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Gli parve un sogno non assurdo, per quanto si può credere ai sogni. Valeva la pena secondo lui di fare una gita lassù per vedere quanto di vero passa nei sogni.

Per non dare sospetto si vestì di un rozzo abito di cacciatore, si calcò in testa un cappellaccio molle, e con un carniere di pelle e il suo fucile ad armacollo, un giorno prese il treno, e scese alla stazione più vicina alla Falda.

Passo passo nella frescura mattutina cominciò a salire il colle, zufolando, col cuore aperto a una mezza speranza.

Che cosa non avrebbe dato per quel cencio di cappello? Che cosa c’è di più caro e di più prezioso della quiete dei nervi? Meglio morti, come prete Cirillo, che vivere all’ombra di quel cappello!

L’osteria del «Vesuvio», colla sua vecchia insegna color pomodoro, si trovava sulla strada grossa che sale verso i monti, in un luogo segregato, presso un bosco di platani, che serviva di riposo e di ristoro ai carrettieri e agli asinai.

Non era un albergo degno di nobili inglesi, ma vi si trovava un vino fresco, del vecchio caciocavallo, del tabacco e anche un’insalata preparata, condita e voltata dalle grosse dita di Giorgio.

Era costui un giovanotto grosso e tarchiato, tondo di capo e di cervello, buon figliuolo in fondo, sempre disposto a far un buon servizio a un