Il bel paese (1876)/Serata V. - Il passo dello Zebrù

Serata V. - Il passo dello Zebrù

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Serata V. - Il passo dello Zebrù
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SERATA V


Il passo dello Zebrù.

Un giorno di neve a Milano, 1. — La levata in montagna, 2. — Un cucchiajo ed un po’ di filosofia, 3. — Un’impresa fallita, 4. — Nuova crisi e nuova ritirata, 5. — Nuovi apparecchi, 6. — La valle dello Zebrù, 7. — Oscillazioni annuali dei ghiacciai, 8. — Una salita assai malagevole, 9. — Il Passo dello Zebrù è superato, 10.


1. Era una di quelle giornate di dicembre, in cui si direbbe che si solennizzi il vero ingresso trionfale, definitivo, dell’inverno, con una immensa parata di neve. Chi si era desto avanti giorno aveva sentito battere sordamente le ore dalla vicina torre, quasi la campana fosse coperta d’un panno, o il battacchio rivestito di ovatta. Chi è solito ad aspettare il giorno fra le coltri, ne aveva visto la luce distendersi sulle pareti d’una bianchezza insolita. Chi aveva messo il muso fuori, l’aveva ritirato gridando: «Bah! che bella farinata!» Chi finalmente quella mattina si fosse pigliato l’eroico divertimento di salire sul Duomo, avrebbe veduti i tetti, le strade, le mura, le campagne al di fuori, l’immenso piano, i colli, le Prealpi1, le Alpi, se erano visibili, tutto d’un sol colore. Dico — se erano visibili — ; poichè, quando io mi affacciai alla finestra, la veniva giù ancora a larghe falde, che le parevano cialdoni o agnellotti.

Questa prima solennità invernale ha sempre un non so che di gajo; qualche cosa almeno di nuovo, di eccitante, di poetico, principalmente in città, a dispetto di tante brutte cose, di cui per molti è pur troppo foriera. Non sempre ogni anno, nè colla stessa [p. 79 modifica]pompa la si celebra da noi. Talvolta la così detta estate di San Martino2 si prolunga talmente, che la neve non viene se non quando l’inverno è già molto innanzi. Spesso la neve arriva colla pioggia e ci dà lo spettacolo di un uggioso pantano universale. Altre volte poi la neve è piuttosto un saluto dell’inverno che parte; o anche la si passa liscia così, che un forastiero andrebbe poi a dire a casa sua che a Milano non nevica mai. Ma quando quella solennità si celebra, come vi ho detto, oh! l’è bella, l’è deliziosa.... Affacciandovi alla finestra, voi vedete (ove almeno la prosastica pala del municipio non previene il giorno) vedete il suolo tutto istoriato, tutto coperto di orme che vanno sempre più scomparendo sotto nuovi strati di neve i quali sono immediatamente stampati di nuove impronte. Oh, se potessero conservarsi quegli strati, quante cose vi direbbero! Quante cose infatti non si possono leggere su quelle pedate d’uomini, di donne, di bambini alternate in serie a zig-zag sopra altrettante linee, che corrono parallele, o si scontrano, s’incrociano, si scostano, si ravvicinano, come i pensieri che guidarono i passi di quella gente mattiniera! È una vera pagina geologica, come quelle di pietra sulle quali leggiamo, nelle impronte fossili degli uccelli, dei rettili, e fin delle pioggie, gli avvenimenti di un giorno che splendeva mille e mille anni or sono. Gli alberi sono carichi di candido fogliame e di fiori cristallini. I tetti sembrano coperti d’uno strato di soffice bambagia; i fumajoli, mezzo sepolti, soffiano, come altrettante bocche, da una gran barba bianca. I nostri uomini grandi, viventi nei marmi scolpiti o nei bronzi fusi, coperti di grotteschi abbigliamenti, fan tali visacci da muover a invidia la befana. Il passero pigola tra le frondi di un sempre verde, o fa capolino dalla vôlta [p. 80 modifica]di un tegolo, rannicchiato, irsuto come un riccio. Poveri passeri! li vedete, fatti dalla necessità doppiamente domestici, spiccarsi tratto tratto da comignoli, venire a stormi dalla campagna tutta coperta, svolazzarvi fra le gambe, cercando il becchime, ove siavi appena uno spazio scoperto, anche a rischio d’incappare ne’ laccioli, che i monelli non lasciano di tendere, approfittando della miseria che rende que’ tapini necessariamente incauti e fiduciosi. Vedete intanto quella pietosa bambina che sbriciola agli affamati passerelli il panino della sua colazione; tanto che sempre, e in ogni luogo, in questo mondo così brutto e così bello, v’ha chi si assottiglia per sollevare l’altrui povertà, e chi dell’altrui miseria ingrassa.

I bambini che vanno alla scuola escono freddolosi, intirizziti; i più piccoli portati in braccio da robusti Chironi3; i più grandi raccolti, a due, a tre, sotto certi ombrelloni, che pajono camminare da sè, radendo terra. Degli uomini, chi corre, quasi volesse schivar la neve, sgusciando tra falda e falda; chi tocca via tranquillo e non curante, lasciandola cadere, come si suol dire, alla moda degli antichi Romani. In genere però tutti hanno una grande smania di correre; tutti sono più affaccendati del solito, e tiran dritto intabarrati, incappottati, incappucciati, inciarpati, senza salutare, senza guardare, anche a rischio di scontri e di eclissi fra muso e muso. Non così quel vispo ragazzino, che si diverte a scavalcare di un salto, l’un dopo l’altro, i mucchi di neve, allineati dagli scopatori sui due lati della via. Quell’altro è un celebre fabbricatore di pallottole e ne fa bersaglio, se così gli talenta, il dorso di qualche mal capitato passaggero. Eserciti di contadini vengono dalla campagna a spalare la neve cittadina, lieti che essa prepari loro una grassa giornata in una stagione, in cui sogliono farsi così magre. I carri, i cavalli, sono coperti di neve; i condottieri biancheggiano, anzi tempo canuti, o per la neve che li ricopre, o per una bella fioritura di brina, che si va sviluppando sulle barbe, sui capelli, come una crittogama.... E la viene, e la viene, giù, giù, che ad ogni istante e’ pare che si rifaccia da capo. E guardando su in alto, tu vedi, un bel pezzo prima, quella che arriverà un bel pezzo [p. 81 modifica]dopo. Un visibilio di piume svolazzanti, indi più in alto un nugolio di più fitta peluria, quasi il cielo si spennacchi. Tu adocchi quella falda più majuscola delle altre, soffice, piumosa, che discende grave grave, lentamente rotando intorno a se stessa e lasciando che mille altre la sorpassino più veloci e più turbinose. Eccola.... si piega bruscamente, risospinta da una folata di vento.... aleggia come bianca farfalla.... e torna a discendere giù giù.... è presso terra.... ma no.... ella sosta; oscilla sospesa a dritta e a sinistra, incerta, schifiltosa, quasi cerchi di schivare il sudicio. Ma eccola finalmente che posa, e scompare, dileguandosi nell’universale candore, lasciandoti libero di risalire collo sguardo ad adocchiare un’altra falda, d’accompagnarla al suo destino, e di startene così, se ti aggrada, dei buoni quarti d’ora seriamente occupato a contemplare la neve.

— Oh! come è bello! — grida quel fanciullino, guardando attraverso agli umidi cristalli di un salotto, ove soffia ben nudrita una stufa.

— Oh! come è bello! — esclama quella signorina, che si diverte a guardare, seduta sopra una morbida sedia, davanti a un tavolino elegante, posando i piedini delicati sopra la stufetta di lucido ottone, ripiena di acqua bollente. Intanto passa un povero pezzente, i cui abiti logori non conoscono stagione, tutto raggricchiato, a mo’ di testuggine, o di porco spino, quasi volesse sottrarre al freddo esterno quanto più può della superficie di se stesso. Intanto passa la curva vecchierella, che si raccoglie al seno lo scialle scolorito e ragnato, studiando angosciosamente ogni passo per tema di sdrucciolare.

Io mi ero rimasto tutto il giorno incantucciato, affacciandomi di tanto in tanto alla finestra per guardare la neve, finchè, venuta la sera, sentii il bisogno di respirare un po’ d’aria. Memore d’altronde d’essere aspettato, benchè la venisse giù ancora alla distesa, indossato il paletò, fasciatomi il collo con una sciarpa di lana, e messo il cappello in testa, uscii di casa. La neve scricchiolava sotto a’ miei passi in sulla via, e falde di neve venivano spesso a riposarmisi per un istante sul naso, unica parte la quale, essendo prominente, spuntava, come un bottone vermiglio fuori della buccia, per disotto l’ala del cappello e per disopra alla sciarpa. Giunto all’usato convegno, dovetti scuotermi la neve d’addosso, fra le allegre risate degli intervenuti, ciascuno dei quali aveva fatto alla sua volta lo stesso. Tutta gente, s’intende, che non hanno carrozza. [p. 82 modifica]

2. «Ora sì», saltò su a dire la mamma Rosa «dovrebbe essere bello trovarsi lassù con questo fresco in mezzo a quelle montagne, in faccia a quel ghiacciajo».

«State certi», risposi «che per godere di questi spettacoli non fa bisogno di trovarsi lassù nè in dicembre, nè in gennajo. Se vi accadrà di trovarvi sull’Alpi anche nel cuore dell’estate, non sarà difficile che vi sia concesso di assaggiare il freddo e la neve, come qui nel cuore dell’inverno. Mi ricordo d’essermi trovato il giorno 15 agosto sul giogo dello Stelvio, e la neve cadeva così fitta come stasera. Del resto se volete che io continui la narrazione interrotta l’altra sera, non avrò a parlarvi che di freddo e di neve».

«Sì, sì», gridarono i ragazzi; «continua, continua».

«E dove siamo rimasti?».

«Dormivi in quella capanna, là in quel cassone....» rispose Giannina.

«Dormiva.... cioè.... Basta, se ho dormito, il muoversi de’ montanari mi ha svegliato assai presto.

» La mattina è molto precoce in montagna. Il montanaro si sveglia quando il cittadino si addormenta. Parlo però soltanto di quella classe di cittadini che ha il privilegio di nulla fare e di tutto godere, salvo della soddisfazione di sentirsi uomo, ed utile agli uomini. L’alba, attesa sovra un poggio rugiadoso, allo spirar della brezza mattutina, all’impallidire delle stelle, ha dei segreti portentosi per l’igiene del corpo e dell’anima. Ma noi non fummo sì fortunati da veder le sue rose sparse sugli eterni candori delle vette nevose. Il cielo era ancora torbido; l’aria umida e fredda.... una brutta mattina. — Che ne dite di questo tempo? — domandammo al più vecchio dei nostri ospiti? — Possiamo avventurarci al passaggio dello Zebrù? —

» Gli alpigiani, come i marinari e come tutta la gente che è di continuo alle prese coi venti e colle tempeste, posseggono da lunghi secoli, non dirò già i portentosi segreti del Pescatore di Chiaravalle, ma i rudimenti di una vera scienza che, se, non formerà la gloria del decimonono, lo sarà certo del ventesimo secolo. Il montanaro strinse le labbra e girò lo sguardo dapprima verso oriente. Apparivano di quei chiarori menzogneri, di quelle radure tra il nuvolo e il sereno che ingannano i malpratici. Lo fissò poscia tra occidente e mezzodì, ove si disegnava dall’andamento delle catene dei monti lo sfondo della Valtellina, quasi un sipario tutto bigio in fondo alle scene. Il cielo, stagnava con nero ingorgo di nubi. Cattivo segno! Tuttavia, siccome una cosa [p. 83 modifica]spiacevole si predice mal volontieri, il montanaro, accorciando il collo e ritirando la testa quasi per metà entro le spalle contratte,

Come face le corna la lumaccia4;

ci disse: — mah!... pare.... forse più tardi.... — Quando s’è in ballo bisogna ballare, e noi non avemmo il coraggio di dare una mentita ad un proverbio che traduce tante volte così bene l’inesorabile fato degli antichi. Del resto il prevosto di Val-Furva non era uomo da darla vinta così presto.

3. » Nel congedarci dai nostri ospiti ebbe luogo un aneddoto che merita di essere raccontato perchè assai caratteristico. Fra gli utensili della casa, che tutti sarebbero altrettante meraviglie all’occhio del cittadino, avevano a sè attirato in particolare la nostra attenzione i cucchiai. Erano naturalmente di legno; ma perfettamente rotondi, coperti da una vernice certamente d’ottima qualità se resisteva alla temperatura dell’acqua bollente. Adorni di fiori, dipintivi a vivacissimi colori sul fondo, costituivano un vero capolavoro, tale che uno de’ miei compagni se ne invaghì, nè volle partire senza recare seco un saggio così singolare dell’arte alpina, per farne pompa alla città. Chiestane licenza agli ospiti, scelse il più bello; e, siccome il prezzo venne rimesso all’arbitrio dell’acquirente, il contratto fu presto stipulato e il cucchiajo, come roba di buon acquisto, già passava dal tagliere del montanaro al sacco del viaggiatore. Ma ohibò! Nessuno aveva badato al pacchierotto che la sera precedente teneva d’occhio la pentola. Egli al contrario aveva pigliato il più grande interesse al contratto, non uscendo dalla sua ordinaria impassibilità finchè non fu designata la vittima. Ma quando la mano inesorabile cadde sul cucchiajo, colpevole d’essere il più bello, la rubiconda faccia del montanarino si fe’ doppiamente rossa, si corrugò, gonfiossi con indicibile spasimodia, e ne uscì tale uno scoppio di pianto da cavarti le viscere. Che c’è, che c’è?... Noi non sapevamo raccapezzarci; strappare un motto al bambino era cosa impossibile. Ma ben lo comprese la mamma, la quale ci disse un po’ mortificata: — è il suo....».

«Piangere per un cucchiajo di legno!» sclamarono i miei nipotini, ridendo sgangheratamente.

«Voi ridete, miei cari; ed in vero non seppi io pure trattenermi dal ridere di quel curioso incidente. Ma, riflettendo, dissi [p. 84 modifica]tra me: ecco come il valore delle cose materiali è tutto relativo. Quel bimbo metteva in quel cucchiajo di legno quell’affetto e vi trovava quella soddisfazione, che tanti bambini cercano a fatica nei costosi balocchi e nei dorati astucci, tanti uomini nei cocchi sfarzosi, nelle splendide ville, e tante donne nelle fulgide collane e nei serti gemmati. Accrescete il numero e il valore degli oggetti posseduti, e avrete forse aumentata la cupidigia, non la soddisfazione. Un cucchiajo di legno, per rapporto alla felicità, val dunque tanto, quanto tutti i tesori della terra. La felicità non cresce dunque in proporzione dell’avere. Il sapere e la virtù, non le ricchezze materiali, sono le vere fonti della felicità: e questa naturalmente tanto più aumenta, quanto quelle sgorgano più copiose. Nel pianto di quel bambino c’era poi anche un sentimento di giustizia; per lo meno quello del diritto: sentimento in lui molto soggettivo, cioè, se volete, un po’ egoista; ma infine rispettabile. Che cos’era questo mercanteggiare la roba sua senza il suo assenso?...».

«Ma infine glielo avete restituito il famoso cucchiajo?» chiese la Chiara, curiosa dell’esito del dramma e un po’ annojata della predica.

«Infine», risposi io «per la ragione stessa che le cose in questo mondo hanno un valore relativo, una bella moneta, fattagli luccicare sul viso, cambiò quel pianto naturalissimo, in riso non men naturale, e tutto s’accomodò con piena soddisfazione delle parti. Ma accingiamoci al gran viaggio.

4. » Ci infilammo l’uno dietro l’altro sopra un sentiero che ascendeva dolcemente, secondando la curva della catena che ci separava dalla valle dello Zebrù. Non s’era fatto però mezz’ora di strada, che minuti pulviscoli di neve cominciavano a cadere. — Oh! non è nulla. È la bruna alpina.... succede sovente così anche quando fa bello.... — Io però, a dir vero, non la pensava così. Anzi tutto, quale diletto c’era egli nel viaggiare tra vette nascoste nelle nubi, in una valle nebbiosa, tra la morta natura? E poi era egli prudente, con un tempo così minaccioso, l’arrischiarci senza guida ad un passaggio alpino difeso da ignoti ghiacciai? Ma che volete? gli uomini d’ordinario preferiscono di esser costretti dalla forza, piuttosto che di venir condotti dalla ragione, a rinunciare ai loro progetti. D’altronde l’amor proprio ci aveva la sua parte. E qui devo per mia scusa prevenirvi, come io avessi anche l’anno precedente tentato quel passo con parte della stessa comitiva e con altri compagni. Anche allora il tempo era piovoso, e invano [p. 85 modifica]avevam cercato una guida. Il passo dello Zebrù è ben poca cosa, se si confronta colle salite al monte Bianco, al monte Rosa e via discorrendo. Tuttavia, se il monte Bianco è a 4812 metri sul livello del mare, il monte Cristallo che torreggia sullo Zebrù è a 4402 metri; ed i famosi passi del Grimsel, della Furca, ecc., non hanno che 2176 metri il primo, e 2411 metri il secondo; mentre il passo dello Zebrù, non mai sgombro di nevi, parmi non possa vantar meno di 3000 metri; qualche centinajo più del passo dello Stelvio che ne ha 2815. Del resto il numero e la perizia delle guide così bene organizzate ed esercitate nella Svizzera hanno contribuito assai a rendere agevole e sicuro ai viaggiatori l’esito di quelle sempre ardite intraprese. Qui invece il viaggiatore, almeno in allora, si trovava solo, abbandonato a se stesso; e la maggiore facilità dell’impresa non è sempre un compenso proporzionato al suo isolamento ed alla sua imperizia dei luoghi. Una imprudenza può essere troppo severamente punita. La catastrofe del Cervino non era ancora successa; ma appena l’anno precedente due viaggiatori inglesi, venuti dai ghiacciai della Bernina, discendevano soli verso i monti di Poschiavo. Non so come, l’uno di essi precipitò miseramente in un burrone, rimanendo sospeso tra due massi orribilmente malconcio. Io mi trovava appunto colà, e quando ne partii, si nutriva ancora poca speranza di salvarlo. Non so che ne avvenne; ma certo la fu una lezione di prudenza pagata assai cara. Tuttavia nella nostra gita allo Zebrù dell’anno precedente, avevamo già raggiunta la vetta; il nostro sguardo già si sprofondava nella valle dello Zebrù; ma un piano di neve ghiacciata, tutto unito, con un pendio assai ripido, si distendeva sotto ai nostri piedi. Uno della comitiva, che per la prima volta si trovava in vetta ad un ghiacciajo, non seppe vincere la ripugnanza a cimentarsi su quel piano inclinato, sembrandogli che ad ogni piè sospinto dovesse sdrucciolare in fondo all’abisso. Quando pure la ragione avesse voluto ripigliare il suo impero; le gambe, in preda a un tremito convulso, rifiutavano il loro servizio. In queste occasioni la vittoria è del più debole, e si preferì di rinunciare per allora al passaggio, ingannando la sconfitta col ritornare per altra via a Bormio, d’onde eravamo partiti il giorno innanzi. Uno però della nostra comitiva non seppe punto adattarsi a rinunciare al pallio, quand’era già si presso la meta. Fu questi l’illustre nostro botanico sacerdote Martino Anzi, il primo io credo (ad eccezione di qualche pastore o cacciatore delle Alpi) che abbia passato lo Zebrù, raggiungendoci a [p. 86 modifica]Bormio a notte molto innoltrata. Per buona ventura il tempo s’era tenuto tranquillo; dovette però confessarmi d’aver avuto a lottare contro inattese difficoltà.

5. » Vedete dunque, o miei cari, come io avessi, oso dire, un’onta da lavare, e perciò vi dicevo che l’amor proprio ci giocava la sua parte nello spingerci avanti, l’anno seguente, benchè la giornata fosse tutt’altro che propizia.

» Avevamo camminato già forse due ore, e i pulviscoli di neve, anzi che cessare, si facevano più grossi e fitti e ormai erano fra loro d’accordo a formare una vera nevicata. Il sentiero si smarriva in una landa che formava il fondo della valle la quale saliva con lieve pendio fino ai lembi dei ghiacciai che discendono dal Passo Martello, il quale mette in comunicazione la Val-Furva colla Val-Martello nel Tirolo. La giogaja dello Zebrù ci stava ritta sulla sinistra. Perduta ogni traccia di sentiero, bisogna pigliar di mira il calle, ossia il punto ove si apre il passo, e attendere a guadagnar terreno, salendo come par meglio. Ma chi ha viaggiato alquanto sui monti, sa che le nubi ne sfigurano singolarmente le vette sicchè è facilissimo ingannarsi. Lo Zebrù inoltre, veduto dalla Val-Furva, offre apparentemente diversi calli; sicchè nacque tra i membri della comitiva una controversia su quello da scegliersi. Ciò doveva naturalmente sfiduciarci non poco. Secondo l’avviso prevalente si sale, si sale, e il calle appare omai vicino. Restava solo da attraversare una dirotta frana, quindi una vedretta5 cioè un pendio coperto di ghiaccio, ma non grande abbastanza per meritare il nome di ghiacciajo. Si imprende dunque a salire per la frana. Era essa composta di un indigesto sfasciume di massi d’ogni forma e d’ogni dimensione, angolosi, acuti, malfermi, che rendevano assai malagevole il cammino. A gran stento siam giunti al lembo della vedretta; ma il prevosto che, come sempre, ci precedeva, grida che è impossibile l’attraversarla çolà; poichè, diceva egli, il pendio troppo scosceso, ed il sottile strato [p. 87 modifica]di neve fresca che copriva il ghiaccio compatto e liscio come il vetro, rendeva quel passo troppo traditore. Mentre parlava, appoggiò l’orazion sua con un tremendo rovescione a capo indietro, argomento di fatto troppo convincente, ma ch’io volli ribadire con un altro rovescione per mio conto, senza aspettare nemmeno la perorazione. Che fare? discendere difilati, seguendo il ripidissimo pendio, per quella stessa frana per la quale eravam saliti lentamente seguendo una linea trasversale. Ma se il salire era stato malagevole, il discendere era un eculeo tormentoso, e non scevro da pericolo. Ora un largo masso ci si frapponeva, e bisognava sdrucciolar giù, abbandonandosi sul dorso; ora uno spigolo acuto minacciava di forarci un piede o di lacerarci una tibia. Tutto in quel punto sembrò congiurare contro di noi. Levossi un vento furioso; la neve granulosa, fitta, cacciata dal vento, ci feriva in linea quasi perfettamente orizzontale: una vera tormenta, quella che forma il terrore delle Alpi. In un attimo la neve si appiccicava ai nostri abiti, dalla parte esposta al nembo, e li copriva letteralmente quasi di una crosta di ghiaccio: la mano irrigidita a mala pena stringeva il bastone. Il peggio era poi che la neve turbinosa aveva in un istante coperta la frana, incrostati i massi, occupati gli intervalli; lo sdrucciolare si rendeva continuo e veramente pericoloso. Mentre eravam tutti impegnati in questa manovra di nuovo genere, udiamo il rumore come di una solenne sdrucciolata: il nostro portatore, che noi chiamavamo per abitudine nostra guida, benchè si tenesse d’ordinario alla retroguardia, era caduto; la destra gamba s’era sprofondata in una buca, mentre la sinistra era rimasta in aria; la gerla ben approvigionata si era rovesciata e, a guisa di corno d’abbondanza, versava bottiglie, pani, cartocci che rotolavan giù per la frana. Si dovette accorrere a liberare il povero inforcato che in quella positura così poco accademica, imprigionate le braccia nelle cinghie della gerla, non c’era modo che si potesse ajutare da sè. Quella scena tragicomica ci tolse ogni fiducia. Giunti a stento di nuovo sotto la vedretta, dove presentava un pendio più accessibile, sostammo a pigliar fiato e a fare un po’ di consiglio di guerra. Levando gli occhi alla vetta, cui avremmo raggiunta in men di mezz’ora, essa ci presentò, prima non visto, uno spettacolo terribile e sorprendente che rimarrà sempre vivo nella mia fantasia. L’avresti detta in preda a un vasto incendio, quasi ad una eruzione vulcanica. Colonne di neve pulverulenta, a guisa di nembi vorticosi di polvere o di fumo, si alzavano [p. 88 modifica]sperdendosi nell’aria colla rapidità del baleno, e riproducendosi le mille volte colla stessa rapidità. Il vento, benchè per contraccolpo ci ferisse da tutti i lati, e preferibilmente sulla nostra destra, cioè da oriente, partiva visibilmente da un punto tra occidente e tramontana, imboccava la stretta valle dello Zebrù sollevandovi le nevi farinose di cui son rivestite le alture, e le versava a nembi nella valle dove eravamo noi. Ce n’era di troppo per convincerci che era temerità il tentare un passaggio che ci gettava nel cuore del turbine, in passi certamente difficili, e per noi inesplorati. Il consiglio di guerra decise la ritirata. Anche il nostro generale in capo dovette chinare il capo al consiglio di guerra.

6. » A vederci mogi mogi volger le spalle in luogo della fronte allo Zebrù, che dietro rizzavasi in atteggiamento di terribile nemico, la era una scena da ridere e da piangere insieme. Eppure, da bravi soldati, avevamo la coscienza d’aver fatto il nostro dovere. Ma è così facile fare il bravo fuori del tiro del cannone!... Chi avrebbe creduto che noi avessimo ceduto soltanto a forza maggiore? Quelli che stavan giù tranquilli a centellarsi in panciolle le acque di Santa Caterina avrebber eglino voluto, non foss’altro che per ingannare la noja, sacrificare un’occasione così bella di ridere alle nostre spalle? Anche il più gran generale, se tocca una sconfitta, ha torto irremissibilmente. Bisognava rassegnarci per forza beccandoci intanto anche un pochino tra noi, come i capponi di Renzo: poichè, in simili circostanze, se nessuno ha il torto, alcuno deve averlo; e se l’hanno tutti (sono i due casi più ordinari), uno deve averne di più; tanto che, se le cose vanno male, una vittima la ci vuol sempre; e come nessuno si rassegna ad esserlo degli altri, tutti lo divengono di ciascuno, e ciascuno di tutti.

» In pochi salti, guadagnato il fondo della valle, eccoci già fuori di combattimento. La battaglia era tutta sulle alture. Mutoli ricalcammo, con che cuore!... le nostre orme e giù giù in poche ore fino a Santa Caterina, pronti, come avevam patito il danno, a portarci le beffe. Ma sia lode al vero! Trovammo i signori beventi assai discreti, più che discreti; i nostri amici erano anzi in pena per noi, e furono lieti di rivederci. Dal piano di Santa Caterina, guardando in su, avevano potuto scorgere la lotta degli elementi sulle vette delle Alpi, e provarne anche l’effetto. Infatti, il freddo ridesto all’improvviso anche laggiù, li aveva già tutti rintanati nello Stabilimento. Quando vi [p. 89 modifica]giungemmo, la tempesta infuriava ancora sulle alture; si vedevano ancora neri nuvoloni, da cui staccavansi nembi di neve, inseguirsi sulle Alpi, venendo da occidente; nessuno pertanto durava fatica a prestar fede ai particolari della triste giornata.

» A dritto o a torto era però sempre una battaglia perduta. La bandiera del geologo e dell’alpinista aveva piegato in faccia al nemico. No, non si dirà mai che noi non fummo capaci di passare lo Zebrù! in ciò ci trovammo tutti d’accordo; il passaggio va ritentato! E quando?... Domani!... assolutamente domani!... se il tempo è bello, domani!... — Anzi la nostra narrativa, invece di avvilire gli astanti, accrebbe il numero dei campioni, pronti a rinnovare all’indomani l’assalto. Si credette soltanto di modificarne il piano; in questo senso che, invece di tentare gli approcci allo Zebrù dal lato d’oriente, si dovesse spingerli dal lato d’occidente: in luogo cioè di ascendere per la Val-Furva e discendere per la valle dello Zebrù, dovevasi per questa ascendere e discendere per quella. Ciò per due motivi; primo perchè, nel caso che il passo si mostrasse ancora impraticabile, avevam sempre il vantaggio d’aver esplorata la valle dello Zebrù; secondo perchè, in qualunque modo avessimo potuto guadagnare la vetta, eravam già sicuri della discesa, conoscendone già assai bene la via come praticabile d’estate anche col tempo sfavorevole. Nuove allegrie, nuovi approvvigionamenti, quindi a letto; lasciando al cielo la cura di rasserenarsi, se così piaceva a Colui che comanda sopra le nubi.

7. » Non spuntava ancor l’alba che la compagnia era pronta. Il cielo si andava rasserenando ed alla pioggia era succeduto il vento. La comitiva, divenuta più numerosa, era quindi più lieta.

» Per guadagnar tempo, una specie di omnibus ci conduce a Sant’Antonio dove lo Zebrù mette foce nel Frodolfo. Si ascende il pendio coperto di colti e di casolari, e in poco d’ora siamo all’ingresso della valle. La valle dello Zebrù è stretta, selvaggia, infossata tra due catene di montagne. Quella che la fiancheggia alla destra non è che un’enorme scogliera, una parete verticale di nude calcaree, su cui a mala pena cresce uno sterpo. Alla sinistra i monti sono un po’ più mossi, più docili, abbastanza ricchi di vegetazione; ma in complesso la valle riesce poco pittoresca e assai monotona, fino al fondo, dove improvvisamente la salita si fa ripida, e la scena si cambia intieramente. Là vi porto immediatamente a risparmio di noje.

» La valle, sempre angusta, là sembra chiudersi [p. 90 modifica]improvvisamente. Una rupe, facendo di contrafforte alle montagne sulla sinistra, ove noi camminavamo, si spinge fin quasi a toccare quelle sulla destra, in guisa che il torrente è stretto in una forra d’onde sbuca ch’è tutto una spuma. Fa d’uopo girare attorno a quella prima rupe, quindi ad altre, finchè ci si apre allo sguardo un capace bacino, quasi in forma d’imbuto, circondato da rupi inaccesse, da vette biancheggianti di neve, d’onde discendono i ghiacciai a imponenti frastagli, che fan corona al bacino, versandovi ciascuno un torrente. Nessuno di essi però arriva fino al fondo; nemmeno il principale, il primo che s’incontra sulla sinistra. Esso però scende sì basso, e ci si attraversa sulla via di tal guisa, che è necessario o slanciarsi d’un salto oltre il torrente che ne sbocca, rigonfio dal più bel sole del pomeriggio, o attraversare lo stesso ghiacciajo, che offre una pendenza bastante per incutere qualche timore. I più destri slanciarono il salto, e furon di là; altri, ed io tra questi, attraversarono il ghiacciajo. Scavalcando in seguito un certo numero di incomposte morene, ci portammo sulla destra della valle affatto sgombra di ghiaccio, dove comincia l’aspra salita che doveva condurci alla vetta la quale ci stava già di fronte. Si camminava assai a disagio e sempre sopra cumuli incoerenti di macerie, quasi sopra un piccolo caos di massi d’ogni dimensione e d’ogni forma che al mio occhio rappresentava il sistema delle morene invernali».

8. Qui naturalmente i miei uditori vollero sapere che cosa fossero le morene invernali. «I ghiacciai sono soggetti a sensibili oscillazioni; ora si avanzano, guadagnando terreno, ora si arretrano o sembrano arretrarsi. Prescindendo dalle grandi oscillazioni per cui essi, in epoca assai lontana da noi discesero dalle valli alpine, colmarono i nostri laghi, coprirono le nostre colline, ed invasero fino una parte delle nostre pianure, coperte allora dal mare, per ritirarsi quindi entro i loro attuali recessi....».

«Oh! oh!» esclamarono in coro i nipoti in atto di assoluta incredulità.

«Zitti, miei cari. Mi dilungherei troppo, quando volessi dimostrarvi quanto asserisco. Per ora credetelo a me, chè non voglio dirvi una bugia. Prescindendo adunque da quelle grandi oscillazioni a cui andarono soggetti i ghiacciai in tempi preistorici, e da altre considerevoli che ebbero luogo in tempi storici, sensibili oscillazioni corrispondono invariabilmente alle stagioni. D’inverno, non essendovi disgelo od essendovene ben poco, il ghiacciajo si ingrossa, e quindi si avanza. D’estate al contrario, [p. 91 modifica]sotto la sferza del sole vigorosissima anche in seno alle Alpi, il ghiacciajo si impiccolisce, e sembra, come dissi, ritirarsi. I piccoli ghiacciai presentano assai più sensibili tali oscillazioni annuali. Cotesti ghiacciai possono d’inverno accrescersi rapidamente di estensione; ma, avendo poca grossezza sono in poco tempo disciolti durante la state, e quindi ridotti entro angusti confini. Io ritengo, per esempio, che i ghiacciai dello Zebrù debbono d’inverno discendere in modo da coprire interamente il fondo del descritto bacino, lasciandovi, nella loro ritirata estiva le morene, che si avanzano, coll’avanzarsi del ghiacciajo, ma non possono con lui ritirarsi. Era su queste morene, ch’io chiamo invernali, che noi camminavamo.

9. » Il salire si era fatto erto quanto mai si può dire; la fatica improba davvero. Ogni due o tre passi bisognava soffermarsi a pigliar fiato, quasi ci colpisse una sincope. Nelle alte regioni non è solo il lavoro dei muscoli che rende sì faticoso il salire. Ritengo che la rarefazione dell’aria, accelerando la respirazione, aumentando i battiti del cuore, producendo quello stato di parossismo, di vertigine, descritto da tutti i viaggiatori alpini, raddoppi quel senso di pena e di sfinimento che si prova pur sempre quando si sale. Forse era meglio ripassare sulla sinistra e seguire le vedrette che salivano fino al calle che dovevamo guadagnare; nè io sarei lungi dal consigliarlo a chi volesse ripetere la nostra corsa. Il pendio da quella parte è piuttosto ripido, ma non così che presenti, per mio avviso, nè vero pericolo, nè quelle difficoltà, contro le quali dovemmo lottare tenendo la destra. In fatti, non lungi dalla vetta, ci trovammo di fronte ad una scogliera nuda, inaccessibile, che, partendo dalle montagne di destra, finiva al lembo d’una vedretta, limitata in alto da altre rupi parimente inaccessibili. Appariva soltanto ai limiti della scogliera verso il ghiacciajo una specie di vallone, o piuttosto un canale, d’onde franavano i ruderi d’una enorme morena, dipendente dai ghiacciai della destra. Tra il canale e la vedretta, della quale parlai, sorgeva uno scoglio lungo, acuto a foggia di lama dentata. Volgemmo immediatamente il passo verso il canale, come ad unico punto accessibile. Ma il primo che si provò a salirvi ci rese accorti che era inutile, o almeno pericoloso, di ritentare la prova. Non si arrampicava due passi, che non ne discendesse sdrucciolando altrettanti; di più i massi che lo ingombravano, trovandosi su quel ripido pendio nella condizione del più mobile equilibrio, franavano al basso, con pericolo del [p. 92 modifica]salitore, e peggio de’ sottostanti che tentarono di seguirlo. Parve migliore, anzi unico partito, attraversare la frana, e seguire come meglio si poteva quell’acuta lama di scoglio che fiancheggiava la vedretta. Quì un nuovo genere di difficoltà; la fatica dell’aggrapparsi mani e piedi, imposta dalla forma di quella rupe scoscesa e dentata, si raddoppiò per la natura mineralogica della roccia di cui era composta. Constava di uno schisto talcoso, cioè di una roccia fogliettata, composta in massima parte di talco, minerale assai molle, liscio, lucente, sdrucciolevole, untuoso al tatto come fosse sapone. Infatti quella varietà di schisto è detto steatite dai mineralogisti, (stear in greco vuol dir lardo) e nel commercio pietra saponaria. Afferravi con una mano una scheggia sporgente, e dessa si staccava; ti appuntavi con un piede, e ti sfuggiva come l’avessi posto sul ghiaccio. Infine fu un lavoro di mani, di piedi, di ginocchia, di petto, un vero appiccicarsi corpo a corpo alla roccia, quale non m’era mai toccato in vita mia giammai. Ecco, diceva tra me, ecco il bell’imbroglio in che ci saremmo trovati jeri, quando ci fossimo ostinati a discendere da questa dopo che avessimo raggiunta la vetta dall’opposta parte. Era egli possibile infatti, con un vento impetuoso, in mezzo a turbini di neve, che tutti avrebbe ricoperti quegli scogli e quelle morene, con tutta la facilità di perdere l’orizzonte, era egli possibile, ripeto, di cavarcela senza danno forse seriissimo? Credo che anche il prevosto dividesse i miei pensieri e le mie convinzioni.

10. » Finalmente lo scoglio è superato, ed eccoci sulla morena stessa che franava nel canale. È un gigantesco cumolo di massi d’ogni forma, d’ogni dimensione, fra i quali spiccano abbondantissimi i pezzi di bianchissimo marmo saccaroide. Ma non c’era tempo a badarci. Si attraversa la morena, quindi una piccola vedretta, poscia di nuovo uno scoglio assai meno difficile del primo; ed eccoci davanti il sospirato calle che ci sovrasta di poche decine di metri. Non altro ce ne divideva che una porzione d’un pendio coperto di ghiaccio granuloso. Io lo riconobbi benissimo; era il formidabile piano inclinato che l’anno precedente ci aveva intimato il ritorno. Ma esso aveva perduto ogni prestigio a petto delle difficoltà superate; d’altronde, ascendendo, non c’era più quell’effetto ottico che produce un ripido pendio misurato dall’alto. Anzi non ci parve vero di potere una volta camminar ritti sulle piante, e in fila serrata. Ricalcando l’orme l’uno dell’altro per precauzione, e salendo a larghi zig-zag per [p. 93 modifica]diminuire la pendenza, in pochi minuti eravamo sul calle. Il vento, che ci aveva disturbati nel salire e doveva essere più forte sulla vetta, aveva invece dato luogo alla calma; il sole splendeva verso il tramonto; il cielo era di cristallo. Lo sguardo dominava le due valli! Spingendolo giù per quella d’onde eravamo saliti, che appariva di lassù come una stretta gola, andava mano mano a posarsi sopra una serie di cime o negre o nevose di cui le ultime sfumavano nel lontano orizzonte. In fondo all’opposta valle guardandoci a destra, rivedevamo in tutta la sua ampiezza il ghiacciajo del Forno, e lo seguivamo coll’occhio fin là d’onde si dipartiva dai vasti campi di eterne nevi e dalle serene vette che lo avevano generato; mentre, guardando a sinistra, vedevamo già rovesciarsi dalle nevose cime, quasi gonfia fiumana divisa in più rami e formante diverse cascate, i ghiacciai del Passo Martello. Ma più di tutto meravigliose, e meritevoli da sè sole della fatica che costa il guadagnare lo Zebrù, sono due gigantesche piramidi gemelle in cui si termina verso Nord la scogliera sulla quale ci troviamo. L’una è tutta coperta di neve; l’altra quasi interamente nuda; eppure quella nuda gareggia in bianchezza coll’altra vestita di neve; e il crederete facilmente, quando vi dirò che sulla prima i bianchissimi calcari saccaroidi godono di sì grande sviluppo, che essa può ben dirsi una montagna di marmo bianco. Non credete che sia postuma fantasia quando vi assicuro che lo svolgersi di quelle creste candidissime, frastagliate come da tante aguglie, mi ricordava vivamente il Duomo di Milano. Ritengo che all’effetto che produce alla vista quella marmorea piramide si debba il nome di Monte Cristallo che distingue con termine generico tutta la catena la quale divide la valle dello Zebrù da quella per cui si ascende al passo dello Stelvio.

» Pieni, ma non sazî dell’incantevole spettacolo, e quasi ebbri del pensiero della vittoria, discendemmo a balzi nella valle del Frodolfo. Rasentando quella vedretta e quella frana così nefaste, ci pareva impossibile che jeri ci avessero dato un tanto da fare. Ma altro è il mare che dorme a guisa di placida laguna, altro il mare furioso sotto gli impeti della tempesta.

» Se vi troverete un giorno a Santa Caterina, non lasciate di passare lo Zebrù. Scegliete però una bella giornata. A tempo sereno quel passaggio non è che una generosa partita di piacere, a cui può pigliar parte qualunque più mediocre salitor di montagne. Ma se il tempo è brutto, soprattutto se è turbinoso, può [p. 94 modifica]esporre a serî pericoli anche l’alpigiano più esperimentato. Ma anche col bel tempo la prudenza ci vuol sempre. Era pure bel tempo, quando la vidi abbastanza brutta in un certo bosco....».

«In un bosco? dove? come? racconta, racconta», gridarono tutti insieme i nipoti.

«Eh sì; è affar lungo... Bene, vi racconterò altra volta questa spiacevole avventura».


Note

  1. Le montagne che stanno di mezzo tra le colline e la catena più alta e più massiccia delle Alpi. Le descriveremo più tardi.
  2. È questo un di que’ nomi proverbiali in cui il popolo compendia, non senza poesia, il risultato di secolari esperienze. Questo nome rivela infatti, assai prima che la scienza se ne occupasse, uno dei punti più rilevanti della nostra meteorologia subalpina; uno di quei punti, che di mezzo al caos delle vicissitudini atmosferiche, in un paese soggetto al clima forse più variabile del globo, servono a tracciare i primi lineamenti del sistema regolare, che presiede alla climatologia del globo, e per cui altrove (nelle regioni tropicali per esempio) si alternano le stagioni con una regolarità sorprendente. Nelle regioni subalpine distinguonsi, tra il principio e la fine d’autunno, quasi due stagioni: l’una di pioggie, l’altra di sereno. La prima è quella delle pioggie, che accompagnano l’equinozio d’autunno, volgarmente dette pioggie ottobrine. A queste tien dietro una stagione di sereno, che è appunto l’estate di San Martino. Come le pioggie ottobrine sembrano un’anticipazione dell’inverno, così il sereno che le segue pare un ritorno dell’estate. I limiti di quelle due stagioni oscillano assai da un anno all’altro, anticipando o ritardando di giorni e di mesi. Il caso più normale, e più propizio per la nostra agricoltura, è quello che le pioggie si sfoghino nella prima metà d’ottobre lasciando all’estate di San Martino di occuparne l’altra metà, e di prolungarsi a tutto novembre, e, le circostanze sono molto favorevoli, se a tutto dicembre.
  3. Gli antichi Greci favoleggiavano che in Tessaglia vivessero degli strani animali, chiamati Centàuri. Erano, figuratevi! mezzo uomini e mezzo cavalli; avevano quindi quattro gambe e due braccia. Velocissimi al corso, erano maestri nel maneggio dell’arco. Famoso tra essi fu Chirone, che Tétide, dea del mare, scelse a pedagogo del figlio Achille.
  4. Dante, Inf., XXV, 132.
  5. Questo nome di vedretta manca al parlare toscano come quello di ghiacciajo; mancando in tutta Italia, fuorchè nella regione delle Alpi, gli oggetti che queste parole significano. — Ghiacciajo è mascolino di ghiacciaja, che i naturalisti tradussero dal francese glacier, dal tedesco gletscher, e dall’inglese glacier, per indicare i così detti ghiacciai di primo ordine, o ghiacciai tipi, cioè le grandi masse di ghiaccio, che dipendono da un circo, ossia da un alto bacino alpino, ed occupano lunghe vallate a lento pendio. — Vedretta è parola usata nelle Alpi di Lombardia e da me introdotta (Corso di geologia, t. I.º pag. 120) come l’unico termine proprio ad indicare quei campi limitati di ghiaccio, di svariatissima forma, isolati sopra pendii in genere più ripidi, proporzionatamente più larghi che lunghi, cui i geologi distinsero come ghiacciai di secondo ordine.