avevam cercato una guida. Il passo dello Zebrù è ben poca cosa,
se si confronta colle salite al monte Bianco, al monte Rosa e via
discorrendo. Tuttavia, se il monte Bianco è a 4812 metri sul livello
del mare, il monte Cristallo che torreggia sullo Zebrù è a
4402 metri; ed i famosi passi del Grimsel, della Furca, ecc., non
hanno che 2176 metri il primo, e 2411 metri il secondo; mentre
il passo dello Zebrù, non mai sgombro di nevi, parmi non possa
vantar meno di 3000 metri; qualche centinajo più del passo dello
Stelvio che ne ha 2815. Del resto il numero e la perizia delle guide
così bene organizzate ed esercitate nella Svizzera hanno contribuito
assai a rendere agevole e sicuro ai viaggiatori l’esito di
quelle sempre ardite intraprese. Qui invece il viaggiatore, almeno
in allora, si trovava solo, abbandonato a se stesso; e la maggiore
facilità dell’impresa non è sempre un compenso proporzionato
al suo isolamento ed alla sua imperizia dei luoghi. Una imprudenza
può essere troppo severamente punita. La catastrofe del
Cervino non era ancora successa; ma appena l’anno precedente
due viaggiatori inglesi, venuti dai ghiacciai della Bernina, discendevano
soli verso i monti di Poschiavo. Non so come, l’uno
di essi precipitò miseramente in un burrone, rimanendo sospeso
tra due massi orribilmente malconcio. Io mi trovava appunto
colà, e quando ne partii, si nutriva ancora poca speranza di
salvarlo. Non so che ne avvenne; ma certo la fu una lezione di
prudenza pagata assai cara. Tuttavia nella nostra gita allo Zebrù
dell’anno precedente, avevamo già raggiunta la vetta; il nostro
sguardo già si sprofondava nella valle dello Zebrù; ma un piano
di neve ghiacciata, tutto unito, con un pendio assai ripido, si
distendeva sotto ai nostri piedi. Uno della comitiva, che per la
prima volta si trovava in vetta ad un ghiacciajo, non seppe vincere
la ripugnanza a cimentarsi su quel piano inclinato, sembrandogli
che ad ogni piè sospinto dovesse sdrucciolare in fondo all’abisso.
Quando pure la ragione avesse voluto ripigliare il suo
impero; le gambe, in preda a un tremito convulso, rifiutavano
il loro servizio. In queste occasioni la vittoria è del più debole,
e si preferì di rinunciare per allora al passaggio, ingannando la
sconfitta col ritornare per altra via a Bormio, d’onde eravamo
partiti il giorno innanzi. Uno però della nostra comitiva non seppe
punto adattarsi a rinunciare al pallio, quand’era già si presso
la meta. Fu questi l’illustre nostro botanico sacerdote Martino
Anzi, il primo io credo (ad eccezione di qualche pastore o cacciatore
delle Alpi) che abbia passato lo Zebrù, raggiungendoci a