Il Principe della Marsiliana/IV
Questo testo è completo. |
◄ | III | V | ► |
IV.
Nella settimana precedente le elezioni generali, ai manifesti di ogni colore che tappezzavano i palazzi, le case, i monumenti di Roma e formavano come una grande cintura intorno all’obelisco di Montecitorio, erano frammisti molti cartelli che ammiravano la trasformazione del giornale La Stampa. Quei cartelli informavano il pubblico che il giornale ingrandiva il formato, portava il prezzo da due a un soldo, avrebbe contenuto articoli d’insigni scrittori, corrispondenze telegrafiche da tutte le parti del mondo, romanzi novissimi; quei cartelli facevano molte altre promesse, che avrebbero lasciato il pubblico indifferente, se fra tutta quella farragine di innovazioni non avesse letto che il giornale trasferiva i suoi uffici al pian terreno del palazzo Urbani. Quella notizia era molto commentata e naturalmente si diceva che il giornale passava nelle mani del principe della Marsiliana, che il principe aveva intenzione di spendere l’osso del collo pur di farsi eleggere e poi divenire ministro.
Nelle redazioni dei giornali i commenti erano più vivi ancora. Tutti i redattori accaparrati dal Rosati per La Stampa, col patto di rimanere per il momento al loro posto e stare zitti, parlavano del giornale e del principe con molta simpatia; gli altri, che speravano di trovare lavoro, di veder migliorate le loro condizioni, di essere accaparrati, chi come cronista drammatico, chi come cronista musicale, o che avevano un romanzo da vendere, approvavano l’impresa di don Pio, e Fabio approfittava di quelle buone tendenze dei giornalisti, invitava a colazione o a pranzo ora questo ora quello, e intanto parlava della elezione del principe, insinuava che l’appoggiassero, paralizzava gli attacchi ed era beato per quell’aureola d’influenza acquistata a un tratto e per le diecimila lire guadagnate sul contratto di vendita della Stampa, di cui un migliaio aveva imprestato ai nuovi colleghi con molto accorgimento.
In mezzo a tutta questa gioia per una mèta raggiunta, Fabio non aveva altro che una amarezza: Ubaldo Caruso. Quell’uomo che stava sempre al fianco del principe, che già aveva presa la direzione del giornale, e faceva la polemica accanita per sostenere l’elezione di don Pio e enumerava ogni giorno i vantaggi che sarebbero nati per il Trastevere dall’aver la stazione, quell’uomo era la bestia nera di Fabio. Con le sue maniere striscianti, parlando poco, promettendo poco e lasciando sperare molto, Ubaldo si era assicurato la collaborazione di un ex-ministro di agricoltura, dei Carrani, uomo fegatoso, inviso al presidente del Consiglio, ma venerato come capo da una numerosa schiera di malcontenti di cui aveva sposato i risentimenti e i rancori.
L’onorevole Carrani aveva capito qual partito politico trarre da un giornale ricco, che gli avrebbe creato popolarità fuori del Parlamento e influenza a Montecitorio, che gli avrebbe permesso di combattere a oltranza il Governo e di profittare di una crisi per rientrare nel Gabinetto, non più a rappresentare una parte secondaria, che non avevagli servito altro che a stuzzicare la sua smodata ambizione e la sua sete di dominio, ma a rappresentarvi una parte principale, come ministro dell’interno e forse più. Considerando tutti questi vantaggi il Carrani aveva dato ascolto alle parole di Ubaldo e aveva subito preso a scrivere articoli pieni di fiele nella Stampa, scoprendo le mene elettorali del governo in favore del candidato opposto a don Pio, che era il ricco mercante di campagna de Petriis. Quel povero Petriis era attaccato in ogni modo: nella sua vita economica come uomo d’affari, che dava capitali a interesse un tantino illegale; come uomo privato per le sue simpatie per una notissima donnina, che si offriva un tempo alla borsa della galanteria per poche lire; come consigliere comunale per la sua opposizione ad ogni spesa che avesse in mira l’erezione di monumenti ai patrioti; come ex-deputato per il suo mutismo durante due legislazioni. E siccome il de Petriis era uno di quei romani, che non si commuovono per nulla, che hanno nel sangue l’indifferenza propria dei popoli che hanno tutto udito, tutto veduto e che sono convinti che tutto sia possibile in un mondo che varia, come il cielo alle falde del Vesuvio, lasciava dire, e il Carrani non cessava gli attacchi. E mentre da un lato Ubaldo faceva propaganda per don Pio sostenendo l’idea della stazione in Trastevere, mentre Fabio tratteneva gli attacchi della stampa di ogni partito interessando i redattori dei giornali, il Carrani demoliva l’avversario del principe con ogni mezzo, onesto o disonesto che fosse.
Don Pio non faceva nulla in tutto quel tramestio; egli pagava soltanto, pagava lautamente. In una settimana aveva speso più di centomila lire, ma siccome la duchessa, che per una antica consuetudine aveva continuato ad amministrare il patrimonio, non gli faceva osservazioni, egli non si curava di quella somma inghiottita in così poco tempo dalla compra del giornale, dalle spese per manifesti, per acquisto di voti; e baloccandosi col giornale, di cui con occhio inesperto e curioso studiava l’ordinamento, ordinava mobili per la redazione, faceva trasportare nelle sale a quelle destinate tutta la ricca biblioteca di casa, e si lasciava persuadere da Ubaldo, col pretesto che non era prudente per un giornale d’opposizione di servirsi di una tipografia che non fosse propria, a ordinare motori, macchine, caratteri e tutto ciò che è necessario per montare una grande stamperia, che doveva esser collocata in un cortile interno del palazzo, che già coprivasi a cristalli.
Il palazzo Urbani non aveva, da cinque secoli che era piantato sulle sue fondamenta, veduto mai un via vai continuo come in quei giorni che precedevano la elezione del principe, e sopratutto non aveva mai veduto uno dei suoi proprietarii scender nelle cantine, conferire con gli architetti, confabulare con gli accollatarii, e incitare gli artigiani al lavoro come se fosse un assistente.
Stanco, egli giungeva in ritardo a colazione e a pranzo, e in presenza della moglie parlava di continuo con la duchessa di quello che aveva fatto e di quel che restavagli a fare per preparare al giornale un comodo alloggio; e intanto esaminava gli articoli comparsi nella Stampa, parlava degli attacchi degli altri giornali, attacchi come di schermitori che tirassero in sala. Ogni tanto, per un affare urgente, il Rosati e l’Ubaldo mandavano un biglietto al principe, ed egli li faceva entrare, offriva loro un bicchiere di Bordeaux o una tazza di caffè, e si parlava di giornalismo, di elezioni, di probabilità di riuscita, e don Pio e la Duchessa prendevano il gergo delle tipografie e delle redazioni, e donna Camilla muta, afflitta, rimaneva estranea a tutti quei discorsi, a quella vita artificiale che ferveva in casa Urbani, dimenticata da tutti, non destando simpatie in alcuno, meno che in Fabio. Egli capiva la solitudine glaciale che circondava la signora, e ogni tanto, nel fervore di un discorso, si volgeva a lei dandole una spiegazione, cercando di associarla a quella vita senza riuscirvi.
Donna Camilla continuava a tenere gli occhi bassi, a mangiare lentamente, e appena riuscivale di schivarsi, se ne andava senza far rumore. Così procederono le cose fino alla domenica, fino al giorno delle elezioni.