Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Giardino delizioso.

Madama Marianna e Carolina.

Marianna. Vieni qui, Carolina, so che tu mi vuoi bene;

Vo’ svelarti un arcano, ma ciò tacer conviene.
Carolina. Madama, fate torto alla mia fedeltà.
Segreta mi averete per debito e onestà.
Marianna. Quel forestier....
Carolina.   V’ho inteso; scusate l’increanza,
Se interrompo il discorso; saper credo abbastanza.
Sono allevata altrove, un po’ di mondo ho visto;
Di onestà, di malizia credo d’avere un misto.
Possiam fra noi fanciulle parlar liberamente;
Conosco che non siete per esso indifferente.

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Marianna. E di lui, che ti pare?

Carolina.   Se fosse qualche mese,
Che avesse monsieur Guden soggiorno nel paese,
Giudicherei che fosse di voi appassionato.
Certo che, chi l’osserva, dirà ch’è innamorato.
Marianna. Com’io presi passione, (per confidarlo a te)
Non avrebbe potuto prenderla anch’ei per me?
Carolina. Certo, voi dite bene: vogliono che si dia
Quest’amore d’incontro, ovver di simpatia.
Marianna. Vedendolo sì afflitto, appresi a compatirlo.
Carolina. E ha del merito in fatti; il ver bisogna dirlo.
Marianna. Ma che pro s’io l’amassi? peggio per me saria.
Guarito, o non guarito, un giorno anderà via;
E se per compassione mi fossi innamorata,
Da chi sperar potrei d’esser compassionata?
Carolina. Io di voi avrò sempre tutta la compassione.
Marianna. Eh, vi vorrebbe altro, che tal consolazione!
No, no, meglio è troncare, pria che s’avanzi più:
A tal risoluzione consigliami anche tu.
Carolina. Sì, fate ben, signora; alfine è forastiere.
Lo zio di maritarvi non mostra aver piacere;
Scacciate sulle prime questa passion dal seno.
Marianna. Ah Carolina mia, solo in pensarvi io peno.
Carolina. Fate forza a voi stessa; il mal non è avanzato.
Marianna. Par ch’egli mi ami, e dicami che ho un cuor barbaro, ingrato.
Carolina. Sfuggite di vederlo.
Marianna.   Piacemi il di lui ciglio.
Carolina. Dunque perchè badate a chiedermi consiglio?
Marianna. Vorrei una ragione, che mi obbligasse a farlo.
Carolina. Sia la ragione il zio; sfuggite d’irritarlo.
Marianna. Non è mio padre alfine.
Carolina.   Ma seco lui vivete.
Marianna. Non è ragion che basti.
Carolina.   Fate quel che volete.

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Marianna. Non t’irritar; ti prego di non abbandonarmi.

Carolina. Vedo, conosco, intendo, ch’è vano il faticarmi.
Vi piace; compatisco l’inclinazion, l’età.
Non so che dire; amatelo. Sarà quel che sarà.
Marianna. Sarà quel che sarà? che può accader di male?
Povera me! l’onore ad ogni amor prevale;
Se l’amar è delitto ancor con innocenza,
Giuro mai più vederlo. Non s’ha d’amar? pazienza.
Carolina. Cara la mia padrona, con tali sentimenti
Non dubitate mai, che il ciel non vi contenti.
Se il cielo per isposo a voi l’ha destinato,
L’avrete in qualche modo da noi non figurato.
Marianna. Cara, tu mi consoli.
Carolina.   Dal fondo del giardino
Han preso a questa volta le giovani il cammino.
Marianna. Zitto, per carità.
Carolina.   Signora mia, non parlo.
Marianna. Questo pensier malnato non dovea coltivarlo.

SCENA II.

Madama Elisabetta, madama Federica, madama Giuseppina dal fondo della scena, e le suddette.

Elisabetta. Avete un bel giardino. (a madama Marianna)

Marianna.   Sempre ai vostri comandi.
Federica. Bisogna che una grazia, madama, io vi domandi.
Veduto ho degli anemoli, che credo americani;
Ne gradirei la pianta.
Marianna.   Sì, l’avrete domani.
Giuseppina. Madama, che erba è quella, che se toccar si arriva,
Sembra che si ritiri?
Marianna.   È l’erba sensitiva.
AI tratto delle mani resiste per natura.
Giuseppina. Voglio toccarla, e fugge. Davvero ebbi paura.

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Elisabetta. Certo, l’agricoltura è uno studio bellissimo.

In casa mia, il sapete, ho un giardin picciolissimo;
Pur vi è un poco di tutto: lasciato il mio lavoro,
Prendo nell’ore fresche dolcissimo ristoro.
Carolina. Ed al paese mio... No, non vo’ dir niente...
Vanno sulla finestra a saettar la gente.
Dir mal della sua patria non istà ben, l’accordo;
Ma spiaccionmi quegli usi, quando me li ricordo.
Giuseppina. Madama, in quel recinto chiuso da’ ferri intorno,
Di piante sconosciute e di alberetti adorno,
Scusatemi di grazia, che c’è? (a madama Marianna)
Marianna.   Vel dirò io:
Quello è il giardin dei semplici, lo studio di mio zio.
Dentro vi son dell’erbe, che hanno di gran virtù;
Ma ancor di velenose.
Giuseppina.   Oh, non ci guardo più.
Marianna. (L’amico ove sarà?) (piano a Carolina)
Carolina.   (Chi lo sa, poverino!)
Marianna. (Digli che si diverta, che venga nel giardino).
Carolina. (Glielo dirò, signora; ma poi cosa sarà?)
Marianna. (Ma via, non tormentarmi).
Carolina.   (Zitto, zitto, verrà). (parte)
Elisabetta. Madama, che si fa? Oggi non si lavora?
(a madama Marianna)
Marianna. Possiamo divertirci.
Elisabetta.   È troppo presto ancora.
Star tutto il giorno in ozio sapete ch’io non amo.
Darò, se il permettete, due punti al mio ricamo.
Andiam, che il lavorare mi riuscirà più grato:
Andiam tutte a sedere d’intorno al pergolato.
Federica. Anch’io un paio di giri farò ne’ miei calzetti.
Giuseppina. Vi terrò compagnia; farò quattro gruppetti.
Marianna. Servitevi, madame: casa mia è casa vostra;
Questa è la prima legge dell’amicizia nostra.
Elisabetta. Mi ricorderò sempre quel detto di mia madre:

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Figliuole, lavorate, che le ore sono ladre.

Rubano il tempo a noi per darlo a chi succede;
E il tempo che han rubato, mai più non si rivede.
Volete risarcirvi del furto che vi fanno?
Servitevi di loro, e lor vi pagheranno. (parte)
Federica. A proposito anch’io vo’ raccontar la mia;
Come la so, la dico, bella o brutta che sia.
Un uomo grossolano, di quei del mondo antico,
Ch’era per sua natura del lavorar nemico,
Diceva da se stesso: i tempi sono tre;
Uno di questi tempi ha da bastar per me.
Il passato nol trovo, il presente nol curo,
A lavorar vi è tempo, aspetterò il futuro.
E tanto lo ha aspettato, che alfin per benemerito
Morì senza il futuro, e gli restò il preterito. (parte)
Marianna. Spiritosa davvero. E voi non dite nulla?
Giuseppina. La balia mi diceva, quand’era più fanciulla:
Han quelle che lavorano una camiscia sola;
Quelle che non lavorano, ne han due, la mia figliuola.
Parea che mi dicesse: dunque non lavorate;
Ma poi come il proverbio spiegavami, ascoltate.
Vi eran, dicea, due donne: una continuamente
A lavorar vedevasi, l’altra quasi niente.
Quella che due ne aveva, diceva, ho da mutarmi;
Non voglio lavorare, non voglio affaticarmi.
L’altra non avea tempo di farsene di più,
Lavorando per altri. E all’ultimo, che fu?
Quella che ha lavorato, provvista si ravvisa,
E l’altra poverina restò come Marfisa. (parte)

SCENA III.

Madama Marianna sola.

Novellette graziose, da rallegrare in vero

Chi altro non avesse per ora nel pensiero;
Oh che novella vaga potrei narrare anch’io,

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Se lecito mi fosse parlar del caso mio!

Arriva un forastiere, racconta i mali sui,
Ed io per compassione vo a star peggio di lui.
Parmi ancora impossibile; e pur ella è così.
Mio zio? non è mai solito in quest’ora esser qui.
(osservando alla scena)

SCENA IV.

Monsieur Bainer e detta.

Bainer. Nipote, ho ben piacere di ritrovarvi sola.

Marianna. Avete a comandarmi?
Bainer.   Vo’ dirvi una parola.
Marianna. Eccomi ad ascoltarvi.
Bainer.   Udito esser non voglio.
(osserva d’intorno)
Prima che altro vi dica, leggete questo foglio.
Marianna. Donde viene, signore?
Bainer.   Non lo so ben; mel diede
Un forestier poc’anzi. Nome in lui non si vede.
Monsieur Guden sospetto autor di queste note;
Il ver dal vostro labbro voglio saper, nipote;
Che non sarebbe un uom sì sciocco e sì balordo,
Di scrivere in tal guisa senza essere d’accordo.
Marianna. (Mi trema il cor). Leggiamo. Mi par che sia firmato:
"Il vostro più fedele, più docile ammalato.
(legge in fondo alla lettera)
Bainer. D’aversi rassegnato un merito si fa.
Or veggo a cosa tende la sua docilità.
Marianna. "Amico, stupirete nel leggere il mio foglio,
"In cui tutto l’arcano manifestarvi io voglio.
"La malattia ch’io soffro, non vien da rio vapore,
"Ma quella che mi opprime, è passion d’amore.
"Non vi ho manifestato finor le fiamme ignote:
"La cagion del mio male è sol vostra nipote.

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Bainer. E note alla nipote saran sue fiamme ardite.

Marianna. Qui non si sa chi parli.
Bainer.   A leggere seguite.
Marianna. "E il fato che non opera sue stravaganze invano,
"Sol per lei mi ha condotto in Leiden da lontano.
Bainer. Vi pare or di capirlo? Lo stil vi è sconosciuto
Di uno che di Polonia è in Olanda venuto?
Marianna. (Guden sì poco saggio?) (da se)
Bainer.   Seguitate, madama.
Marianna. "Conseguirla in isposa è l’unica mia brama.
"Da voi per questa via spero esser risanato.
"Il vostro più fedele, più docile ammalato.
Bainer. Temerario! il suo male confessa essere amore,
E vuol ch’io gli risani la malattia del cuore?
Tutte le circostanze di questo foglio ardito
(riprende il foglio)
Mostrano che da Guden stato sia concepito;
Ma potria darsi ancora ch’io m’ingannassi, e spero
Dalla nipote onesta di rilevar s’è vero.
Parlatemi sincera, col più onorato impegno:
D’amarvi monsieur Guden v’ha mai dato alcun segno?
Marianna. Signor, mi conoscete. Capace di morire
Sarei tacendo ancora, ma non mai di mentire.
Guden cogli occhi suoi, con qualche oscuro detto,
Conoscere mi fece, che ha per me dell’affetto;
Però sì contenuto, sì saggio ei fu finora,
Che autor di questo foglio non so tenerlo ancora.
Bainer. Dubbio rimasi anch’io, leggendo il foglio ardito,
Ma quel che confessate, m’accerta e mi ha chiarito.
Di questa carta audace dove cercar l’autore,
Se in lui le prove avete del contumace amore?
Eccolo il forestiere, ch’è di lontan venuto
Col pretesto di chiedere dal mio sapere aiuto:
Ecco l’ipocondriaco, afflitto, delirante,
Scoperto da se stesso della nipote amante.

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Ma no, in sì breve tempo amante esser non puote;

Quel che di voi l’accende, è l’amor della dote;
E conoscendo il vile l’avidità del core,
Spiegasi con un foglio, celando il suo rossore.
Perfida gente indegna! animi scellerati,
Che tendono le insidie agli uomini onorati!
Dell’oro e dell’argento avidità rapace,
Che insegna al cuor degli empi ad essere mendace!
Dei rapitori indegni alla proterva cura,
Non è salva innocenza, non è virtù sicura;
Per ottener quel frutto, che gli avidi diletta,
Calpestasi la fede, l’onor non si rispetta.
L’onestà, l’amicizia, le sacre leggi anch’esse
Sagrificate all’idolo fatal dell’interesse.
Perfida gente ingrata, dove da voi m’ascondo?
Tutte le vie son piene, tutto n’è pieno il mondo.
Marianna. Signore, il vostro sdegno non è fuor di ragione;
E peno in me medesima trovando la cagione.
Se vi obbedii finora...
Bainer.   Madama, il vostro cuore
Come toccar s’intese ai segni dell’amore?
Marianna. Ho l’onestà per guida.
Bainer.   Lo so; ma internamente
Li sprezzò? Li ha graditi? Ditelo prontamente.
Marianna. Pria morir, che mentire. Signor, confesso il vero:
L’amo, ma lui nol seppe, e non saprallo, io spero;
Nè voi giunto sareste a penetrar giammai,
Senza quel foglio indegno, quel che tacer giurai.
Bainer. Figlia, si spera invano celar sott’altro velo
Le passioni malnate; che le discopre il cielo.
Ingannar ci possiamo fra noi nati agli errori;
Occhio lassù ci vede, ch’è scrutator de’ cuori;
E chi arrossisce al mondo svelar gli affetti rei,
Paventi, ed arrossisca degli occhi degli dei.
Queste massime vere stampatevi nel core;

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Deve appagar noi stessi il zelo dell’onore.

Sappia, non sappia il mondo quel che si cela in petto,
Sempre virtù si perde per un indegno affetto.
Marianna. Ah signor, se vedeste qual pentimento ho in seno!...
Bainer. Ecco l’indegno. Andate.
Marianna.   Vo’ superarmi, e peno, (parte)

SCENA V.

Monsieur Bainer, poi monsieur Guden.

Bainer. So che Marianna è saggia; l’umanità perdono;

Ma il mio dover mi rende sì rigido qual sono.
Massima nostra, e vera, ch’io trascinar non oso:
Fa la piaga insanabile il medico pietoso.
Guden. (Al mio venir Madama parte con ciglio mesto.
Il cuor mi presagisce qualche destin funesto). (da sè)
Bainer. Favorite, avanzatevi.
Guden.   Certo, signore, io vedo
Che di Leiden il clima mi giova assai.
Bainer.   Vi credo.
Ma di quest’aria nostra l’inclinazion migliore
È di produrre al mondo degli uomini d’onore.
Guden. Signor, gli uomini onesti sotto ogni ciel fioriscono.
Bainer. Ma l’onor della patria gli uomini rei mentiscono.
Guden. Perchè a me tal discorso?
Bainer.   Perchè il mio dir vi mostri
A render più giustizia ai cittadini vostri.
Guden. Posso pel mondo errante portar sventure e guai,
Ma l’onor della patria non tradirò giammai;
E voi che mi offendete, signor, senza ragione,
Pensate all’onor mio di dar soddisfazione.
Bainer. Senza ragion vi offendo? Permette l’onestà,
Che uno stranier si abusi della ospitalità?
Guden. S’ha da punir per tutto sì temerario eccesso.
Bainer. La verità vi porta a condannar voi stesso.

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Guden. Io, signor?

Bainer. Sì, non giovan d’amor vani pretesti,
Non soglion con inganno oprar gli uomini onesti.
Se in Leiden vi condusse l’amore, o l’interesse,
A cercar mia nipote nelle mie soglie istesse,
Potea l’uomo onorato chiederla a un uom d’onore;
Non malattie fingendo, nascondere l’amore...
Guden. Signor... (volendo parlare)
Bainer.   Per guadagnare il cuor della fanciulla.
Ma ciò, dov’io comando, non contisi per nulla.
Guden. Signor... (come sopra)
Bainer.   Se me ne offendo, solo di voi lagnatevi;
(come sopra, ma più forte)
Bainer.   Giustificatevi.
Guden. Prendete questi fogli. (dà alcune carte)
Bainer.   Che ne ho da far?
Guden.   Prendete.
(fa che prenda le carte)
Se desio d’arricchirmi qui mi guidò, vedrete.
Solo di mia famiglia, noto alla mia nazione,
Lettere porto meco pel valor d’un milione.
Sia infermità di spirito, sia mal fisico, o vero,
Venni a trovar del mondo il medico primiero.
Per compassion, per uso, docile m’accoglieste;
Gradii del vostro cuore l’esibizioni oneste.
Cercai sol divertirmi, seguendo il buon consiglio;
Ma oimè, nel mio rimedio ritrovo il mio periglio.
Di madama Marianna trovai nel vago aspetto
L’effigie di colei che un dì m’accese il petto.
Sì, lo confesso, amico, sia debolezza usata,
Sia cognizion del merito, vostra nipote ho amata.
Sperai di possederla non mi credendo indegno,
Formai dentro a me stesso di chiederla il disegno;

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Ma inteso che lo zio resiste a collocarla,

Tacqui la fiamma in petto, risolsi abbandonarla.
A lei non dissi un motto, nol dissi ad uom del mondo;
Or, che ciò si traspiri, mi duole e mi confondo.
Gli occhi se han, mio malgrado, le fiamme mie svelate,
Se favellai tacendo, deh, signor, perdonate.
Bainer. Gli occhi potran dir poco, se quasi con orgoglio,
Voi non vi foste indotto spiegarvi in questo foglio.
Guden. Io? Qual foglio, signore?
Bainer.   Come! di vostra mano
Forse non è vergato? (dandogli la lettera)
Guden.   Render mi ponno insano
(dopo aver osservato la lettera)
I mali ch’io sopporto, fino ad un certo segno,
Non mai a farmi scrivere simile foglio indegno.
Giuro sull’onor mio, la carta io non distesi:
È noto il mio carattere ai mercanti Olandesi.
Una impostura è questa, che voi mal conoscete;
E di me sospettando, signor, voi mi offendete.
Bainer. (Son confuso). Chi dunque l’indegna carta estese?
Favorite, signore. (riprende la lettera)
  (Che mai fosse il Marchese?
Ho lettere di lui, che si pon confrontare.
Ah, se ciò è ver, costui è pazzo da legare). (da sè)
Guden. Siete ancor persuaso?
Bainer.   Sì, vi credo, signore,
Ma fu da un accidente scoperto il vostro amore.
Guden. Non so che dire, il fato vuol che infelice io sia;
Se disvelato ho il cuore, non è per colpa mia.
Bastami che sappiate, che io mentir non soglio,
Che son uomo onorato, da voi altro non voglio.
Bainer. Se da un falso sospetto, signor, tradito io sono,
So che vi offesi a torto, e chiedovi perdono.
Guden. Basta così.
Bainer.   No, amico, se a voi basta sì poco,

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A me bastar non deve. Siam soli in questo loco.

Le luci di Marianna vi sembrano leggiadre?
Lasciate ch’io vi parli qual parlerebbe un padre.
Guden. Signor, a questa volta gente venir io vedo.
(guardando la scena)
Bainer. Indiscreti! A quest’ora? (come sopra)
Guden.   (Pavento il mio congedo).

SCENA VI.

Monsieur Mann, monsieur Lass, monsieur Taus, monsieur Paff e detti. Vengono tutti quattro a due a due colla solita serietà, e salutano senza parlare.

Bainer. Amici, compatite, se ora non son con voi.

Abbiamo un interesse da consumar fra noi.
Là sotto il pergolato vi son delle figliuole:
Siete persone oneste, godran di non star sole.
Lass. Bainer, ho gran bisogno di voi.
Bainer.   Per qual ragione?
Lass. Nel mio paralogismo evvi una sproporzione.
Del circolo trovata avrei la quadratura;
Un sol punto vi resta a compier la figura.
Lo cerco e lo ricerco, e ancor non lo trovai.
Bainer. Nessun l’ha ancor trovato; nol troverete mai.
Lass. Osservate, vi prego, se i miei lavor son strani.
(mette fuori un gran foglio pieno di figure)
Bainer. Monsieur Lass, non ho tempo; lo vederem domani.
Lass. (Lo guardi o non lo guardi, alfin poco mi affanna;
Vorrei trovar il tempo di chiedergli Marianna).
(da sè; si parte verso il fondo della scena)
Taus. Una parola sola. Aggiungo alla scoperta
Del flusso e del riflusso una ragion più certa.
Il mar ogni sei ore cresce e cala ogni dì,
Perchè quanto fu fatto, fu creato così, (parte seriamente)

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Bainer. Questa in certe questioni è la ragion più sana:

È limitato il corso della scienza umana.
Paff. Io son chi sono.
Bainer.   È vero.
Paff.   Testa ho quadrata.
Bainer.   Il so.
Lo divideste il punto?
Paff.   No, lo dividerò. (parte con gravità)
Bainer. Che ne dite? (a monsieur Guden)
Guden.   M’annoiano.
Bainer.   Lasciateci per ora.
(a monsieur Mann)
Mann. Ha quel gran male intorno, e non è morto ancora?
(verso monsieur Guden)
Bainer. È vivo.
Mann.   Morirà. (parte seriosamente)
Guden.   Costui mi vuol sentire, (verso mons. Bainer)
Bainer. Il mal come vi tratta?
Guden.   Non so, non saprei dire.
Fuori di me medesimo l’orgasmo ora mi tiene;
Non mi tormenta il male, ma non conosco il bene.
Bainer. Se ascoltandolo meno voi non sentite il male,
Segno è che non è fisico, ma soltanto ideale.
Venghiamo a noi: lasciatemi che termini il mio detto,
E, che vi parli al cuore col più sincero affetto...

SCENA VII.

Pettizz e detti.

Pettizz. Signor... (a monsieur Bainer)

Bainer.   Che tolleranza! par lo facciano apposta.
Che vuoi?
Pettizz.   Manda il Marchese a prender la risposta.
Bainer. Digli che la risposta gliela riserbo a bocca.
Pettizz. E dice un’altra cosa...
Bainer.   Che sofferir mi tocca!

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Finiscila una volta.

Pettizz.   Vi prega a capo chino,
Che gli date licenza di bere un pò’ di vino.
Bainer. Beva, che bever possa l’ultima sua malora.
Vattene, e non tornare; non vo’ nessun per ora.
Pettizz. (Parte.)
Guden. Signor, voi v’irritate.
Bainer.   Amico, l’irascibile
Frenar nei primi moti talor non è possibile;
Ma presto la ragione rischiara l’intelletto,
E passa dalla mente in un momento al petto.
Onde dell’ira ad onta, passion mia dominante,
Coll’uso di ragione mi calmo in un istante.
Ciò però non crediate costi poca fatica;
E duro il soggiogare una passion nemica.
Usai per lungo tempo a impormi da me stesso
Una sensibil pena in ogni caldo eccesso.
Talor mordeami un dito per punir l’impazienza;
Durandomi la collera, usava un’astinenza.
Alfine a poco a poco sono arrivato a segno,
Che mai più d’un minuto non dura in me lo sdegno.
Ma tornano i seccanti filosofastri insani;
Non vorrei mi obbligassero a mordermi le mani.
Andiam. Le mie intenzioni desio di farvi note;
Ma colà sospirando passeggia la nipote.
Due parole le dico, poi nello studio mio
Meco a parlar vi aspetto. Non vi affliggete. Addio.
(parte abbracciandolo un poco, con amicizia)

SCENA VIII.

Monsieur Guden.

Piena ho l’alma di dubbi, temo in un punto, e spero;

Bainer mi compatisce, più non mi parla altero.
Chi sa? ma il lusingarmi cosa è fuor di ragione.

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Se trattami cortese, mosso è da altra cagione.

Onesto è per natura; sa che m’offese a torto,
E di ottimi consigli preparami il conforto.

SCENA IX.

Monsieur Lass con madama Elisabetta, monsieur Taus con madama Federica, monsieur Mann e monsieur Paff con madama Giuseppina passeggiando il giardino, tenendo le donne la mano al braccio degli uomini; ed il suddetto.

Guden. Cari quegli amorini delle Veneri a lato!

Lass. (Mostrando a madama Elisabetta il foglio colle figure del circolo.)
Vedete? Ecco le prove le circolo quadrato.
Deve la linea B condursi al punto C,
E quella B e C infino al centro D;
E poscia intersecando dall’H infino all’I.
(camminando)
Elisabetta. Signor, non me n’intendo. Per or basta così.
Lass. Per via di quel triangolo si va alla quadratura.
Elisabetta. Con vostra buona grazia, quest’è una seccatura, (partono)
Taus. Il flusso ed il riflusso provien, signora sì,
Dal moto della luna. (camminando)
Federica.   Dunque, quand’è così, (e s.)
Essendo un po’ lunatico, voi, monsieur Taus, potete
Far crescere e calare il mar quando volete. (partono)
Paff. Il punto indivisibile siete voi, madamina.
Mann. Vedete quel Polacco? è un morto che cammina.
(partono)
Guden. Che impertinenza è questa? Voglia mi viene, affè,
Di far quell’insensato morir prima di me.
Ma no, Bainer m’insegna di usar la sofferenza.
Andiam nel di lui studio a udir la mia sentenza.

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Due volte a lui guidato mi avrà tremante in core,1

Una il timore antico, l’altra il novello amore.
La malattia di spirito ho, sua mercè, corretta;
La malattia del cuore or la salute aspetta.
Se bastaro alla prima del zio mediche note,
È necessaria a questa la man della nipote. (parte)

Fine dell’Atto Quarto.

Note

  1. Ed. Zatta: il core.