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III.

Don Pio destandosi a giorno chiaro vide la testa di Giorgio affacciata alla portiera dell’uscio e credè che egli venisse ad annunziargli Caruso.

— Pregalo di attendermi un minuto, — [p. 48 modifica]disse il principe riacquistando a un tratto la memoria degli avvenimenti della sera precedente, e saltando in fretta dal letto con gli occhi ancora assonnati, andò nello spogliatoio e dopo aver tuffato la faccia in una catinella di acqua fresca, ed avere indossato un vestito di flanella bianca, entrò nel salottino e vedendo Fabio Rosati, invece del Caruso, non seppe reprimere una smorfia di dispetto, nè potè trattenersi dal dire:

— Ah, è lei!

Fabio capì che non era nè atteso, nè desiderato e il sorriso gli morì sulle labbra, ma dominando la pena che gli cagionava quella accoglienza, tolse da un fascio di giornali il Fieramosca, e pose sotto gli occhi del principe l’articoletto sulla cena della sera precedente.

Don Pio lo lesse e poi, restituendolo al Rosati, disse tranquillamente:

— Quando si entra nella vita pubblica, dobbiamo attenderci agli attacchi. Questa asserzione che io non sia capace di svolgere l’idea della stazione in Trastevere, è una asserzione stupida, un mezzo per gettare la sfiducia fra i miei elettori; ma glielo farò veder io se sono capace; glielo farò vedere a questo stupido scribacchino del Fieramosca, — continuava [p. 49 modifica]don Pio, cercando in altri giornali se si parlava della sua candidatura.

Fabio non aveva parole; a momenti pensava che Caruso si fosse vantato affermando la paternità di quella idea; ma poi, ripensando a tanti particolari della sera prima, il dubbio svanivagli dalla mente e vi penetrava la sconfortante supposizione che il principe mentisse, mentisse anche davanti a lui, e questa supposizione gli agghiacciava il sangue nelle vene.

Quella benevolenza dimostratagli da don Pio in tante occasioni lo aveva legato a lui con vincoli saldissimi, gli aveva fatto nascere nell’animo una specie di culto per quel patrizio così diverso dagli altri nel modo di trattarlo, e ora che lo vedeva precipitare dall’altare su cui avevalo posto, provava un vero dolore. La serenità non svaniva dal volto di Fabio, ma le sue labbra carnose, non ombreggiate dai baffi, si scoloravano a vista d’occhio.

Don Pio continuava a guardare i giornali e a fare brevi e dispettose osservazioni.

— Questo giornale sostiene la mia candidatura perchè sono caratista; questo perchè il direttore mi deve cinquemila lire; quest’altro [p. 50 modifica]perchè sono consigliere della Banca Romana; tutto interesse, nient’altro che interesse! — continuava a dire sorridendo amaramente. — Se non fosse così, tutti mi lapiderebbero, tutti. Ma sarò eletto? — domandò dopo una breve pausa a Fabio, che, ritto dinanzi a una mensola, osservava i ninnoli che vi erano posati sopra.

— Lo spero, — rispose Fabio.

— Ma nulla di positivo mi può dire?

— Io ho ragione di sperarlo, — disse Fabio sorridendo. — Io ho preparato il terreno, a lei sta il lavorarlo.

Il principe fece una mossa d’impazienza; egli era assuefatto dalla madre e da quanti lo circondavano a non conoscere l’impossibile, a credere che con i denari e con un grande nome si giunga a tutto, e il linguaggio che tenevagli Fabio non era fatto per il suo orecchio. Per altro, piegato fino dall’infanzia a non mostrare quello che provava, sorrideva al Rosati e gli diceva di spender pure, di non lesinare sulla pubblicità, di promettere mari e monti, pur di ottener voti; ma mentre parlava, involontariamente lo spingeva verso la porta, come se volesse liberarsi di lui. Fabio, a un certo punto, si accorse del desiderio del principe e si con[p. 51 modifica]gedò. In quel momento acquistò la certezza che don Pio attendeva Caruso. Egli percorreva a testa bassa la galleria, quando un servitore si staccò da un sedile addossato al muro e fattosi avanti gli disse che la duchessa madre desiderava parlargli.

Fabio si scusò, rispose che non era in abito da visita, che sarebbe andato più tardi, ma il domestico rispose che la signora duchessa voleva parlargli subito, e non potendo resistere a quelle vive preghiere, egli salì le scale che conducevano al secondo piano, pensando sempre con sconforto alla delusione provata.

La duchessa era già vestita, col cappello in testa e il libro da messa in mano, pronta per uscire. Ella, che sapeva sempre quello che voleva, e andava diritta allo scopo, stese affabilmente la mano a Fabio e senza tanti preamboli gli disse, dopo averlo fatto sedere accanto a sè:

— Io voglio che mio figlio sia eletto; che cosa bisogna fare?

Fabio riflettè un momento, ma spronato da quel fare risoluto, vinse la naturale pigrizia del pensiero, e rispose lealmente:

— Oramai il principe si è impegnato troppo formalmente per la stazione in Trastevere, [p. 52 modifica]bisogna fare di quell’idea la base della sua elezione e svolgerla, predicarla, affermarla.

— E con quali mezzi?

— Con la stampa.

— Ma io non credo che i giornali, così senza nessun interesse diretto, prenderebbero a cuore la candidatura di mio figlio.

— È vero, ma la stampa non è in floride condizioni a Roma e io farei così per amicarla al principe: C’è un giornale morente, un giornale parlamentare, che era sostenuto da un gruppo di deputati piemontesi e liguri, i quali si sono stancati di non ottenere neppure un posto di segretario generale con tutti i sacrifizi fatti per mantenerlo. Quel giornale, che è La Stampa, tira gli ultimi aneliti, ma non è screditato. Bisognerebbe comprarlo e reclutare fra i redattori dei giornali romani tutta la redazione promettendo loro stipendi che non hanno mai sognati. Bisogna intendersi bene; la scelta è difficile perchè molti di quei redattori, per amore del giornale dove sono, per devozione al direttore, sarebbero capaci di rifiutare, ma fra sei disinteressati c’è sempre l’avido. Ora questo avido con la speranza di migliorare la sua situazione appena La Stampa sarà nelle mani del principe, saprà sostenerne la candidatura, [p. 53 modifica]saprà combattere per lui, e l’avere un alleato, un amico in tutti i campi, o almeno una persona che avrà interesse a paralizzare gli attacchi, mi pare un immenso vantaggio.

La duchessa stette un momento soprappensieri, poi disse:

— Quanto ci vuole a comprare La Stampa e ad accaparrarsi la redazione?

— Il giornale m’impegno a farglielo avere con 50,000 lire; per accaparrarsi i redattori bastano 20,000.

— E a far vivere poi il giornale?

— Questo dipende dallo sviluppo che il principe vorrà dargli; ma certo la casa Urbani può permettersi questo lusso.

La contessa fissò per un dato tempo la copertina del libro da messa e pareva che seguisse con l’occhio le cifre che vi tracciava mentalmente, e poi disse:

— Tratti pure e informi me dei risultati delle trattative; a mio figlio parlerò io stessa; — e stendendo la mano a Fabio si alzò per congedarlo con un cortese sorriso.

Fabio scese le scale tutto lieto di quell’incombenza. La sua più viva ambizione era sempre stata quella di essere redattore di un giornale, e di un giornale influente. A forza [p. 54 modifica]di portare la notizietta, il resoconto di un ballo, la descrizione di un matrimonio, era riuscito a farsi strada in alcuni giornali, e aveva degli amici fra i redattori, ma non aveva mai potuto mettere il nome di un giornale sulla sua carta di visita, non era mai potuto entrare a un teatro gridando alla maschera il nome di un giornale, non era mai stato delegato a rappresentare un giornale in un banchetto politico, in una commemorazione, in qualche solenne cerimonia. Ora tutte queste aspirazioni stavano per realizzarsi; ora la parte di cronista, come romano, gli spettava quasi per diritto. Eppoi in quel contratto di vendita egli avrebbe guadagnato qualcosa e Fabio aveva sempre e poi sempre in mira l’interesse in ogni atto della vita. Non potendo avere ideali sognava il benessere materiale, l’appagamento di ogni desiderio; egli era nato con l’istinto della mediocrità e quest’istinto si sviluppava in lui sempre maggiore con gli anni.

Sul portone del palazzo e mentre ruminava il pensiero di ottenere il giornale con una somma inferiore a quella detta alla duchessa, s’imbattè nel Caruso, e seppe reprimere il moto di dispetto che gli cagionava quell’incontro. [p. 55 modifica]

Capiva che ormai bisognava contare con quell’uomo se voleva che il principe fosse eletto, se voleva che acquistasse il giornale, se aveva a cuore davvero l’esito di quella impresa.

Fabio lo salutò dunque cordialmente, e gli stese la mano.

— Che noia! — disse il Caruso, dopo avergli reso il saluto con il suo fare stanco e spingendo in avanti il labbro inferiore e socchiudendo gli occhi. — Il principe iersera mi ha subito scritto, vuoi vedermi ad ogni costo. Questi gran signori non hanno un soldo di sale in zucca, e si danno sempre il lusso di pensare col cervello degli altri.

Fabio si sentì offeso dalla mancanza di rispetto per tutta una classe, che era assuefatto a venerare, e per don Pio specialmente, ma non rispose altro che con un sorriso, e disse:

— Credo infatti che tu sia aspettato da un pezzo.

— Lo so, ma io non mi scomodo per nessuno e prima delle dieci in camera mia non fa giorno. Addio, Rosati, — e passò davanti al portinaio strascicando il passo, e soltanto sul primo gradino dell’imponente scalone gettò via il sigaro d’Avana, che aveva in bocca. [p. 56 modifica]

Per altro, in presenza di don Pio cambiò subito atteggiamento, e seppe incurvare la schiena, seppe farsi umile.

— Scuserà se mi sono fatto attendere, ma affari urgenti da sbrigare mi hanno tenuto occupato sin ora: quando siamo nel giornalismo c’è sempre un ministro o un segretario generale, che hanno bisogno di vederci e ci tempestano di lettere e di ambasciate, — e così svogliatamente cavò di tasca due lettere con il bollo del Ministero degli Esteri e di quello dell’Interno. Però si guardò bene dal leggerne il contenuto al principe. Erano lettere vecchie di due impiegati subalterni, ai quali in altri tempi si era rivolto per domandare notizie.

— Capisco, — disse il principe, — e mi duole di averlo disturbato, ma se non lo avessi fatto col mio biglietto di ieri sera, avrei dovuto farlo stamani. Ha veduto gli attacchi del Fieramosca?

— Sì, — rispose il Caruso, — ma lei deve rallegrarsene. Se il suo nome non intimorisse gli avversari, se non credessero la sua una candidatura seria, non la combatterebbero. La lotta è vita per gli uomini che vogliono conquistare un posto nella politica; senza lotta nessuno si è mai fatto strada. [p. 57 modifica]

— Ma come sostenerla con mezzi così disuguali? Essi mi fulminano dal pergamo del giornale, e io non posso battermi con anni eguali.

— Scusi, ma quando non mancano i mezzi materiali, le armi si cercano, si comprano.

— Non ci avevo pensato, — disse il principe. — Del resto queste armi non si creano in un giorno.

In quel momento fu bussato leggermente, e, senza attendere risposta, la porta fu socchiusa e comparve la duchessa Teresa.

— Pio, ho bisogno di parlarti, — disse ella al figlio, senza curarsi della presenza di un terzo.

— Ci vedremo dopo colazione, — rispose il principe, cui premeva di continuare il discorso col Caruso.

— Avrei bisogno di sbrigare subito subito quest’affare, — rispose la duchessa, dando un tono leggermente imperioso alla voce.

Il Caruso, senza aspettare di essere congedato, prese il cappello, s’inchinò alla duchessa, e stendendo la mano al principe si diresse verso la porta.

— Potrebbe tornare qui oggi? — gli domandò.

— Come desidera, — rispose il Caruso col [p. 58 modifica]suo fare svogliato, e fatto un nuovo saluto e lasciando il principe nella incertezza sull’ora, uscì.

— Chi è quell’individuo? — domandò la duchessa a don Pio.

— Non lo so, — rispose egli con fare noiato, — nè mi curo di saperlo. È un individuo che mi aiuta a farmi eleggere deputato.

— Tu devi avere un giornale, — disse la duchessa, — e con quel mezzo potrai fare a meno di chiedere aiuto ad alcuno.

— Ma il giornale non lo posso scrivere io e non si fa da solo. Ci vogliono dei giornalisti, e quell’individuo, che è uscito ora, è appunto tale.

— Come mi è antipatico! — disse la madre.

— Anche a me moltissimo, — rispose il principe, — ma quando si ha bisogno della gente non si va a guardare se vi è simpatica o no; si accetta quale è, e si adopra finchè ci serve; poi si getta via come uno straccio vecchio.

— Che cinismo! — esclamò la duchessa, guardando fissamente il figlio negli occhi.

— Vorreste che io mi cucissi a fianco quell’uomo per la vita?

— No, vorrei che tu sapessi farne a meno ora per non doverlo un giorno rinnegare. [p. 59 modifica]

— Ora non so farne a meno: in questo momento nelle mani sue sta la mia elezione e io penso all’oggi, soprattutto all’oggi, perchè voglio essere deputato.

— Ma tu sarai eletto non per conto di quell’uomo, ma per opera mia; e non te l’ho forse promesso? Perchè manchi di fiducia in me?

La duchessa cinse il collo del figlio col braccio destro e attirò a sè la testa per baciargliela.

— L’ho promesso a me stessa tante volte che tutto il bene che avrai ti dovrà venire da me, e vorresti che in questa occasione mancassi alla mia parola? Vedi, Pio, io voglio che, quando sarò sparita, tu pensi a me con tenerezza, tu riconosca, per la forza dei fatti, che tua madre non solo ti ha fatto ricco, ma non ti ha negato mai un balocco nell’infanzia, nell’adolescenza, nell’età matura. Per me questa elezione non ha più valore di un balocco; tu lo vuoi ed io te lo voglio procurare. E per procurartelo metterò nelle tue mani un giornale, e col giornale acquisterai importanza come deputato e potrai salire dove tu vorrai, purchè tu sappia scegliere la gente che deve aiutarti.

— Quest’allusione so a chi è diretta, ma ti [p. 60 modifica]ripeto, mamma, che quell’uomo, che tu hai veduto uscire di qui, mi s’impone per la forza delle circostanze.

— E tu imponiti a lui con altri mezzi, che non ti possano nuocere; deve essere avido e bisognoso; un uomo ricco ha sempre modo di obbligare uno che non è, e che vuol esserlo. Ora andiamo nella sala da pranzo, perchè la colazione deve esser pronta, — disse la duchessa, — ma non far parola a Camilla di tutto questo tramestio, che ella non può capire, e di cui il suo animo timoroso potrebbe sbigottirsi.

— Camilla è un grande ostacolo, mamma; ella non capisce la vita sotto nessun aspetto.

— Beati i poveri di spirito! Lasciala battere la sua via, — disse la duchessa prendendo il braccio del figlio e guidandolo fuori del suo quartiere.

La principessa, immersa nella lettura di un giornale illustrato, Le figlie di Maria, era ritta dinanzi a una delle finestre della sala, o quando vide entrare il marito e la suocera andò loro incontro, e dopo aver baciato a questa la mano, presentò la fronte al bacio del marito che gliela sfiorò leggermente, e appena sedutosi a tavola continuò con la madre l’interrotta conversazione, non curandosi [p. 61 modifica]della presenza di lei, come non si curava dei servitori, che giravano le pietanze e cambiavano piatti e posate.

Quella grande sala con le pareti coperte d’arazzi e i mobili del tempo dell’Impero, dalle forme rigide e dalle dorature sbiadite, era tristissima e fredda.

Pareva che la primavera non potesse farvi penetrare i suoi effluvi profumati, che il sole non osasse spingervi i suoi raggi.

La principessa Camilla mangiava poco e lentamente. Ella non prendeva parte alla conversazione, e soltanto quando udì parlare dell’acquisto del giornale, posò la forchetta e domandò con la voce che diveniva molto nasale quando ella voleva criticare:

— Che cosa te ne farai, Pio, del giornale? Pensi forse a scriverlo da te?

— Se sapessi, sarei ben lieto di prender la penna, ma non so, — rispose il principe in tono allegro.

— Non ti vergogneresti di farti giornalista?

— No, anzi sarei fiero di saper fare qualcosa, mentre così devo sempre ricorrere ad altri, ed è cosa che mi umilia.

— Come sei cambiato, Pio! — esclamò donna Camilla.

— Cammino con i tempi, che vuoi? Se mi [p. 62 modifica]ostinassi a tener le mani alla cintola, per fare come fecero alcuni dei miei antenati, tutti mi passerebbero avanti, e io sono della tempra dei cavalli da corsa; non solo non tollero che alcuno mi lasci addietro di una testa, ma neppure tollero di sentirmi galoppare alle calcagna. Ci trovi qualcosa da ridire, Camilla?

— La mia parte non è quella di biasimare; io amo l’ombra, la quiete, e nella quiete medito e prego.

Il principe sorrise ironicamente e guardò la madre. Era ebro, non già per il vino bevuto, ma per le idee che gli mulinavano per il capo, per quella vita nuova nella quale s’ingolfava, e in cui sperava di spendere quella malsana irrequietezza, che lo aveva spinto per il passato a viaggiare di continuo, a gettarsi ora nei piaceri della vita di Parigi e di Cannes, ora in quelli della vita inglese; a cambiare capricciosamente sistema di coltivazione nei suoi possessi, a riformare, senza attendere il risultalo di una prima riforma, l’allevamento delle razze equine e bovine, a disfare per riedificare.

A trentacinque anni don Pio era, come carattere, un ragazzo male educato, e la deputazione, la vita politica, si presentava a lui con tutte le attrat[p. 63 modifica]tive di un nuovo trastullo. Prendevano il caffè quando alla duchessa fu recata una carta sulla quale don Pio gettò gli occhi.

— Pregate quel signore di attendermi un momento. — diss’ella continuando a bere il moka.

— Non sapevo che tu conoscessi il Rosati, — osservò don Pio.

— L’ho conosciuto per giovarti e credo che di quel ragazzo si possa fare un utile cooperatore.

— Ha poche idee, — disse il principe.

— Ma ha molta fede in te, ti è molto affezionato, — disse la duchessa alzandosi.

— Posso assistere al vostro colloquio? — domandò il principe infilando il braccio in quello della madre.

— Sì, amor mio, vieni, vieni pure.

Essi uscirono senza dire una parola a donna Camilla. La piccola signora li guardò mentre uscivano e poi esclamò con accento di dolore:

— Tutto mi allontana da Pio, tutto! Dio mio, datemi forza di sopportare questa orribile solitudine, mandatemi dei figli, dei figli!