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Allora pensò che era più sicuro andare a casa, rinchiudersi nella sua stanza, tagliuzzare e distruggere a poco a poco questa noiosa reliquia. Si rimise in cammino, tornò sulla strada, fino al casello, raggiunse la piccola stazione, e quando arrivò il treno, saltò in un vagone di terza classe, contento di viaggiare coi buoni figli del popolo, tra cui trovò chi gli parlò a lungo di cani, di beccacce e di allodole. Nella dimestichezza col popolo, egli perdeva di vista il barone, e sentiva nascere la compiacenza di essere un cacciatore come se ne danno tanti, reo soltanto d’aver ucciso della selvaggina; un buon uomo innocente insomma, che in un bicchier di vino e in una buona pipa mette tutto il problema dell’umana felicità.
Arrivò a Napoli ch’era già buio, e ripiegò verso i sobborghi coll’idea di giungere al mare in qualche sito deserto.
Più volte si arrestò preso dalla tentazione di lasciar cadere carniere e cappello in uno di quei tanti canali di scolo che escono dalle case del popolo; ma anche qui pensò che poteva essere ripescato dai ragazzi, che guazzano nelle fogne come le rane nel pantano.
Siccome «u prevete» aveva già creato intorno a sè una piccola leggenda, bisognava evitare qualunque segno che potesse guidare la curiosità della gente sulle traccie del delitto. Anche il cappello aveva oramai la sua piccola leggenda.
«U prevete» l’aveva pagato al cappellaio con