenza di due — uomo e donna — che tu sai che hanno chiavato o chiaveranno. Quel loro sfacciato mistero è intollerabile. E se uno dei due è tutto il tuo sogno? Che cosa diventi allora?
Amare un’altra persona è come dire: d’or innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità piú che alla sua. C’è qualcosa di piú imprudente?
Chi non è geloso anche delle mutandine della sua bella, non è innamorato.
C’è qualcosa di piú profondo che il gesto infantile dell’amante che succhia i capezzoli dell’amata?
Due cose t’interessano: la tecnica dell’amore e la tecnica dell’arte. A tutte e due sei giunto con ingenuità e rozzezza non prive di sapore. In tutte e due hai cominciato con eresie: venere solitaria e urlo passionalmente ritmato. In tutte e due hai creato qualche capolavoro. Ma verrà il giorno che scoprirai il tuo 13 agosto anche dell’arte.
(Cfr. 20 novembre, II). — L’origine autobiografica del pensiero raccontato nelle tue poesie, va parallela con l’origine autobiografica del romanzo oggettivo, quale l’hai scoperta in Cellini e Defoe. Lo staccare la realtà in racconto in terza persona è un raffinamento di tecnica, ma comincia sempre (?!) col presentare una realtà attraverso un io (autobiografia). Anche nelle tue novelle questo va accadendo.
E ciò non riduce poesia e romanzo alla radice del dramma? Che il personaggio che si parla sia uno o molti, non è lo stesso?
Una banalmente intricata derivazione da questa constatazione è la tecnica moderna dei vari personaggi di romanzo che tutti si autobiografanno (As I lay dying — Faulkner).
Finora hai fatto parlare in prima persona il protagonista senza preoccuparti di caratterizzarlo persino nel suo modo d’espressione (l’Idolo, l’Intruso, Primo amore) — ora dovrai badare anche alla sua singolarità: crearlo come personaggio, non lasciarlo un neutro te stesso (e sarà Volgarità ovvero Suicidi)11.
Timidezza | Suicidi |
Cassiera |
rimorso passional-nobile | ovvero |
Strade Timide |
Racconto ed effetto | Volgarità |
(Epigrafe di tutto:)
Pour obtenir la moindre rose,
pour extorquer quelques épis,
des pleurs salés de son front gris
sans cesse il faut qu’il les arrose.
L’un est l’Art, et l’autre l’Amour...
La Rançon
Note
- ↑ Di Luigi Pirandello [N. d. E.].
- ↑ Presumibilmente, primi appunti per il racconto Carogne, scritto nei giorni successivi, e pubblicato postumo nel volume Notte di festa e poi nella raccolta generale dei Racconti [N. d. E.].
- ↑ Omessa una frase in stampatello a matita [N. d. E.].
- ↑ Omesse cinque righe [N. d. E.]
- ↑ Poesie contenute in Lavorare stanca, cosí come gli altri titoli citati piú avanti [N. d. E.].
- ↑ Omesse tre righe [N. d. E.].
- ↑ Omessa una riga [N. d. E.].
- ↑ Omesse quattro righe [N. d. E.].
- ↑ Omesse cinque righe [N. d. E.].
- ↑ Omesse tre righe [N. d. E.].
- ↑ Titoli di racconti pubblicati nel volume postumo Notte di festa [N. d. E.].