Il mestiere di vivere/1939
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1939
1° gennaio.
Finito un anno di molta riflessione, di liberazione dalla catena (metà in, metà out), di scarse creazioni, ma di grande tensione per liberarmi e comprendere. Si comincia ora.
Sistemato praticamente, il travaglio attivo dovrebbe essere uscito ormai dal caos. Seguirà una vita di saggia separazione: tutta l’energia andrà a creare.
Ricordare che la sicurezza del 30 dicembre ’37 era illusoria e che abbiamo smaniato ancora sei mesi. Ricordare.
7 gennaio.
Benché il giovane tenda a serbarsi sospettoso — per timidezza - egli è ingenuamente pieno di fiducia che la cordialità con gli altri aggiusterebbe ogni cosa — per questo anzi soffre: perché manca di questa cordialità. Il maturo, invece, accetta equanime (cfr. 27 dicembre ’38) quella cordialità che gli tocca, e non si sogna di fondarvi la sua serenità.
19 gennaio.
Qualunque sofferenza che non sia insieme conoscenza è inutile. Ricordarlo, visto che riesce tanto penosa. Invece di soffrire per la vastità di un crollo, soffrire per la sua inutilità. Non c’è orrore che diminuisca soffrendolo bestialmente; bisogna invece guardarlo con pacatezza e renderne utile l’inutilità per mezzo di contemplazione.
Resta sempre la realtà attuale della morte che, abolendo il soggetto, abolisce anche la contemplazione. Ma, allora, è anche piú inutile soffrirla. Contemplare fino all’ultimo momento senza batter ciglio è ancora il sistema piú pratico.
... Was’t drink up eisel? eat a crocodile?...
23 gennaio.
Può ispirare l’azione, servire da credo, soltanto quel pensiero che sia divenuto macchinale, istintivo. Pericolo di analizzarsi troppo: le vene vive del proprio temperamento vengono cosí troppo chiarite e rese macchinali dalla familiarità. Occorre invece l’arte di aprir libero gioco ai propri impulsi spirituali, lasciandoli agire meccanicamente sotto lo stimolo. C’è il macchinale del catechismo — troppo noto e posticcio — e il macchinale dell’istinto. Bisogna favorire, esplorare, riconoscere, e appoggiare l’istinto, senza attutirlo nella riflessione. Ma riflettervi bisogna, per accompagnarlo nell’azione e sostituirlo nei momenti di sordità.
29 gennaio.
La cosa piú banale, scoperta in noi diventa interessantissima. Nasce da ciò, che non è piú un’astratta cosa banale, ma un inaudito miscuglio di realtà e di nostra essenza.
2 febbraio.
Se sono veri progressi interiori soltanto quelle consapevolezze che coincidono con cose che sapevamo già (3 dicembre ’38), allora non conta in noi che l’inconscio e qui è la nostra vera indole e tempra.
Ciò che s’impara nella vita, ciò che si può insegnare, è la tecnica del passaggio alla consapevolezza — che diventa cosí la semplice forma della nostra natura.
Le religioni e le dottrine pretendono tutte che si possa insegnare non solo il passaggio alla consapevolezza, ma il suo contenuto — e siccome ciò non basterebbe, hanno tutte un argomento di grazia, d’intuizione, d’entusiasmo, che supplisca al calore sprigionato dall’incontro dell’inconscio con la realtà.
5 febbraio.
Credere alle cose vuol dire lasciar sussistere qualcosa dopo la propria morte, e avere, in vita, la soddisfazione di venire a contatto con ciò che sussisterà ancora dopo di noi.
Ma ci soddisfa pensare che le cose esistevano prima di noi e che vivendo veniamo a contatto con ciò ch’era prima? La stessa magra soddisfazione avremo dopo morti sapendo che qualcosa continua a essere1.
7 febbraio.
Quelli che si dimostrano in gioventú passionalissimi, solitamente hanno una maturità di scettici; gli scettici giovani, invecchiando incappano in qualche ingenuità sessuale. Byron è il tipo dei primi; Swann dei secondi. Non si può conoscere uno solo dei due atteggiamenti: l’uno genera fatalmente l’altro.
24 novembre ’38: i giovani non sanno che gli altri sono altri, maturo è chi distingue tra sé e gli altri. Come si spiega allora che le civiltà sul nascere credono all’oggettività del mondo, e decadendo inventano l’idealismo?
Cosí: l’oggettività del mondo è ottenuta animando il mondo, credendo alla sua mistica oggettiva unità organizzata; l’idealismo, isolando l’io tra vuote parvenze formali (gli altri dell’uomo maturo).
9 febbraio.
L’insufficienza dell’entusiasmo giovanile consiste nel rifiutarsi in sostanza a riconoscere i propri limiti. La distinzione tra sé e altri, che avviene nell’età matura, tende a convincere il sé che non c’è passaggio agli altri. E infatti, passaggio diretto non c’è. Si riconosce la dignità degli altri solo attraverso un essere superiore: Dio. Per questo, ci dice di fare il bene per amor di Dio. Tanto poco vale l’altro, considerato in se stesso.
Dato che conoscere gli altri (e l’unica vera conoscenza avviene per identificazione amorosa) è un arricchimento, chi si rifiuta di amarli (= conoscerli) s’impoverisce. Di qua nasce la pienezza giovanile, ché nell’intemperanza di quell’età si prova il brivido della conoscenza universale. Ma siccome questa pienezza non è fondata, ecco le delusioni che l’esperienza della maturità imprime ed ecco il rétrecissement dei trent’anni, a cui sfugge solo chi riconosca i propri limiti senza contrapporsi agli altri. La nuda conoscenza utilitaria (cinismo) dei trent’anni è l’unilaterale rovescio del nudo amore confusionario (ingenuità) dei venti. Sono due povertà, tanto che senza troppa fatica si scambiano, mentre ci vuole sudore di sangue per passare da una delle due alla carità vera, o come si dice «trovar Dio».
15 febbraio.
Scoperto che, quando qualcuno takes us down e ci umilia e tratta come servitori, noi aderiamo a lui, non vorremmo lasciarlo, gli prendiamo le mani e dentro di noi lo benediciamo come affascinati. È un presentimento della fraternità umana e un innaturale riconoscimento del nostro bisogno di essere abbietti?
5 marzo.
Per libertario che sia un giovane, cerca sempre di modellarsi su uno schema astratto, quale in sostanza deduce dall’esempio del mondo. E un uomo, per conservatore che sia, fa consistere il suo valore nella deviazione individuale dal modello.
Ciò nasce dal fatto che solamente a poco a poco si capisce che una linea di vita è creazione nostra in tutte le minute radici che l’esprimono dall’esperienza. Gli sconforti giovanili nascono dall’impossibilità di far coincidere la propria esperienza col modello grosso e schematico che si era tratto dal mondo. Qualunque professione, qualunque figura sociale, appare al giovane remota e irraggiungibile, fino che a poco a poco egli non ha creato la sua particolare figura e professione — inconfondibili, nella loro lenta e interiore sostanza, col mito grossolano che s’era proposto e che aveva temuto. Ma allora è un uomo (Cfr. 6 dicembre ’ 38, 29 gennaio, 7 febbraio, 9 febbraio). Si conferma che essere giovani è non possedere se stessi.
12 marzo.
Da notare che Proust, il frantumatore degli schemi dell’esperienza in miriadi di istanti sensoriali, è poi il piú arrabbiato teorico di queste sensazioni, e costruisce il suo libro non su richiami mnemonici dall’una all’altra, ma su piani concettuali e gnoseologici che le annullano a materiale d’indagine.
29 marzo.
Dal 6 dicembre ’38 consegue che è piú spiacevole morire vecchi che giovani.
3 aprile.
Ciascuno ha la filosofia delle proprie attitudini.
26 aprile.
La compagnia di una persona amata fa soffrire e vivere in stato violento. Bisogna scegliere la compagnia di chi ci sia indifferente, ma allora il nostro rapporto con lei è pieno di riserve mentali, e si desidera continuamente restar soli, e dentro di noi la si abolisce.
In tutti questi pensieri che riguardano i rapporti umani la sostanza è il contrasto di passione e indifferenza, che si svelano entrambe assurde ed esclusive. In tutti fa capolino la soluzione caritativa: vedere le persone umane attraverso un foco di riferimento è l’unico modo per avvicinarle.
Fin che Garofolo vuole rompere il suo isolamento o fortificarlo (primi nove capitoli), si ferisce solo le mani; quando pensa ad altro, e si rilassa, e coglie la primavera, e pensa al passato fantastico, e si umilia e considera uno dei molti (identificazione con Oreste carcerato e l’anarchico relegato), allora si fa sereno e leggero (due ultimi capitoli).
Memorie di due stagioni2.
29 aprile.
Osservato che nell’autunno del ’38 ho trovato uno stile e un filone di pensieri centripeti. Osservato pure che per la prima volta nella vita mi do dei consigli di contegno, cioè ho teoricamente determinata la mia volontà. E subito ho potuto scrivere un romanzo che è l’esperienza di questo atteggiamento.
Un buono spunto sarebbe di modificare il proprio passato.
3 maggio.
La parte che in noi soffre è sempre la parte inferiore. Come del resto la parte che gode. Solamente la parte serena è superiore. Soffrire, come godere, è cedere alla passione. Al 17 giugno ’38 aggiungere che lo stesso avviene godendo. L’unica differenza è che il godimento somiglia alla serenità e perciò inganna e fa perdere piú tempo, mentre soffrire costringe subito a indurirsi e tendersi.
In sostanza per trasformare il piacere in serenità bisogna che questo sia diventato noia. Alla serenità del resto si giunge sempre attraverso la noia. Anche il dolore per diventare creativo deve prima farsi noia.
Questa è la ragione per cui abbiamo bisogno del loisir fantastico per creare. In esso la noia si coagula in concezioni.
4 maggio.
Fare qualcosa che non sia scopo a se stesso (come invece soffrire o godere) ma rivolto a un’opera, dà la serenità perché interrompe la noia senza impegnarci nella catena subita di sensazioni e sentimenti, e permettendoci invece di vedere dall’alto (serenità) un organismo che accetta leggi da noi (la nostra opera).
Di tutto il lavoro umano, e quindi anche dell’arte, l’elogio piú grande è che ci consente di vivere in serenità, cioè di sfuggire al determinismo e imporre noi una legge alla materia e contemplare questa disinteressatamente nella sua azione.
Quello che i greci dicevano della filosofia, che è contemplazione disinteressata e quindi l’attività piú sublime, diciamolo di qualunque tecné che è vita disinteressata e cioè creazione di catene causali.
Se però l’obiezione al piacere consiste nell’insoddisfazione stracca che resta dopo il godimento, non si vede come si salvi la produzione di opere, che dopo l’esecuzione lasciano insoddisfatti e stracchi come un piacere qualunque.
Resta l’opera, vero, ma basta? Resta il pensiero che l’opera — realtà staccata — vive di vita sua e fa del bene tra gli uomini. Ecco allora che la felicità è inseparabile dalla dedizione di sé agli altri. Resta, quindi, che si è felici soltanto uscendo da se stessi (altra critica a piacere e dolore), che si è felici soltanto per la tangente, andando in una direzione e trovando, senza cercarlo, un piacere laterale che non si possa considerare risolto nella soddisfazione del nostro scopo immediato. In sostanza, questa è un’astuzia per assicurarci — per l’indeterminatezza stessa del fine — una piú lunga durata del nostro piacere. Quando si può dire «Non ho agito per me, ma per un principio superiore» avendo avuto cura di scegliere questo principio il piú duraturo e ampio possibile e magari eterno, si è sicuri che la nostra soddisfazione finirà molto tardi o non finirà mai.
(sera)
Notare come quando vuoi screditare un principio dici che è un’astuzia. Questo considerare accettabile solo l’ingenuità, l’entusiasmo disinteressato, è romanticismo. Ma perché rifiutare un principio astuto, se può dare piú felicità di un altro? Il male è che, se astuto, non dà piú felicità, perché non si può piú credere assoluto.
15 maggio.
Ti hanno detto che non si lamentano, che chiederebbero poco o nulla, che soffrono senza speranza, ma che non sono piagnucoloni...
La politica è l’arte del possibile. Tutta la vita è politica.
La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto — la religione — consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico. L’opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Cosí si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un’illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarsi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri. (Il sesso è un incidente: ciò che ne riceviamo è momentaneo e casuale; noi miriamo a qualcosa di piú riposto e misterioso di cui il sesso è solo un segno, un simbolo).
16 maggio.
Il matrimonio lo prendono piú sul serio gli scapoli che non i coniugati
18 maggio.
Chi non fa figli per non mantenerli, manterrà quelli degli altri.
20 maggio.
È naturale che la donna, costretta dalle circostanze a subire un intervento altrui sul proprio corpo, che l’asserve (senza contare la soggezione sociale), abbia sviluppata tutta una tecnica di fuga in se stessa, di elusione dell’uomo, di vanificamento della vittoria di lui. A parte l’altra arma dell’inganno e del gioco nei rapporti sociali.
L’uomo è schiavo, al massimo, del vizio, ma la donna — dopo il coito — è schiava delle probabili conseguenze; donde la sua tremenda praticità in queste cose.
12 giugno.
Siccome una donna presto o tardi bisogna piantarla, tanto vale piantarla subito.
Ebbero molto piú senso del passato i popoli ai primordi della storia che non i successivi. Quando un popolo non ha piú un senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori — anche noi — quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia (genius is wisdom and youth).
La creazione nasce dalla innumerevole ripetizione di un atto, che a forza di routine diventa stucchevole. Poi viene un periodo di smarrimento, di tedio. Allora l’atto dimenticato per la sua banalità, risorge come miracolo, come rivelazione, ed ecco lo slancio creatore (cfr. 3 maggio — ultimo capoverso).
Un succedaneo del lontano-nel-tempo (passato) è il lontano-nello-spazio (esotico). Qui si chiarisce come molti slanci creativi nei popoli nascano dalla fusione di due diverse civiltà. Ma questo caso è piuttosto uno stimolante che fa risaltare le ricchezze già contenute nei rispettivi due passati, e le fonde dando alla combinazione il necessario volto miracoloso.
Tanto per il passato che per l’esotico, dico ricchezza intendendo una coscienza vitale non storica o geografica.
Nella vita fantastica non vi sono che due situazioni: il riaffiorare di un passato o l’urtarsi di due modi di vita.
Le muse, figlie della memoria o il Dioniso indiano.
La noia, quindi, è come le nausee delle donne incinte.
7 luglio.
Un passato dev’essere tanto familiare da poterlo rivivere meccanicamente e tanto inaspettato da farci stupire ogni volta che vi ritorniamo: allora è adatto alla fantasia.
Un’esperienza che vi pareva trita — lasciate passare del tempo — la rivedrete con nuovi occhi e sarà inaudita.
Passare del tempo in silenzio, ringiovanisce individui e popoli.
30 luglio.
C’è o non c’è progresso nella storia?
Insolubile, perché mentre tu intendi per progresso l’ingresso nell’assolutezza dei valori morali, e tutto il resto la chiami tecnica (astuzia), altri s’accontentano appunto di quest’arricchimento tecnico delle condizioni del benessere e lo chiamano progresso.
Non si può giungere all’assoluto per gradi. Quindi non si può trovare l’assoluto in fondo a un’evoluzione storica.
Quindi il progresso (innegabile) non è verso l’assoluto, ma è quantitativo.
Lo stesso in un individuo. C’è progresso tecnico, di astuzia, d’esperienza, ma la portata del ponte è quella dei sette anni. Tal era allora, in assoluto, tale è a trentacinque.
3 agosto.
La morale sessuale è un palliativo della gelosia. Essa tende a evitare il confronto con la capacità virile di un altro. La gelosia è il timore di questo confronto.
La tolleranza delle idee nasce dalla illusione che la verità sia qualcosa di razionale, mentre appena si accetta il principio che qualunque idea si basa su una scelta iniziale, che la volontà è il primo organo della conoscenza, si diventa intransigenti. Pensare questo o quello è allora incriminabile. Radice pratica dell’errore.
27 agosto.
Al 30 luglio aggiungi che per progresso tecnico s’intende anche il perfezionarsi degli ideali morali che, in definitiva, sono un comfort. Il passaggio all’assoluto morale non può invece avvenire nel tempo (I), dev’essere un annientamento e indiamento completo, che avviene in una sfera metafisica. Qui, il progresso non arriva.
(I) Può avvenire in ogni individuo, come momento della eternità di ciascuno, ma è fuori dal tempo che è nozione collettiva. E annientamento e indiamento collettivo non può darsi, perché la collettività è concetto empirico e potrebbe sempre nascere uno in quel momento che non accettasse d’indiarsi e annientarsi.
9 settembre.
La guerra imbarbarisce perché, per combatterla, occorre indurirsi verso ogni rimpianto e attaccamento a valori delicati, occorre vivere come se questi valori non esistessero; e, una volta finita, si è persa ogni elasticità di tornare a questi valori.
17 settembre.
Si fa l’elemosina, per levarsi d’innanzi il miserabile che la chiede; e se qualcuno ci procura un disagio con la mostra della sua grande miseria, e fa appello a qualche nostro evidente e innegabile sentimento di solidarietà, noi odiamo questo qualcuno, con tutte le forze.
1° ottobre.
Gli errori che saltano agli occhi in un’opera, o anche che semplicemente si vedono, sono, appunto perché tali, facilmente rimediabili, e non contano. Conta l’errore fondamentale, la visuale sbagliata, che informa di sé specialmente le parti corrette3, e di qui va individuato e stanato; il che torna come dire che esso è irrimediabile, a meno di distruggere l’opera. I nèi visibili tutt’al piú servono da indicatori di quel che c’è sotto.
9 ottobre.
«Il y a une émotion qui est inséparable de la rencontre de tout homme que nous trouvons sur notre chemin». lavelle, L’erreur de Narcisse, p. 31.
«J’ai tort sans doute si je me plains du traitement que les autres me font subir. Car il est toujours un effet et une image du traitement que je leur inflige. Mais si je m’attriste de n’être pas assez aimé, c’est que je n’éprouve pas moi-même assez d’amour». lavelle, ibid., p. 34.
«Les relations que les autres hommes ont avec nous sont toujours une image des relations que nous avons avec nous-mémes». lavelle, ibid., p. 165.
«... la seule chose qui compte, c’est d’être et non point d’agir». lavelle, ibid., p. 171.
14 ottobre.
Il voler commettere una malvagità a ogni costo, violentando la propria natura, è tipico dell’adolescenza e del bisogno di provare a se stessi che si è universali, al di là di ogni norma.
Che cosa è piú bello che, commessa la malvagità, ritrovarsi en héros sulla strada di campagna, nel mattino, quando passano carri?
Lo stile di Berto4 non va attribuito a un Berto, ma assimilato a una terza persona. Da naturalistico deve diventare modo di pensare rivelatore. È questo che non si poteva fare nelle poesie, e che dovrebbe riuscire in una prosa.
Si pensano pensieri quando, scossi da un urto della vita, si diventa, davanti a se stessi, personaggi proprio come avviene quando, creando un racconto, con le scene nascono pensieri e problemi. I pensieri che valgono, nascono perciò quando ci si atteggia in posa, cioè si falsifica se stessi, cioè ci si guarda vivere secondo un atteggiamento scelto.
L’arte invocata il 9 ottobre ’38 di guardare «noi stessi come fossimo personaggi di una nostra novella» è intesa quindi anche a metterci in grado di pensare pensieri e goderli.
15 ottobre.
La differenza tra Sansfin e Homais è che Sansfin non è né approvato né disapprovato, ma radicato nella sostanza di tutti gli eroi stendhaliani: una volontà pedante accanita e maliziosa, che opera; mentre Homais è un ritratto-macchietta staccato dall’autore e appunto per questo giudicato.
18 ottobre.
Giudicare dei personaggi vuol dire farne delle macchiette.
I tempi della filantropia sono i tempi in cui si mettono dentro i mendicanti.
29 ottobre.
Non è vero che al nostro tempo non si scrivano romanzi perché non si creda piú alla consistenza del mondo; non è vero, perché il romanzo ’800-esco nacque durante il crollo di un mondo, ed anzi rappresentava un surrogato di quella consistenza che il mondo perdeva. Adesso il romanzo cerca una nuova legge in un mondo che si va rinnovando, e di muoversi nel nuovo mondo secondo la vecchia dimensione non si contenta.
Come un’idea diventa feconda quand’è una combinazione di due trovate che fanno insieme saporito, cosí va fatto un personaggio.
1° novembre.
Usa risparmiare una persona quando si scopre che malgrado ogni cinismo, ogni hitlerismo, ogni schifosità, questa persona è capace di un senso umano di pietà, di una dolcezza. Ma in particolare risparmiare se stessi in questo caso, compiacersi a fondo di un proprio buon pensiero. Benché ciò sia raro («è piú facile una buona azione che un buon pensiero» 3 novembre ’38), attenzione che comunemente si chiama «buon pensiero» uno scatto sentimentale di cui sono capaci tutti. Come dimostrano le trame dei film, anche tedeschi.
— | solitudine con visite magiche del giovane |
— | due giorni di festa. Come si passano, rètreci |
— | scoperta di sifilide nel giovane |
— | grande momento di azione politica concentrato nei due giorni, con disperazione magica del giovane |
— | giovane che ad ogni costo vuole fare la malvagità per |
solitudine magica |
giorni di festa (Pausa) |
sifilide |
sostituire politica |
Togliendo la politica (che viene da Nizan)
restano le visite magiche nella stanza in alto
nei due giorni di festa (incanto magico)
col tormento della scoperta sifilide |
che fa commettere malvagità. |
5 novembre.
Perché ci è ostico uno scrittore nuovo? Perché non sappiamo ancora evocare intorno a lui tutto il quadro contemplativo di una società in cui abbandonarci fiduciosi.
10 novembre.
Sdegnare di commettere una malvagità scomposta è un modo di prender coscienza che non si è piú giovani (cfr. 14 ottobre). È il tema adatto a raccontare che la gioventú è finita. Fine sarebbe non parlare mai di gioventú nella storia, ma lasciarlo indovinare appunto dal rifiuto di scatenarsi. Se mai, titolo: Giovinezza finita. E, al fondo, il pensiero: Ecco, non farò piú queste cose; farò degli sbagli riflessivi, ora, sbagli di limitazione, non di universalità.
Anche perché la malvagità scomposta richiede una scioperataggine e una disposizione a soffrire che non ci sono piú a trentanni.
18 novembre.
Non ti piace Mérimée proprio per quelle doti che ne fanno un «artista squisito». Senti che è un uomo che ignora ogni serietà d’ambiente, che ripugna a impegnarsi, che tagliuzza quadri multicolori in una posticcia società d’accatto. Muta gli ambienti come i vestiti. Non sa vivere un dramma dell’uomo nel suo ambiente; anche dove è tragico, è tragico per sentito dire, per supposizione, ma gli mancano le radici nello sfondo (Carmen). Tutto l’opposto di Stendhal che vive la bella società con l’impegno di un fanatico e di un santo demonio.
Cfr. col 28 luglio ’38 — dove si scopre la legge di ogni trama meritoria: «vedere come quel tale se la cava in quel dato ambiente».
Ora, Mérimée che non crede a nessun ambiente, non può prendere sul serio e sodificare nessuna sua trama.
19 domenica-novembre.
Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il motivo del nesso tra l’uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria: il tempo in cui s’intravede una promiscuità dell’uomo con la natura-belva. Di qui la tua ricerca dell’origine dell’immagine in quei tempi: la promiscuità di un primo termine (solitamente umano) con un secondo (solitamente naturale) che sarebbe qualcosa di piú di un semplice fantastico: una testimonianza di un nesso vivo. Tutto era già afferrato (15 settembre ’36, II) quando hai commentato Lévy-Bruhl notando come l’immagine, giusta la mentalità primitiva, non era gioco espressivo ma positiva descrizione. (Vedi anche: «A proposito di Lavorare stanca» novembre ’34 — la prima intuizione dell’immagine motivo del racconto, escogitata per salvarti dal naturalismo). L’immagine-racconto voleva essere la storia di questo nesso, cioè l’istituzione di un simbolo (Cfr. 6 novembre ’38, II). Inoltre, l’immagine-racconto si è chiarita (24 ottobre ’38, I) bisogno di credere avvenuto ciò che raccontiamo, di considerare cioè l’immagine come un vero, esistente anche al di qua della pagina scritta.
Qualcosa di psicologicamente affine l’hai pensato ancora (29 ottobre ’39, II) quando hai detto che un’idea diventa feconda quand’è combinazione di due trovate.
26 novembre.
Dante sul Purgatorio non si volta mai a contemplare il panorama, per la ragione che non descrive realisticamente un viaggio, ma espone un simbolo dove si ricorre alla scena, al visibile, solo in quanto si veste di corpo un concetto. Non ha quindi obblighi di rispettare la logica naturalistica del reale.
Il motivo del dissidio tra l’arte e la vita — l’artista che si sente inutile e staccato dalla realtà — fu alla fine del secolo una tappa dell’autobiografismo romantico, che dopo le ebbrezze ottocentesche di genio e follia si scoperse insufficiente.
28 novembre.
Potrebbe darsi che i bambini siano piú abitudinari degli adulti e noi non lo si afferri bene per la ragione che essi vivono in guerra con gli adulti e sono costretti a celebrare le loro abitudini in segreto. Infatti, lo sforzo degli adulti è di rompere tutte le abitudini dei bambini, sospettando in esse un nodo di resistenza e di anarchismo. Ma nel campo dove i bambini godono di una relativa autonomia (i giochi) è evidente la loro abitudinarietà — il loro gusto del rito e della formula, la loro superstizione dei luoghi, ecc. — che acquista anche l’inconsapevole valore di una rivendicazione d’indipendenza dagli adulti.
Siccome fare-le-cose-anche-noi-piccini-come-i-grandi è difficile, per la difficoltà in sé e per i sospetti dei grandi, il bambino tende a crearsi regole nelle cose sue, a ricadere nella stessa rotaia, a incoraggiarsi col già fatto. Ricorda la tua cinquenne abitudine di piangere appena a tavola, cosí senza motivo. Era un contegno comodo perché già sperimentato ed era un tuo contegno.
4 dicembre.
Scritto a Pinelli: «...riprendendo certe mie idee, l’opera è un simbolo dove tanto i personaggi che l’ambiente sono mezzo alla narrazione di una paraboletta, che è la radice ultima dell’ispirazione e dell’interesse: il “cammino dell’anima” della mia Divina Commedia».
«La lingua... è tutt’altra cosa da un impressionismo naturalistico. Non ho scritto rifacendo il verso a Berto — l’unico che parli — ma traducendo i suoi ruminamenti, i suoi stupori, i suoi scherni ecc., come li direbbe lui se parlasse italiano. Ho solo sgrammaticato quando sgrammaticare indicava una sprezzatura, un’involuzione, una monotonia nell’animo suo. Non ho voluto far vedere come parla Berto sforzandosi di parlare italiano (che sarebbe impressionismo dialettale) ma come parlerebbe se le sue parole gli diventassero — per Pentecoste — italiane. Come pensa, insomma».
10 dicembre.
Il simbolo di cui si parla il 6 novembre ’38 (II) e il 4 dicembre ’38 (i Fioretti), è un legame fantastico che tende una trama sotto al discorso. Si tratta di caposaldi ricorrenti («epiteti» come nell’esempio classico del 6 novembre) che additano in uno degli elementi materiali del racconto un persistente significato immaginoso (un racconto dentro il racconto) — una realtà segreta, che affiora. Esempio, la «mammella» dei Paesi tuoi — vero epiteto, che esprime la realtà sessuale di quella campagna.
Non piú simbolo allegorico, ma simbolo immaginoso — un mezzo di piú per esprimere la «fantasia» (il racconto). Di qui, il carattere dinamico di questi simboli; epiteti che ricompaiono nel racconto e ne sono persone e s’aggiungono alla piena materialità del discorso; non sostituzioni che spogliano la realtà di ogni sangue e respiro, come il simbolo statico (la Prudenza, donna con tre occhi).
Parallelo di questo mezzo, non è tanto l’allegoria quanto l’immagine dantesca. Qui si riassumono molte analisi e molte letture. Il XXIII del Paradiso può suggerirti. Tutti quei fenomeni di luce dicono la realtà luminosa del luogo e anche la sua realtà segreta di «foce di tutte le cose create» (fulmine, sole, uccelli, luna, canto, fiori, pietre preziose).
12 dicembre.
Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere come è fatta e per servirsene, se mai, a freddo. Tuttavia, un’opera d’arte riesce soltanto quando per l’artista essa ha qualcosa di misterioso. Naturale: la storia di un artista è il successivo superamento della tecnica usata nell’opera precedente, con una creazione che suppone una legge estetica piú complessa. L’autocritica è un mezzo di superare se stessi. L’artista che non analizza e non distrugge continuamente la sua tecnica è un poveretto. (Cfr. 8 novembre ’38).
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Cosí è in tutte le attività. È la dialettica della vita storica. Ma tanto nell’arte che nella vita, da quando esiste il romanticismo esiste in questa dialettica un pericolo sempre vivo: quello di proporsi deliberatamente il campo del mistero per garantirsi la creazione vogliosa. Nell’arte, l’ermetismo; nella politica, il razzo-sanguismo. Mentre il mistero che stimola la creazione deve nascere da sé, da un ostacolo incontrato indeliberatamente lungo il proprio sforzo di chiarificazione. Nulla di piú osceno dell’artista o del politico che gioca a freddo col suo irrazionale misterioso.
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Smontare il mistero per servirsene a freddo nell’opera (senza l’angoscia creativa) è lo sforzo di tutta la storia dello spirito. Qui è la dignità dell’uomo ma anche la sua tentazione.
14 dicembre.
Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo.
Tutta l’arte è un problema di equilibrio fra due opposti.
21 dicembre.
L’amore è la piú a buon prezzo delle religioni.
25 dicembre.
Un artista vero, nelle sue opere creative parla dell’arte il meno possibile. (Altrimenti non è un artista, è un virtuoso dell’arte).
Chi ha solo come contenuto il travaglio dell’arte non è ancora uscito dalla preparazione dei ferri; non è ancora licenziato a parlare nel mondo da uomo fatto.
27 dicembre (mattina).
Un’acropoli rossastra. Altro poggio con ammucchiati edifici e palazzi (la città delle assicurazioni dell’agenda) e grandi quadri parietali, che si vedono dall’acropoli. Due. Uno allegorico, folla di donne e simboli e donna svolazzante (Venezia di Veronese) portata su cocchi circondata da donne. In primo piano, donna calma e grande che vuota perle in un recipiente. (Ma non si vede che maneggia perle. Si sa). Non si vede che maneggia perle, ma lo si sa. Proprio come in un romanzo, dove senza descriverlo (farlo vedere) l’autore dice «maneggia perle».
Scoperto improvvisamente — dopo che l’avevo già immaginata — che questa donna è l’Italia, perché le donzelle svolazzanti e i cocchi sono simbolo del mare che la circonda. Ecco una prova che sognando quella figura le davo implicitamente il significato che ignoravo quando pure l’avevo già immaginata. Chi l’aveva fatta con questo significato?
(Certo il sogno è effetto della visita a Venezia — febbraio ’39).
Mi pare anche di avere sognato in altri tempi vette di colli singolari viste dal basso o da mezzacosta, campestri e coperte di gelsi. Chi sa quando e come.
Due ipotesi. O è la prima volta che sogno questa piemontese città di quadri (del Carpaccio, so sognando), e ho l’impressione di averla già passeggiata e veduta in passato (in altri sogni) soltanto in omaggio alla temporalità del sogno, per cui ogni istante sognato nasce col suo paesaggio temporale retrospettivo. O è veramente un sogno che avevo già fatto altre notti, come altri simili di città in cima ai colli (non Venezia forse, allora, ma Siena e Genova) ridotte a proporzioni monferrine, e allora il mondo dei nostri sogni è una miniera dove il pozzo verticale ci porta in ascensore a differenti profondità e qui ci sono sogni fissi che noi rivediamo ogni volta. Anche qui, non è detto che il tempo sia quello nostro normale, anzi la costruzione (sedimenti, strati geologici) dei sogni sarebbe ancor piú prestigiosa: non uno solo che crea l’illusione di un passato implicito a sé, ma tutta una rete temporale sottesa a tutte le notti (i sonni) prese insieme. Sarebbe veramente un mondo esistente in cui entriamo ogni volta che dormiamo (e i sogni ci attendono alle differenti profondità, non li creiamo).
31 dicembre.
Gli stilnovisti creando la situazione degli amici e delle donne — «l’ambiente corale» — cui il poeta rivolge il discorso, hanno inventata la giustificazione della loro poesia che è celebrazione di questa comunanza e consiste dell’espressione cordiale dei propri «pensieri» rivolta alla cerchia.
Tutte le poesie nazionali cominciano con cerchie del genere. Ci si taglia nel corpo sociale una società ristretta e condizionata, che è fatta di ascoltatori e collaboratori.
Note
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Sul manoscritto leggiamo: esistere [N. d. E.]. essere - ↑ Memorie di due stagioni era il titolo iniziale del racconto che doveva chiamarsi piú tardi Il carcere (Prima che il gallo canti, Einaudi, Torino 1948) [N. d. E.].
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Sul manoscritto leggiamo: neutre [N. d. E.]. corrette - ↑ Il personaggio che parla in prima persona, in Paesi tuoi [N. d. E.].
- ↑ Qui e dopo, i puntini senza parentesi quadre sono nel manoscritto [N. d. E.].