Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di Fabrizio.

Fabrizio e Tonino, poi il Servitore.

Fabrizio. Per quel che sento, signor Tonino, voi siete un giovane benestante, unico di vostra casa e con un zio solamente, che invece di farvi da padre, vi si dimostra nemico.

Tonino. Giusto come che la dise ela.

Fabrizio. Egli vi tien lontano da lui, per maneggiare il vostro a suo modo e profittare della poca pratica che voi avete del mondo.

Tonino. Giusto, come che la dise ela.

Fabrizio. E vi ha consegnato alle1 mani di questo buon direttore, ministro delle sue cattive intenzioni. [p. 62 modifica]

Tonino. Giusto, come che la dise ela.

Fabrizio. Ma non vedete che questo Ottavio è un birbone, il quale menando la vita che voi mi dite, con giuoco, donne e divertimenti, fa che le vostre sostanze mantengano i di lui vizi?

Tonino. Saveu che disè ben?

Fabrizio. Qual educazione potete voi sperare da un uomo di tal carattere? Che figura vi farà egli far per il mondo? Vi mangia il vostro, vi tien soggetto, si serve di voi per zimbello, e poi vi pone in ridicolo dove andate.

Tonino. Saveu che disè ben?

Fabrizio. S’io fossi in voi, vorrei liberarmi dalle mani di costui. Siete negli anni della discrezione. Potete dir voglio, potete dispor del vostro con miglior maniera, e vivere da uomo civile come siete nato, a misura delle vostre fortune.

Tonino. Da galantomo, che disè ben.

Fabrizio. Dovreste liberarvi dalle mani di vostro zio, ch’è il maggior nemico che abbiate, e riconoscere il vostro, e mettervi sotto la direzione di una persona onesta e da bene.

Tonino. Ve digo che disè ben.

Fabrizio. E rimessa in buona maniera la vostra casa, pensare a prender moglie.

Tonino. Oh! vedeu, qua semo al ponto. Me vôi maridar.

Fabrizio. Fintanto che non avete accomodate le cose vostre, non vi consiglio di farlo.

Tonino. Cossa hoggio da comodar? Mi no me par d’aver gnente de rotto.

Fabrizio. Dovete accomodare i vostri interessi. Farvi padrone del vostro. Liberarvi da costui, che vi tiene legato.

Tonino. Se resto senza sior Ottavio, cossa faroggio? Mi no so gnente; lu me fa tutto. El m’ha promesso de maridarme; se lu no me manda, chi me mariderà?

Fabrizio. Vedo la vostra semplicità. Ho compassione di voi; liberatevi dal signor Ottavio, ed io prenderò cura dei vostri interessi e della vostra riputazione.

Tonino. E de maridarme. [p. 63 modifica]

Fabrizio. Di questo ancora.

Tonino. Sieu benedetto. Me raccomando a vu, me metto in te le vostre man.

Fabrizio. Scriverò a Venezia a miei corrispondenti; e con una vostra procura vi farò render giustizia contro di vostro zio.

Tonino. Son qua, toleme per fio; ve cognosserò per mio pare.

Fabrizio. Ma prima di tutto liberatevi da quel birbone di Ottavio, da quel frappatore.

Tonino. Cossa voi dir sfrapador?

Fabrizio. Vuol dire ravvolgitore, raggiratore, uomo di mal costume e di mala fede.

Tonino. Ho capio; lasse far a mi.

Fabrizio. Ma fatelo con buona maniera.

Tonino. Farò pulito. Co voggio, so anca mi parlar come che parla i omeni.

Servitore. Signore, è qui un certo signor Ottavio, che dimanda del signor Tonino.

Fabrizio. Eccolo per l’appunto. (a Tonino)

Tonino. Dirò co dise quello: Lupus est in tabula.

Fabrizio. In fabula volete dire. Facciamolo venire innanzi. (a Tonino) Di’ al signor Ottavio che venga qui, che il signor Tonino l’aspetta. (parte il servitore) Parlategli con prudenza: ditegli il vostro sentimento, ma civilmente, con pulizia e con buona grazia. (parte)

SCENA II.

Tonino, poi Ottavio.

Tonino. Sta volta bisogna chiamar i spiriti a capitolo. Ghe vol coraggio e franchezza. Ghe parlerò civilmente e con pulizia.

Ottavio. Signor Tonino, preparatevi subito, che dobbiamo partire.

Tonino. Con vu, sior Ottavio, no vegno altro.

Ottavio. Perchè?

Tonino. Ve lo dirò civilmente e con pulizia. Da vu no vôi altro, perchè sé un frappador, che vol dir un razirador, un omo de cattivo costume e de mala fede. [p. 64 modifica]

Ottavio. A me questo? (con isdegno)

Tonino. Ve n’aveu per mal? Ve lo digo con civiltà.

Ottavio. Così si parla meco? Asino impertinente.

Tonino. Tolè, el va in collera.

Ottavio. Non so chi mi tenga, che non vi dia tanti calci, quanti ne potete portare.

Tonino. Se me dare, chiamerò sior Fabrizio.

Ottavio. È egli quello che vi ha consigliato a parlarmi sì indegnamente?

Tonino. Sior sì, ma nol dise miga per offenderve; el lo dise per ben.

Ottavio. Vi pare piccola offesa dirmi frappatore, raggiratore, uomo cattivo e di mala fede? Giuro al cielo, me ne farò render conto. Ma vorrei sapere da voi, bestia ignorantissima, a che motivo vi ha egli detto questo di me.

Tonino. Mo via, no stè andar in collera. Ve digo che el l’ha dito per ben. El dise cussì, che vu sé quello... Ma no vu, che mio barba xe un poco de bon, e che vu sé un galantomo, ma che coi mi bezzi e co la mia roba volè mantegnir la dona, el zogo e tutti i vostri vizietti.

Ottavio. Ha detto questo?

Tonino. Sior sì. Xele mo cosse da andar in collera?

Ottavio. (Ho capito; per me la cuccagna è finita. Partirò solo). (da sé)

Tonino. Via, femo pase. Co me marido, sarè mio compare.

Ottavio. Sarò un malanno che vi colga fra capo e collo. Andate al diavolo, dove volete, che di voi non voglio altri pensieri. (in atto di partire)

Tonino. Me lasseu cussì?

Ottavio. Sì, vi lascio per non vedervi mai più.

Tonino. Mi resto a Roma. (ridendo)

Ottavio. Restate, burattino mal fatto.

Tonino. E vu dove andeu?

Ottavio. Dove voglio.

Tonino. Deme i mi abiti, la mia roba e i mi bezzi. [p. 65 modifica]

Ottavio. Che abiti? che danari? Voi non avete niente del vostro. Son creditore del viaggio, e se non mi pagherete, vi farò metter prigione.

Tonino. Poveretto mi! agiuto, zente, el me voi far metter in preson.

SCENA III.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Che cos’è questo strepito?

Ottavio. (Era meglio ch’io me n’andassi). (da sé)

Tonino. Sior Fabrizio, me raccomando a vu; sior Ottavio me voi far metter in preson. Cossa dirà i zentilomeni da Torzelo?

Ottavio. Signore, vi riverisco. (a Fabrizio, in atto di partire)

Fabrizio. Signor Ottavio, favorite venire nella mia stanza; ho bisogno di discorrer con voi.

Tonino. El se n’ha per mal, perchè gh’ho dito quel che m’ave dito. (a Fabrizio)

Ottavio. Con che fondamento potete voi parlare di me in sì fatta guisa? (a Fabrizio)

Fabrizio. Signore, voi conoscete la semplicità del signor Tonino. Fatemi il piacere di venir meco. Sono un galantuomo; e spero che resterete di me soddisfatto.

Ottavio. Compatitemi. Ho qualche premura. Non posso più trattenermi.

Fabrizio. Se ricusate di parlare con un uomo onesto qual io sono, darete da sospettare che sia vero quello che di voi si dice. Fidatevi della mia puntualità, della mia onoratezza, e vi assicuro che sarà meglio per voi.

Ottavio. Bene, verrò a sentire quel che volete dirmi. (Che cosa posso perdere nell’ascoltarlo? ) (da sé)

Fabrizio. Signor Tonino, restate qui fino che noi torniamo. (parte)

Tonino. Sior sì, comodeve.

Ottavio. (Spicciatomi da costui, parto immediatamente). (da sé, e parte) [p. 66 modifica]

SCENA IV2.

Tonino solo.

Tonino. No vedo l’ora de maridarme. Che i me daga che muggier che i vol, pur che la sia una donna, mi son contento. Sta siora Rosaura la me piase assae; la toria volentiera; ma gh’ho un pochetto de suggizion de quel sior romano, che me vol sfidar alla spada. Gh’ho paura che el me mazza e a mi me preme salvar la panza per i fighi. Se no la sarà questa, la sarà un’altra. A un putto della mia sorte no manca muggier. Tutte gh’averà ambizion de sposar sto tocco de omo. Per diana, bisogna dir la verità, son un zovene molto ben fatto. Che bel taggio de vita! Che aria da zentilomo! In sto portego no ghe xe gnanca un specchio. Me vôi vardar in tel mio specchietto, (cava di tasca un picciolo specchio) Oh bello! Oh bello! questa perucca è proprio tagliata sull’aria del mio bel volto. Se toscaneggia a rotta de collo. La bella perucca fa più bella la bellezza del volto, ed il bel volto fa più bella la bellezza della perucca, onde fra la gara di queste bellezze spicca sempre più la bella grazia del signor Tonin Bella grazia. Gran mi! gran spirito! co presto che ho impara a parlar romano! che profitto che ho fatto a camminar el mondo! Roma sarà incantada. Venezia se butterà de logo3. I me metterà su i foggietti. Sarò nomina più de Pasquin e Marforio. Che bella bocca ridente! che sguardo vezzoso! Voggio cresser alla bellezza natural dei altri artifiziali artifizi. (si mette dei nei sul viso

SCENA V.

Rosaura, Florindo e detto, poi il Servitore.

Tonino. (Oimei! xe qua quel sior dalla spada). (timoroso)

Rosaura. Signor Tonino, non vi dia ombra alcuna vedermi venir [p. 67 modifica] col signor Florindo. Egli è un uomo assai ragionevole. Sapete come a lui ha parlato mio zio. Avete da essere buoni amici.

Tonino. Mi son amigo de tutti. Ghe vôi ben, ghe vorrò sempre ben, basta che nol me fazza paura.

Florindo. Basta che voi trattiate con termini civili ed onesti. (a Tonino)

Tonino. Diseme caro vecchio, se sposasse siora Rosaura, ve n’averessi per mal?

Florindo. Le ragioni addottemi dal signor Fabrizio mi hanno disposto ad una perfetta rassegnazione.

Tonino. Bravo, cussì me piase. Saremo amici.

Florindo. E voi vi dolerete di me, qualora essendo vostra sposa la signora Rosaura, mi procuri l’onore di onestamente servirla?

Tonino. Gnente affatto; anzi me farè finezza, ve sarò obbligà.

Rosaura. Viva il signor Tonino.

Tonino. E viva ela e le so bellezze.

Florindo. Viva il signor Bella grazia.

Tonino. Per servirla, obbedirla e reverenziarla.

Rosaura. È molto bello, molto grazioso.

Tonino. Sempre per favorirla.

Florindo. Mi piacciono quei nei sul viso. Siete il ritratto della galanteria.

Tonino. Tutto effetto della sua dabbenaggine.

Florindo. Anzi della vostra.

Rosaura. Sediamo un poco in conversazione.

Tonino. Tutto quello che la comanda. La donna in mezo. Dirò come che se dise: In medio stabat virtutis.

Florindo. (Quanti spropositi! ) (da sé)

Rosaura. Chi dice questo bel latino?

Tonino. Credo che el sia o dell’Ariosto, o del Tasso.

Florindo. Prendete tabacco? (gli offre tabacco)

Tonino. Obbligatissimo. Ne tengo, ma non ne prendo.

Florindo. Perchè non ne prendete?

Tonino. Per no sporcarme, con reverenza, el naso.

Rosaura. Favorisca a me una presa delle sue grazie. [p. 68 modifica]

Tonino. Subito la favorisse.

Florindo. (Che complimenti obbliganti! ) (da sé)

Tonino. (Tira fuori una tabacchiera involta in un foglio.)

Florindo. Di che mai è quella sua tabacchiera? è una qualche gioja preziosa?

Tonino. La xe d’arzente massizzo. La tegno incartada, acciò che no la se insporca.

Florindo. Che pulizia ammirabile!

Tonino. Prenda e s’imbalsami. (a Rosaura)

Florindo. Favorisca.

Tonino. La senta che roba. Siviglia d’Albania. (a Florindo)

Rosaura. È molto secca questa vostra Siviglia Albanese. Quant’è che l’avete?

Tonino. Me l’ha donada sior santolo, che sarà debotto tre anni.

Florindo. La lascierete ai vostri figliuoli per fideicommisso.

Tonino. La diga, sior Florindo, no la gh’ha gnente da far adesso?

Florindo. Niente affatto.

Tonino. No l’anderave a dar una ziradina?

Florindo. Sto qui per voi, per tenervi conversazione.

Tonino. Per mi la vaga pur, che la mando.

Florindo. (Siamo alle solite). (a Rosaura)

Rosaura. (Compatitelo; lo conoscete). (a Florindo)

Tonino. Per dirghela, sior Florindo, la me dà un pochette de suggizion.

Florindo. Non vi prendete soggezione di me. Fate conto che io non ci sia. Parlate e trattate con libertà.

Tonino. Bravo; cussì me piase. La diga, patrona, cossa fala? Stala ben? Come staghio in te la so cara grazia? Me par che sia un bel caldo; con so bona licenza. (si cava la parrucca, e l’attacca alla sedia)

Florindo. (Oh la bella figurina!) (da sé)

Rosaura. Perdonatemi, signore; questa è una mala creanza.

Tonino. La compatissa; ghe remedieremo. (si mette un berrettino)

Rosaura. Peggio. Parete un villano con quella berretta.

Tonino. Scondemola. (si pone un fazzoletto in capo) [p. 69 modifica]

Florindo. Sono cose da crepar di ridere.

Rosaura. Eh via, mettetevi la vostra parrucca.

Tonino. Mo se xe caldo.

Rosaura. Se vien gente, che volete che si dica di voi?

Tonino. La gh’ha rason. Me metterò la perucca. (si rimette la parrucca in capo, e tira fuori lo specchietto, e se l’accomoda con caricatura)

Rosaura. Ora siete un giovane pulito.

Tonino. Ah? cossa disela? ghe piasio? (a Rosaura) (Caro sior, andè via de qua). (a Florindo)

Servitore. Signor Tonino, il padrone la dimanda.

Tonino. Vegno subito. (si alza, e parte senza dir niente a nessuno)

Florindo. Che vi pare di questo bel garbo? (a Rosaura)

Rosaura. Certamente ha delle cose stravagantissime.

Florindo. E voi vi adattereste a pigliarlo?

Rosaura. Signor Florindo, il signor Tonino ha d’entrata all’anno quattromila scudi. (parte)

Florindo. Per questa parte la compatisco; io non ne ho quattrocento. (parte)

SCENA VI.

Altra camera di Fabrizio.

Fabrizio e Tonino, poi il Servitore.

Fabrizio. Orsù, signor Tonino, io ho ridotto le cose vostre in ottimo grado. Il signor Ottavio si è persuaso di ritirarsi dal vostro fianco e di lasciarvi in pienissima libertà. Voleva andarsene immediatamente, ma io l’ho impedito, perchè prima desidero che facciate con lui i vostri conti.

Tonino. Mi no so miga far conti. No so dir altro che un fia un, fa un; do fia do, fa quattro, e pò basta; al tre no ghe arrivo.

Fabrizio. Pel conteggio vi assisterò io, basta che vediate se le partite camminano bene. Vi darà una nota, la leggerete...

Tonino. Pian, pian. Bisogna che ve confessa una cossa.

Fabrizio. Che cosa?

Tonino. So poco lezer. [p. 70 modifica]

Fabrizio. Ma come mai avete impiegati gli anni della fanciullezza e della più tenera gioventù?

Tonino. Mio sior padre xe morto a bonora. Mia siora madre s'ha tornà a maridar. Mi son resta in te le man de mio barba, e lu el me fava star in campagna, solo, coi contadini4, diese mesi dell’anno. Nol m’ha fatto studiar, no ho impara gnente. Tutto quel che so, lo so per via del mio gran spirito, della mia bona testa. Ho impara a cantar, a ballar, a far el poeta, cussì, senza che nissun m’insegna. Ho sempre avudo, siben che giera in campagna, delle massime da gran signor. Un fattor m’ha messo in testa de farme nobile. Avemo robà sie sacchi de gran a mio barba, avemo spartio el vadagno mezo per omo. Mi son andà a Torzelo a farme zentilomo, e lu li ha godesti co la so morosa.

Fabrizio. Una simile educazione non poteva riuscire diversamente. Basta, il mio buon core, portato a far del bene a chi può, mi consiglia a non abbandonarvi. Farmi che in voi vi possa essere un fondo buono ed una docilità da poter sperare buon frutto.

Tonino. Per mi, mettème lesso, mettème rosto, stago a tutto. Basta che me dè muggier, mi no cerco altro.

Fabrizio. Ve la darò, se avrete giudizio.

Tonino. Ve digo e ve prometto che farò tutto quel che volè.

Fabrizio. Andiamo dal signor Ottavio, che di là ci aspetta nella camera del mio negozio; termineremo questa faccenda, e penseremo al resto.

Tonino. Andemo pur dove che volè.

Servitore. Una signora, vestita da uomo, vorrebbe parlare con Vossignoria, (a Fabrizio)

Fabrizio. E chi è costei?

Servitore. Non ha voluto dirlo. Dice che lo dirà a Vossignoria.

Fabrizio. Qualche novità. Signor Tonino, andate di là dal signor Ottavio...

Tonino. Vegnì anca vu; se no, no ghe vago.

Fabrizio. Andate, di che avete paura? [p. 71 modifica]

Tonino. El m’ha manazzà de darme delle peae, de fame metter in preson.

Fabrizio. Non dubitate; non vi è pericolo che ardisca più di dir niente. State sulla mia parola.

Tonino. Anderò, per farve servizio; ma ve prego de vegnir presto. Co vedo sior Ottavio, se me giazza el sangue; col me varda, el me fa paura; e co me l’insonio la notte, me desmissio tremando. (parte)

SCENA VII.

Fabrizio, il Servitore, poi Beatrice.

Fabrizio. Che venga questa signora. E vieni tu ancora con lei, non mi lasciar solo; non si può mai sapere, (al Servitore che parte, e poi ritorna con Beatrice) Il partito è buono per mia nipote, quando mi riesca tirarlo in Roma sotto la mia educazione, e quando possa assicurarmi che riesca bene.

Beatrice. Signore, compatite l’incomodo che vi reco.

Fabrizio. In che cosa vi posso servire?

Beatrice. In casa vostra mi dicono vi sia certo signor Ottavio Aretusi; è egli vero?

Fabrizio. Verissimo; è di là nel mio studio.

Beatrice. Bramerei di vederlo e di potergli parlare in presenza vostra.

Fabrizio. Chi siete voi, signora?

Beatrice. Sono la di lui sposa.

Fabrizio. Quand’è così, vi servo subito. Ma perchè gli volete parlare in presenza mia?

Beatrice. Per vedere se coll’aiuto vostro mi riesce di renderlo al suo dovere. Egli mi tratta male. Non fa più conto di me, vuole abbandonarmi, e di più nega di rendermi quello ch’è mio. Ho fatto qualche ricorso contro di lui, ma ne sono quasi pentita, perchè prevedo il suo precipizio; onde a voi mi raccomando, e per la sua salvezza, e per la mia quiete, e per la comune nostra riputazione. [p. 72 modifica]

Fabrizio. Son qui a far tutto quello ch’io posso per il vostro bene. Andatemi a chiamare il signor Ottavio, (al Servitore, che parte)

Beatrice. Dubito che lo ritroverete assai pertinace.

Fabrizio. Gli avete dato motivo di essere con voi sdegnato?

Beatrice. No certo, da me non ha avuto che benefizi e rassegnazione.

Fabrizio. Eccolo ch’egli viene.

SCENA VIII.

Ottavio, il Servitore e detti.

Ottavio. (Costei mi perseguita). (da sé)

Fabrizio. Signor Ottavio, conoscete questa signora?

Ottavio. Così non la conoscessi.

Beatrice. Qual motivo avete di dolervi di me?

Ottavio. Ne ho cento delli motivi.

Fabrizio. O via, tutti i mariti hanno da soffrir qualche cosa dalle loro mogli, e le mogli non meno dai loro mariti. Scordatevi di ogni cosa, e in grazia mia ripigliatevi la vostra sposa, e partite di Roma unitamente, di buon amore.

Ottavio. A riguardo vostro voglio fare quest’ultimo sacrifizio.

Fabrizio. E voi siate docile e sofferente. (a Beatrice)

Beatrice. Non gli darò motivo di lamentarsi.

Fabrizio. Se avete fatto qualche passo falso contro di lui, correggetelo sin che vi è tempo.

Beatrice. È necessario ch’egli faccia quello che gli dirò, perchè mi rimova da quel che ho fatto.

Ottavio. E che faceste, signora?

Beatrice. Ve lo dirò fra voi e me.

Fabrizio. Andate là, in quella camera. Parlate con libertà fra di voi, e dove possa impiegarmi a prò vostro, lo farò volentieri.

Beatrice. Venite, signor Ottavio, che tutte le cose si aggiusteranno. (parte)

Ottavio. (È necessario il fingere, per liberarmene più facilmente). (parte) [p. 73 modifica]

SCENA IX.

Fabrizio ed il Servitore.

Fabrizio. Fra maritati spesso spesso vi sono de’ guai. Ho fatto bene io a non prender moglie. Parmi che vi sia qualcheduno in sala. Guarda chi è. (al Servitore, che parte) Credo per altro, fra questi due, che la moglie abbia più ragion del marito. Sia come esser si voglia, ho piacere che col mezzo mio si riuniscano per ora almeno.

Servitore. Signore, vi è una pellegrina che ha premura di parlarvi.

Fabrizio. Una pellegrina? che venga. (Il Servitore parte) Vorrà l'elemosina, ed io le darò qualche cosa. Non mi ritiro dal far del bene, se posso.

SCENA X.

Eleonora, il Servitore ed il suddetto.

Eleonora. Serva del signor Fabrizio.

Fabrizio. Chi siete voi, signora?

Eleonora. Sono Eleonora degli Aretusi, moglie di Ottavio che trovasi in casa vostra.

Fabrizio. Oh diamine! Cosanota sento? Voi moglie del signor Ottavio?

Eleonora. Così è; ho meco le prove, se mi venisse negato.

Fabrizio. (Come va la faccenda? quante mogli ha costui?) (da sé) Chiamami subito il signor Ottavio. (al Servitore, che parte)

Eleonora. Per qual motivo vi siete maravigliato che io sia moglie d’Ottavio?

Fabrizio. Niente, niente. Eccolo qui per l’appunto.

SCENA XI.

Ottavio, il Servitore ed i suddetti.

Ottavio. Che mi comandate, signore? (non vedendo il volto di Eleonora)

Fabrizio. Conoscete voi questa pellegrina? (1) Sav. e Ztla: che. [p. 74 modifica]

Ottavio. Oh! siete qui, sorella?

Eleonora. Sorella? Che sorella? Ho finto di esser tale una volta per salvare la vostra e la mia riputazione. Son vostra moglie, pur troppo, per mia disgrazia; ed ora son qui venuta per salvare la vostra vita. Quell’altra che avete barbaramente ingannata, fingendo di volerla sposare, vi ha accusato alla Giustizia. I birri hanno cercato di voi alla locanda, ed io per carità sono venuta ad avvisarvi.

Ottavio. Ah Beatrice indegna! (vuol andare nella camera, ove sta Beatrice)

Fabrizio. Fermatevi. In casa mia non si fanno rumori.

Ottavio. E voi meritereste che vi ricompensassi, come mi suggerisce lo sdegno. (contro Eleonora)

Fabrizio. Zitto, dico. Rispettate la casa mia.

Eleonora. Son vostra moglie...

Ottavio. Siete la mia rovina. I birri mi cercano. Dove potrò salvarmi? Se mi trovano, son perduto.

SCENA XII.

Beatrice e detti.

Beatrice. Ho inteso tutto con mio rammarico, con mio rossore. Andrò io medesima a rimediare.

Ottavio. Andate, che un fulmine v’incenerisca. Ma a che prò mi trattengo col pericolo di esser preso? Signor Fabrizio, vado a procurar di salvarmi. (in atto di partire)

SCENA XIII.

Florindo e detti.

Florindo. Dove andate, signor Ottavio? I birri sono alla porta.

Fabrizio. In casa mia questi affronti?

Ottavio. O morire, o fuggire. (parte correndo)

Eleonora. Ah povero disgraziato!

Beatrice. Lo assista il cielo. [p. 75 modifica]

SCENA XIV.

Tonino e detti, poi Arlecchino.

Tonino. Poveretto mi! agiuto, un gotto de acqua per carità.

Fabrizio. Che cosa è stato?

Tonino. Sior Ottavio xe deventà matto. El s’ha tratto zo dal balcon.

Eleonora. Povera me!

Beatrice. Aiutatelo.

Arlecchino. Siora Eleonora, no v’incomodè più de cercar vostro marido.

Eleonora. Oimè! è egli morto?

Arlecchino. Siora no, el s’ha fatto solamente un poco de mal, ma l’ha trovà della zente caritatevole, che l’ha agiutà.

Beatrice. È in luogo sicuro?

Arlecchino. Sicurissimo. I sbirri l’ha5 chiappà con amor; e con tutta carità i l’ha menà in preson.

Beatrice. Ah infelice!

Eleonora. Ah sventurato!

Florindo. La galera, a quel ch’io sento, non la può fuggire.

Fabrizio. Ecco il fine meritato dal Frappatore6.

SCENA ULTIMA.

Rosaura e detti.

Rosaura. Gran cose, signor zio, ho veduto e sentito.

Fabrizio. Non si poteva aspettare diversamente un perfido come lui. Vedete, signor Tonino, se io vi diceva la verità?

Tonino. Sior Fabrizio, per carità, no me abbandonè.

Fabrizio. Se piacevi7 di restar meco e dipendere da’ miei consigli, vi chiamerete contento.

Tonino. Farò tutto quel che volè, me basta una cossa sola.

Fabrizio. Che cosa? [p. 76 modifica]

Tonino. Un bocconcin de muggier.

Arlecchino. Fe come che ho fatto mi, sior Tonin.

Tonino. Cossa aveu fatto?

Arlecchino. M’ha piasso la cameriera della locanda, e me l’ho sposada.

Tonino. Se podesse, farave l’istesso anca mi con quella cara colonna. (perso Rosaura)

Fabrizio. Vi piace mia nipote? (a Tonino)

Tonino. Assae, assae; ghe lo zuro su la mia nobiltà.

Florindo. Un giuramento che costa dieci ducati.

Fabrizio. Voi che ne dite, Rosaura?

Rosaura. Io mi rimetto a tutto quello che fate voi. (a Fabrizio)

Fabrizio. Bene dunque. Datevi la parola, e prendiamo tempo un anno a stabilire le nozze. Vedremo in questo tempo che cosa ci possiamo compromettere dal signor Tonino. Nel corso di quest’anno il signor Florindo favorirà di non frequentar la mia casa, così volendo ogni riguardo ed ogni onestà. Voi, donne, andate al vostro destino, (a Beatrice ed Eleonora) E voi, signor Tonino, se volete essere un giorno contento, ascoltatemi e fidatevi dell’amor mio. Il cielo vi ha liberato da un assassino; e da quello che gli è succeduto, e dal fine che a lui sovrasta, imparate a seguire l’onestà e la virtù, e a detestare perpetuamente il vizio, gl’inganni ed il mal costume.



Fine della Commedia.

  1. Savioli e Zatta: nelle.
  2. Nella ed. Paperini, e in altre che la ricopiano, è sbagliata la numerazione della scena presente e delle susseguenti.
  3. V. nota (1), a pag. 37.
  4. Zatta: in compagnia solo coi contadini.
  5. Sav. e Zatta: l’han.
  6. Mancano queste parole di Fabrizio nell’ed. Zatta.
  7. Zatta: vi piace.