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SERATA V


Il passo dello Zebrù.

Un giorno di neve a Milano, 1. — La levata in montagna, 2. — Un cucchiajo ed un po’ di filosofia, 3. — Un’impresa fallita, 4. — Nuova crisi e nuova ritirata, — 5. Nuovi apparecchi, 6. — La valle dello Zebrù, 7. — Oscillazioni annuali dei ghiacciai, 8. — Una salita assai malagevole, 9. — Il Passo dello Zebrù è superato, 10.


1. Era una di quelle giornate di dicembre, in cui si direbbe che si solennizzi il vero ingresso trionfale, definitivo, dell’inverno, con una immensa parata di neve. Chi si era desto avanti giorno aveva sentito battere sordamente le ore dalla vicina torre, quasi la campana fosse coperta d’un panno, o il battacchio rivestito di ovatta. Chi è solito ad aspettare il giorno fra le coltri, ne aveva visto la luce distendersi sulle pareti d’una bianchezza insolita. Chi aveva messo il muso fuori, l’aveva ritirato gridando: «Bah! che bella farinata!» Chi finalmente quella mattina si fosse pigliato l’eroico divertimento di salire sul Duomo, avrebbe veduti i tetti, le strade, le mura, le campagne al di fuori, l’immenso piano, i colli, le Prealpi1, le Alpi, se erano visibili, tutto d’un sol colore. Dico — se erano visibili —; poichè, quando io mi affacciai alla finestra, la veniva giù ancora a larghe falde, che le parevano cialdoni o agnellotti.

Questa prima solennità invernale ha sempre un non so che di gajo; qualche cosa almeno di nuovo, di eccitante, di poetico, principalmente in città, a dispetto di tante brutte cose, di cui per molti è pur troppo foriera. Non sempre ogni anno, nè colla stessa

  1. Le montagne che stanno di mezzo tra le colline e la catena più alta e più massiccia delle Alpi. Le descriveremo più tardi.