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un’impresa fallita 85

avevam cercato una guida. Il passo dello Zebrù è ben poca cosa, se si confronta colle salite al monte Bianco, al monte Rosa e via discorrendo. Tuttavia, se il monte Bianco è a 4812 metri sul livello del mare, il monte Cristallo che torreggia sullo Zebrù è a 4402 metri; ed i famosi passi del Grimsel, della Furca, ecc., non hanno che 2176 metri il primo, e 2411 metri il secondo; mentre il passo dello Zebrù, non mai sgombro di nevi, parmi non possa vantar meno di 3000 metri; qualche centinajo più del passo dello Stelvio che ne ha 2815. Del resto il numero e la perizia delle guide così bene organizzate ed esercitate nella Svizzera hanno contribuito assai a rendere agevole e sicuro ai viaggiatori l’esito di quelle sempre ardite intraprese. Qui invece il viaggiatore, almeno in allora, si trovava solo, abbandonato a se stesso; e la maggiore facilità dell’impresa non è sempre un compenso proporzionato al suo isolamento ed alla sua imperizia dei luoghi. Una imprudenza può essere troppo severamente punita. La catastrofe del Cervino non era ancora successa; ma appena l’anno precedente due viaggiatori inglesi, venuti dai ghiacciai della Bernina, discendevano soli verso i monti di Poschiavo. Non so come, l’uno di essi precipitò miseramente in un burrone, rimanendo sospeso tra due massi orribilmente malconcio. Io mi trovava appunto colà, e quando ne partii, si nutriva ancora poca speranza di salvarlo. Non so che ne avvenne; ma certo la fu una lezione di prudenza pagata assai cara. Tuttavia nella nostra gita allo Zebrù dell’anno precedente, avevamo già raggiunta la vetta; il nostro sguardo già si sprofondava nella valle dello Zebrù; ma un piano di neve ghiacciata, tutto unito, con un pendio assai ripido, si distendeva sotto ai nostri piedi. Uno della comitiva, che per la prima volta si trovava in vetta ad un ghiacciajo, non seppe vincere la ripugnanza a cimentarsi su quel piano inclinato, sembrandogli che ad ogni piè sospinto dovesse sdrucciolare in fondo all’abisso. Quando pure la ragione avesse voluto ripigliare il suo impero; le gambe, in preda a un tremito convulso, rifiutavano il loro servizio. In queste occasioni la vittoria è del più debole, e si preferì di rinunciare per allora al passaggio, ingannando la sconfitta col ritornare per altra via a Bormio, d’onde eravamo partiti il giorno innanzi. Uno però della nostra comitiva non seppe punto adattarsi a rinunciare al pallio, quand’era già si presso la meta. Fu questi l’illustre nostro botanico sacerdote Martino Anzi, il primo io credo (ad eccezione di qualche pastore o cacciatore delle Alpi) che abbia passato lo Zebrù, raggiungendoci a