Il cappello del prete/Parte prima/XVI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - XV | Parte seconda | ► |
XVI.
Il cacciatore.
«U barone», tornato a Napoli, per qualche giorno si sforzò di non più pensare nè a prete Cirillo, nè al suo cappello.
L’uno era ben chiuso in un luogo sicuro, e la chiave era chiusa anch’essa in un cassettino segreto della sua scrivania; l’altro, il cappello...., ma per quanto si sforzasse di non pensarci, non poteva aver l’animo tranquillo su questo argomento. Un brandello del morto sopravviveva in quel nero spauracchio e se lo sentiva svolazzare intorno. E non poterci metter la mano addosso! Egli sarebbe stato tanto ricco e tanto quieto senza questa sciocca paura!
Inutilmente cercò di stordirsi nel giuoco, al club, con Marinella, nelle visite eleganti che aveva ripreso con qualche fortuna.
— A che cosa pensi, barone? — gli chiese un giorno Marinella, mentre egli si era fissato coll’occhio vitreo su quell’ombra nera e fastidiosa.
Non poteva incontrare un prete che avesse in testa un cappello a tre punte, senza che l’occhio andasse da sè sul triangolo, con una malsana, insistente curiosità; e una volta preso all’incanto, sentivasi tratto a seguirlo attraverso alle strade popolose di Napoli fin sulla soglia delle canoniche, delle chiese, dei conventi.
Di questi strani fenomeni di fascinazione cercava di dare a sè stesso una spiegazione scientifica. Egli aveva giuocato troppo col suo temperamento eccitabile, e sebbene vedesse e sentisse che la persecuzione non veniva dalla coscienza, ma dai nervi e dalla immaginazione, non poteva sottrarsi, come accade agli allucinati, al tormento della sua illusione. Il cervello, si sa, soffre anche dei dolori di una gamba che non c’è.
Il cuore soffriva già da qualche tempo acuti accessi di palpitazione, e più d’una volta egli aveva dovuto ricorrere alla digitale. Provò anche il bromuro e si sentì più calmo, più fresco. A dispetto del cappello ora cominciava a dormire sonni più quieti, e gli fece bene anche il fumar meno.
Fu appunto in un sogno che gli balenò l’idea che il cappello potesse essere caduto nelle mani di Giorgio, nipote di Salvatore, che faceva l’oste lassù alla Falda.
Non era disceso costui a raccogliere l’eredità dello zio qualche giorno dopo la sua morte? Non aveva portato via un sacco di roba? Perchè avrebbe dovuto lasciare il cappello se ci fosse stato?
Gli parve un sogno non assurdo, per quanto si può credere ai sogni. Valeva la pena secondo lui di fare una gita lassù per vedere quanto di vero passa nei sogni.
Per non dare sospetto si vestì di un rozzo abito di cacciatore, si calcò in testa un cappellaccio molle, e con un carniere di pelle e il suo fucile ad armacollo, un giorno prese il treno, e scese alla stazione più vicina alla Falda.
Passo passo nella frescura mattutina cominciò a salire il colle, zufolando, col cuore aperto a una mezza speranza.
Che cosa non avrebbe dato per quel cencio di cappello? Che cosa c’è di più caro e di più prezioso della quiete dei nervi? Meglio morti, come prete Cirillo, che vivere all’ombra di quel cappello!
L’osteria del «Vesuvio», colla sua vecchia insegna color pomodoro, si trovava sulla strada grossa che sale verso i monti, in un luogo segregato, presso un bosco di platani, che serviva di riposo e di ristoro ai carrettieri e agli asinai.
Non era un albergo degno di nobili inglesi, ma vi si trovava un vino fresco, del vecchio caciocavallo, del tabacco e anche un’insalata preparata, condita e voltata dalle grosse dita di Giorgio.
Era costui un giovanotto grosso e tarchiato, tondo di capo e di cervello, buon figliuolo in fondo, sempre disposto a far un buon servizio a un vicino, quando c’era da guadagnare una mezza lira; Stava egli tutto occupato a squartare un montone che aveva appiccato per le gambe all’inferriata d’una finestra, quando vide arrivare un cacciatore senza cane.
— C’è del vino e del cacio, giovinotto?
— Fin che ne volete, galantuomo, — rispose Giorgio; e andò ad asciugarsi le mani sporche di sangue.
Il cacciatore entrò in una stanzuccia a terreno e girò vivamente lo sguardo intorno come se cercasse qualche cosa. Poi sedette innanzi a una tavola coll’abbandono di un uomo molto stanco.
Giorgio tornò ben presto col vino, col cacio e un pane duro sopra un piattello.
— Mi pare di conoscervi, giovinotto...., e non ricordo dove vi ho trovato....
Giorgio fissò gli occhi in faccia al cacciatore e disse:
— Gli uomini si trovano, ma io non so di avervi mai visto....
— Non siete voi per caso parente di quel Salvatore, che sta laggiù a Santafusca?
— Lo sono veramente. Adesso è morto.
— Lo so che è morto, pover’uomo. Era un giusto, un grand’uomo per la bontà. È morto, poveretto.
Giorgio pose la mano aperta sul petto.
— È ciò che si guadagna a servire i signori. Ti succiano il sangue fin che ne hai una goccia nelle vene e danno il carcame al loro cane.
— Volete dire forse del barone.... — soggiunse ridendo il cacciatore.
— Di lui e di tutti quanti: ma costui forse è peggiore degli altri. Mio zio non ha lasciata la croce d’uno scudo, dopo quaranta o cinquant’anni di utile servizio, e «u barone» spende sacchi d’oro colle sgualdrine. Ma guardate, dicono che ciò deve cangiare una volta....
— Allora siete proprio voi che siete venuto un giorno alla villa a prendere certe robe.
— Ci sono stato or sono quindici giorni.
— Io sono parente del parroco di Santafusca, son figlio di una sua sorella, — disse il cacciatore con piglio alla buona.
— Di don Antonio? un sant’uomo....
— E mi pare di avervi veduto passare in compagnia del segretario....
— Precisamente. Aveva lui le chiavi della stanza....
— Conoscevo anche il vostro povero zio. La sua morte mi ha riempito il cuore di lagrime! Il cacciatore disse tutto ciò con animo sincero.
— Siete del paese?
— Io sto presso Napoli e vengo spesso a Santafusca a caccia; ma si piglia niente quest’anno....
— È un anno povero davvero.
— E poichè siamo sul discorso, — soggiunse dopo un respiro il cacciatore, che pareva un uomo semplice e disinvolto, — non avete preso per caso insieme alle altre robe anche un cappello da prete?
— Sì, c’è.... — rispose Giorgio.
Il cacciatore aprì le gambe e le braccia e si abbandonò a una forte ilarità.
— Sì, c’è.... e perchè ridete ora?
L’altro non finiva mai di ridere, e contorcendosi sulla panca non potè frenarsi, se non quando ebbe presa la testa tra le due mani.
La gioia immensa, la profonda emozione che il cacciatore provò a quella scoperta, non si potrebbero troppo facilmente descrivere. Dopo tanti giorni di angoscie e di paure, egli stava per mettere le mani sul corpo del suo delitto e tutto ciò avveniva per l’aiuto di un sogno. Che cosa non avrebbe dato egli per quel cencio di cappello? ecco, ecco invece la sua fortuna che quasi glielo regalava gratis.... e tutto ciò avveniva per l’aiuto d’un sogno!
— Ora vi conterò, giovinotto, — soggiunse dopo un istante. — Don Antonio aveva dimenticato nella stanza del povero vostro zio il suo cappello, e non se ne ricordò che tre o quattro giorni dopo. È un sant’uomo che ha sempre il pensiero in paradiso. Ma quando se ne ricordò il cappello era scomparso. Il sant’uomo voleva disperarsi, perchè non ha che quello, ed è povero, sapete: darebbe ai poveri anche la camicia. Io ero presente quando venne il segretario; come si chiama il segretario?
— Jervolino.
— Precisamente, e disse che forse l’avevate preso voi colle altre robe....
— Davvero è ridicola come una commedia. Io non ci ho pensato, figuratevi. C’era tanto poco da portar via, che ho cacciato tutto nel sacco alla rinfusa.
— Don Antonio vi accuserà come ladro di cose sacre.
— Ladro io? avrei dovuto pensarci, ma l’ho fatto semplicemente....
— Voi capite che si celia. Ladro senza saperlo come Pulcinella al teatro di Sciosciammocca.
Il cacciatore versò il vino dalla mezzina e tracannò un buon bicchiere, che gli riempì l’anima di calore.
Se Giorgio non fosse stato duro di legno, avrebbe osservato che gli occhi del cacciatore scintillavano d’una luce viva e parlante.
— Voi meritate di andare a l’inferno per aver rubato al prete, — tornò a dire a costui, ridendo grosso e picchiando coi pugni sulla tavola.
— Dio mi scampi di perder l’anima per così poco. Ora lo vedrete questo bel cappello: è pelato come l’asino del nostro mugnaio. Io ho visto il cappello sulla sedia e ho pensato.... che cosa ho pensato? non so nemmeno io. Ma non è buono nemmeno per spaventare gli uccelli.... Ora ve lo faccio vedere....
Il cacciatore rimase solo.
Giorgio fe’ sonare gli zoccoli sopra una scaletta di legno, che si arrampicava dietro il muro. Li strascicò sull’impalcato sopra la testa del cacciatore, si arrestò, corse a frugare nel sacco.
Intanto il cacciatore, cogli occhi fissi all’impalcato sorrideva mostrando i denti e battendo le dita sul piattello. Egli stava per dare l’ultima mazzolata a prete Cirillo.
Quel sinistro uccellaccio avrebbe cessato di svolazzargli intorno? Rideva gelidamente, ma nello stesso tempo il cuore malato picchiava forte. Nel cappello era rimasto un brandello dell’anima del prete, e in fondo egli aveva paura d’incontrarsi anche in questo spauracchio.
*
Non avrebbe creduto mai d’essere uomo così vile. Ma forse lo siamo tutti così, giovani e vecchi, naviganti nel gran mare delle cose!
Gli zoccoli di Giorgio risonarono sull’impalcato, e scesero gravi sui gradini della scala di legno. Il cacciatore immobile e composto si puntellò colle braccia alla tavola. Finalmente Giorgio, per far la burletta del prete, cacciata la testa cogli occhi gonfi e col cappello in capo da un finestrino, che dava aria al sottoscala, con voce sguaiata, si mise a cantare «alleluja, alleluja».
Il cacciatore a quella vista grottesca trasalì e colla mano rovesciò la mezzina del vino. Per poco egli avrebbe urlato di spavento: ma l’oste venne fuori e cominciò a ridere del suo scherzo. Egli non immaginava il male che aveva fatto a un uomo già malato di palpitazione di cuore.
Passata la prima impressione, era per il cacciatore un’occasione troppo ghiotta, perchè potesse in quel momento pensare ancora al suo mal di cuore. Si sforzò dunque di ridere anche lui, di ridere, sì, mentre l’occhio affascinato e impaurito si fissava sul brutto cappellaccio sconquassato, che Giorgio gli aveva messo davanti sulla tavola.
Nessun fisiologo, nemmeno il celebre autore del «Trattato delle cose», potrebbe descrivere il nucleo di sensazioni che vibrarono intorno al cuore del barone Santafusca, nell’atto ch’egli stava per stendere la mano e impadronirsi dell’anima di prete Cirillo. In fondo a una battaglia buia ora un’acqua buia, profonda, piena di gioia amara e piena di spavento. Il cuore martellava ancora, ma erano le ultime sensazioni. Dopo sperava di ritrovare la pace, che deriva dalla coscienza della propria sicurezza.
— Ebbene, volete voi che io porti questo cappello a don Antonio? sarà per mio zio una grata sorpresa.
— Date a Cesare quel che è di Cesare, — disse Giorgio. — Voi mi sbarazzate la casa di un cattivo augurio.
Se ci sta nel carniere. Provate un po’....
— L’uccellaccio è grosso, ma schiacciandogli un poco le ali....
Quel goffo ragazzetto, che rideva nel gozzo, prese il cappello, lo schiacciò nelle mani e lo fece passare nel carniere. Il cacciatore lasciò fare, duro, quasi irrigidito tra la panca e la tavola.
— Ecco qua, ci son pochi cacciatori al mondo che prendono di queste lepri.
— Quanto costa il pane, il vino e il cacio?
— Dodici soldi, galantuomo: il cappello ve lo do per nulla e dite pure a don Antonio che mi assolva da tutti i miei peccati passati e futuri.
— Glielo dirò....
In quella entrarono in bottega due contadini, e Giorgio, pieno il cuore della sua avventura, si mise a raccontare subito la storia del cappello, mentre lo faceva saltare e ballare sulle mani.
Tutti risero del povero prete e dell’uccellaccio chiuso nel carniere.
Rise anche il cacciatore per essere in carattere, ma appena potè farlo senza dar sospetto, uscì, salutò i buoni amici e prese la sua strada, col carniere in ispalla, gli occhi fissi innanzi, nello spazio infinito, la testa piena di fumo. Il cuore era esultante e trionfante come chi sente d’essere sfuggito a un duro cimento di morte.
Camminava a passi lunghi, cadenzati, per la strada in discesa: e ad ogni passo il carniere che batteva nel fianco mandava un suono armonico di scatola vuota.
Quel suono richiamava un’altra impressione, sprofondata anch’essa nelle viscere più cieche della memoria.
Quell’urto sonoro e rotto di noci scosse, richiamava alla mente una sensazione somigliante....
Il cacciatore accelerava ancora di più il passo nella fiducia che tutto sarebbe scomparso quando fosse stato fuori della valle.
Camminava a cavallo, per dir così, della sua idea, non vedendo più in là del passo, e già pensava al modo di distruggere per sempre quell’orrida prova del suo delitto, cioè se doveva abbruciarlo, farlo a pezzetti, seppellirlo...., quand’ecco l’abbaiare improvviso di un cane, che uscì dietro a un casolare, e sorprendendolo in mezzo alle sue meditazioni, lo faceva trasalire in una maniera spaventosa: tanto che fatto un salto in mezzo alla via, si tirò come un ragazzo pauroso dietro un mucchio di sassi. Sul tetto del casolare stavano lavorando alcuni muratori, che vista la gran paura che il cacciatore aveva dei cani, cominciarono a ridere forte e a dargli la baia.
— Ehi, cacciatore di formiche, — diceva uno.
— Cacciatore di cicale, — soggiungeva un altro.
— Va a caccia dei cani e mena con sè la lepre.
— Ha la pelle d’un coniglio nel carniere.
Il furioso sangue dei Santafusca fu lì lì per traboccare, e veramente sarebbe stata poca vendetta per la sua rabbia una fucilata per ciascuno; ma era un giorno di pazienza e di espiazione. Avanti dunque.... La paura che gli aveva fatto quel maledetto cane col suo improvviso abbaiare era rimasta come un senso di acuta trafittura tra le costole a sinistra.
Dopo tre quarti d’ora di buon viaggio giunse in vista della stazione. Traversando un passaggio della strada ferrata, chiese al cantoniere se c’era molto tempo alla corsa per Napoli.
— Un’ora e mezzo, cacciatore, — disse l’uomo, che stava aggiustando uno scarpino di ragazzo seduto su un tronco presso il casello, da dove usciva la voce di una donna e il pianto d’un bimbo.
Un gran silenzio ed una gran pace regnava intorno a quella casupola, tuffata nel chiaror roseo del tramonto, in mezzo alla grande solitudine.
— Come sono felici questi pitocchi! — pensò l’ultimo dei Santafusca.
La schietta confidenza con cui Giorgio della Falda ed il casellante gli avevano parlato, credendolo uno dei loro, lo aveva avvicinato a un mondo che di solito egli guardava troppo dall’alto; voglio dire, al mondo dei bisogni semplici e degli affetti semplici della natura. Solo in questo terreno vergine cresce l’erba della felicità.
— Come sono felici questi pitocchi! — tornò a pensare, mettendosi a sedere sopra il parapetto di un ponticello, che traversava un torrentaccio, lontano cento passi dalla stazione.
Aveva un’ora e mezzo da far passare, e poichè il luogo era quasi disabitato, e nessuno lo conosceva, pensò se non era il momento di nascondere il maledetto cappello in qualche cespuglio, in modo da farne scomparire la traccia e l’ombra per sempre.
Tirato da questo pensiero, si lasciò condurre da un sentieruolo verso alcuni boschetti bassi di nocciuoli, che andavano a finire in una deserta sodaglia, di un aspetto squallido e vulcanico.
Pareva proprio il regno della morte. Non una casa, non un’anima viva per quanto girasse l’occhio intorno.
— Come sono felici questi pitocchi! — tornò a ripetere per la terza volta e quasi per una forza meccanica della glottide, mentre, l’occhio ed il pensiero andavano in cerca di una buca per seppellire ciò che sopravviveva di prete Cirillo.
Dopo aver gironzolato un pezzo, si pose a sedere sopra un mucchio di pomici, da cui uscivano poche ginestre e per la prima volta sentì una grande stanchezza alle gambe. Era stata una grande giornata, e un gran viaggio; ma la vittoria era sua.
E dire che questa visione gli era venuta in un sogno! Aveva dunque ragione prete Cirillo di credere ai sogni. Se non fosse stato ridicolo d’ammettere certe ubbìe, c’era quasi da pensare che il suo prete gli avesse in sogno suggerito il pensiero di andare alla Falda.
Non gli aveva promesso un giorno prete Cirillo di salvargli l’anima e il corpo? Le anime dei morti non conservano rancore, e se prete Cirillo poteva dal mondo di là tirare un’anima di questo mondo al porto della salute, perchè non l’avrebbe fatto? Anche lui, il prete, non era senza peccati e aveva bisogno forse di molto perdonare.
Che cosa sappiamo, in nome di Dio, delle cose di questo e dell’altro mondo?
In tutto ciò che era accaduto intorno a lui non era egli quasi trascinato per necessità a credere alla forza di una pietosa provvidenza, che conduce le cose con una precisione meravigliosa?
Il sole dalla linea bassa dell’orizzonte proiettava le ombre degli arbusti sul terreno arsiccio. Un gran cielo biancastro, troppo pieno di luce, ricopriva il vasto piano per cui si raggirava il nostro cacciatore in cerca di una buca. Ma non si trovavano buche già fatte, e quella sodaglia era troppo aperta, perchè un uomo potesse scavarne una senza dare sospetto a qualcheduno. C’era anche troppo cielo di sopra.
Visto un fossatello in cui stagnava ancora della vecchia acqua piovana, si abbassò con tutta la persona, trasse il carniere davanti, girò l’occhio intorno.... Ma non osò buttar via il carniere. L’ombra sua ingrandita dal sole cadente era un troppo noioso testimonio.
Quando si alzò, gli parve d’essere divenuto grande come un gigante, e temette quasi di dar la testa nella vôlta del cielo....
Allora pensò che era più sicuro andare a casa, rinchiudersi nella sua stanza, tagliuzzare e distruggere a poco a poco questa noiosa reliquia. Si rimise in cammino, tornò sulla strada, fino al casello, raggiunse la piccola stazione, e quando arrivò il treno, saltò in un vagone di terza classe, contento di viaggiare coi buoni figli del popolo, tra cui trovò chi gli parlò a lungo di cani, di beccacce e di allodole. Nella dimestichezza col popolo, egli perdeva di vista il barone, e sentiva nascere la compiacenza di essere un cacciatore come se ne danno tanti, reo soltanto d’aver ucciso della selvaggina; un buon uomo innocente insomma, che in un bicchier di vino e in una buona pipa mette tutto il problema dell’umana felicità.
Arrivò a Napoli ch’era già buio, e ripiegò verso i sobborghi coll’idea di giungere al mare in qualche sito deserto.
Più volte si arrestò preso dalla tentazione di lasciar cadere carniere e cappello in uno di quei tanti canali di scolo che escono dalle case del popolo; ma anche qui pensò che poteva essere ripescato dai ragazzi, che guazzano nelle fogne come le rane nel pantano.
Siccome «u prevete» aveva già creato intorno a sè una piccola leggenda, bisognava evitare qualunque segno che potesse guidare la curiosità della gente sulle traccie del delitto. Anche il cappello aveva oramai la sua piccola leggenda.
«U prevete» l’aveva pagato al cappellaio con un terno, che uscì tutto; ne aveva parlato tutta la città; tutti i giornali vi avevano ricamati sopra i loro commenti: l’oste del «Vesuvio» l’aveva portato alla Falda in un sacco, poi l’aveva dato a un cacciatore....
Alla Falda l’aneddoto del cappello doveva ora divertire i buoni avventori dell’osteria del «Vesuvio». Occorreva dunque la massima prudenza per non richiamare l’attenzione di nessuno su questo cencio mortuario che aveva in sè tanta forza di vita. Per Dio, pareva che lo spirito del prete vi si dibattesse dentro con impeti e convulsioni di uccellaccio agonizzante. Non l’avrebbe seppellito nemmeno nella sabbia del mare, dove vanno i ragazzi a cercare nicchi e coralli.
Non si poteva pensare nemmeno a bruciarlo.
Come si fa un falò in mezzo alla via? Per il diavolo! era stato meno difficile sbarazzarsi del prete.... «U barone» sentiva che la materia è dura, indistruttibile, mentre un uomo si spegne come a soffiare sopra una candela. Gli tornarono in mente molti aforismi del celebre dottor Panterre su questo argomento, mentre camminava nel buio, gesticolando come un forsennato, tra le ultime case dei pescatori lungo la marina.
La difficoltà dell’impresa, la stanchezza del viaggio, il tedio che gli dava quel cappellaccio co’ suoi impeti e col continuo battere sui fianchi in un rumore di noce fessa, tutto ciò misto alla paura delle ombre finì coll’irritare un uomo che nel buio, nel deserto, nella quiete profonda della notte sentiva troppo sè stesso.
E si sarebbe forse buttato in mezzo alla via affranto e nauseato, se, uscendo da un vicoletto, non si fosse trovato davanti tutto il mare, con una immensa spiaggia aperta e deserta, colla sua bell’onda grossa e sbuffante, che veniva faticosamente sul lido e qui si scioglieva fremendo sulla ghiaia in un lieto bisbiglio di spume.
A sinistra Napoli splendeva di mille lumi; nella notte mandava un ampio bagliore al cielo.
La notte era chiusa, senza vento, senza stelle, e pareva fatta per un delitto.
Dieci o dodici passi avanti c’era un piccolo promontorio di neri scogli e di ciottoli che si protendevano nell’acqua.
«U barone» fu guidato da una mano invisibile (alla quale cominciava a credere fin troppo) verso gli scogli, e vi trovò una barcaccia da pesca coi remi dentro, legata a un masso con una catena e riparata dai flutti. Non c’era intorno anima viva. Entrò nella barca, la sciolse, prese i remi, e pigliato il momento che l’onda torna indietro, con quattro colpi si trovò al largo, avvolto nelle fitte tenebre, solo, tra un mare nero e un cielo nero, dimenticato da tutti, diviso dalla morte da sole quattro assicelle tarlate.
Egli aveva data una grande battaglia alla natura, che inutilmente l’aveva fatto inseguire dai suoi fantasmi. Finalmente l’uomo forte e prudente l’aveva vinta!
Socchiudendo gli occhi, come se avesse paura di vedere un capo di morto, cacciò le mani nel carniere, sentì il suo cappello, lo trasse fuori, buttò il carniere nel fondo della barca, con una cinghia legò il cappello stretto stretto al fucile, e ridendo gelidamente nel buio, tuffò il fucile nell’acqua, fino alla bocca, compiacendosi di tenerlo un momento nel pugno per assaporare più lentamente il suo trionfo.... poi aprì la mano.
Il fucile e il cappello, precipitando senza rumore, si perdettero negli oscuri abissi del mare.
— Ecco fatto, prete! — disse a voce alta «u barone» ridestando un piccolo suono nascosto tra gli scogli. Pareva che il prete rispondesse: amen.
Un’ora dopo sotto un torrente di pioggia «u barone» rientrava in città. Andò a casa difilato, si spogliò degli abiti da cacciatore, si cacciò nel letto e si addormentò di un sonno greve e senza pensieri. Ne aveva bisogno. La giornata era stata lunga e piena di scosse. Si sentiva le ossa fracassate, l’anima affranta: e dormì profondamente sulla sua vittoria.
*
La mattina seguente, mentre sua eccellenza dormiva ancora profondamente sulla sua vittoria, i ragazzi strilloni correvano per le vie di Napoli a gridare coi foglietti in mano:
— «U cappiello du prevete».
— Grande scoperta, il cappello del prete.
— «U cappiello du prevete Cirillo».
— A un soldo il cappello del prete.
La gente, specialmente il popolino, comperava i foglietti, e innanzi agli acquaioli e ai caffeucci si formavano dei crocchi. Uno leggeva e gli altri ascoltavano, e tutti ripetevano poi la storia del cappello arrivato a Filippino dentro una scatola, con quella naturale immaginazione della gente fantastica, che quando trova un bel caso vero, cerca di consolarsi in qualche maniera del dispiacere di non averlo inventato.