Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe Garibaldi
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deputato.
Egli è con un commovimento profondo che noi ci accingiamo a redigere le notizie biografiche di tanto uomo, di colui dal quale Italia deve in parte riconoscere la propria indipendenza e l’unità nazionale, i due grandi scopi dai discendenti del Dante, del Petrarca e del Machiavelli per lungo correr di secoli ambiti.
A chi per poco si ponga a riflettere ai meravigliosi, avvenimenti, mediante i quali gl’italiani pervengono in oggi alla fine ad aversi questa patria libera e cementata in un solo fascio, per conseguire la quale tanto sangue di martiri fu sparso, non può non balenare alla mente che disegno provvidenziale fosse ormai che Italia esistesse, dacchè la Provvidenza appunto concedeva a questa sublime e straziala madre delle nazioni, contemporaneamente, tre uomini sommi, inarrivabili, necessari, a ciascun de’ quali attribuiva la propria parte da sostenere nel gran dramma del rigeneramento italiano.
Di questi tre grandi personaggi, l’uno rappresenta il principio, l’altro il consiglio, il terzo l’azione; il primo si chiama Vittorio Emmanuele, il secondo Cavour, l’ultimo Garibaldi!
Se un sovrano di un valore, di un patriottismo e di una lealtà aperta e inconcussa, cui tutto il mondo civile dà in oggi quei titoli di primo soldato della nazione e di re galantuomo dalla riconoscenza de’ suoi popoli spontaneamente, unanimemente assegnatigli, ispirando fiducia, amore, devozione ad ogni abitante della penisola, non avesse ad ognuno di essi mostrato che gloriosamente sul suo capo e con piena sicurtà delle costituzionali franchigie poteva venir collocato il serto del re d’Italia, egli è pur troppo evidente che la monarchia nazionale non si sarebbe in modo sì facile e solido costituita. Privi del centro luminoso intorno al quale oggi ognun che abbia fior di mente comprende come sia buono, nobile e salutare convergere, in tanta disparità di opinioni, contrarietà di tendenze e discrepanza di partiti, egli è giuoco forza ritenere che nè unità, nè indipendenza Italia avrebbe così tosto acquistate.
Se d’altra parte non possedevamo un uomo di Stato dalle larghe vedute, dall’eccelsa ambizione, dal fermo volere, che sapesse tendere una mano pronta e secura ai partigiani, ai fautori dell’italica redenzione per lutto ove l’acuto suo sguardo perveniva ad iscorgerli, e con una sapienza virile ed abile a un tempo non trascurasse occasione di sorta in cui fomentare e corroborare le sparte forze del nazionalismo italiano, acquistandogli utili simpatie ed alleanze efficacissime all’estero, non è men dubbio che la primogenita delle tre nazioni latine si vedrebbe ancora per avventura assai lungi dalla meta sì ardentemente agognata.
Se, infine, un uomo, o piuttosto un eroe, non fosse sorto in questa prisca culla dei Curzi, dei Scevola, dei Ferruccio, dei Balilla e dei Bandiera, il quale, con indomito ardimento, con intemerata e costante ardenza di patrio amore, avesse voluto e saputo sfidare ogni pericolo, superare ogni ostacolo, compiere insomma de’ veri miracoli d’abnegazione, d’intrepidezza e di valore onde riscattare la patria dallo straniero servaggio, egli è ugualmente indubitabile che nè così presto, nè così appieno il supremo avvenimento del risorgimento italiano avrebbe potuto compirsi.
Giuseppe Garibaldi, figlio a Domenico e a Rosa Ragiundo, è nato a Nizza il 22 luglio del 1807, nella stessa casa e nella medesima camera in cui nacque il famoso maresciallo del primo impero, Massena. Garibaldi padre, che vide il giorno a Chiavari, era un onesto e operoso capitano di marina mercantile e possedeva due legni in proprio. La sua fortuna, come accade sovente di quella degli uomini di mare, fu soggetta a varie peripezie che l’accrebbero o la sminuirono più volte; ad ogni modo egli lasciò morendo un discreto patrimonio a suo figlio. La madre del nostro eroe potrebbe venir citata come modello di tutte le femminili virtù. Sembra che una delle amarezze della vita di Garibaldi sia stata quella di non aver potuto renderla felice, o piuttosto di aver attristati gli ultimi giorni della di lei esistenza coll’avventurosa carriera da lui percorsa. L’angelico carattere di questa pia donna deve senza dubbio aver contribuito assaissimo a fare sviluppare nel figlio quegli aurei sentimenti di squisita bontà e di carità patria che ognun riconosce in esso in grado così elevato. Il prode generale ha sempre conservato per la memoria della propria genitrice una religiosa affezione, e nei momenti i più perigliosi e angosciati della sua vita, l’ha sempre invocata, quasi come si invoca una divinità.
I primi anni dell’infanzia del nostro protagonista trascorsero fra le gioje e le pene passeggere che caratterizzano quella beata epoca dell’umana esistenza. Amico più del piacere e del divertimento che del lavoro e dello studio, fornì sempre prove di aver buon cuore e istinti generosi dando a divedere molta cura e pietà per quelli animaletti che sono i primi compagni dei nostri sollazzi, e precipitandosi nell’acque di un fosso profondo onde ritirarne una lavandaja ch’eravi caduta e che stava in procinto di annegarsi. I due suoi primi maestri furono un tal padre Giovanni e un certo Arena, il quale ultimo riuscì a piegare allo studio la mente un po’ indomita del fanciullo col fargli leggere l’istoria romana. Lo spirito avventuroso del nostro eroe si manifestò fin da quei teneri anni nel seguente modo:
Stanco della scuola e mal sofferendo un genere di esistenza sedentario, Giuseppe propose un giorno a taluno de’ suoi compagni di fuggirsene a Genova. Detto fatto! Staccano un battello da pesca, e voga galera verso oriente. Erano di già pervenuti rimpetto a Monaco, quando un corsaro spedito dal padre di Garibaldi catturò il fragile naviglio e ricondusse prigioni alle rispettive case i piccoli fuggitivi. Si fu un abate, dal quale furon visti imbarcarsi, che denunziolli. — Da quell’epoca data forse, ha detto Garibaldi, la mia antipatia per gli abati.
Ma la smania di correre il mondo e di visitare lontane regioni era così grande nell’adolescente, che, malgrado i suoi genitori vi si opponessero quanto il potevano, essendo loro intenzione ch’ei seguisse una carriera quieta e pacifica, facendosi medico, prete od avvocato, persistè tanto e sì bene, che ottenne d’imbarcarsi sul brigantino la Costanza, capitano Angelo Pesante, col quale navigò fino a Odessa. Indi a poco fece col padre un secondo viaggio a Roma, città la quale produsse sulla mente del giovinetto una profonda impressione; quindi continuò a navigare, facendo il cabotaggio, finchè in una serie di viaggi al Levante, durante i quali l’anima intrepida del nostro eroe potè incominciare a famigliarizzarsi col pericolo, essendo stati i navigli che montava più volte assaliti dai pirati, gli accadde di rimanere malato a Costantinopoli. Il bastimento, ch’era il brigantino la Cortese, non potendo attendere la guarigione dell’infermo, era stato costretto a salpare, lasciando colà il nostro eroe in una situazione assai imbarazzante, giacchè piuttosto a corto di denaro. Ridotto ben presto a non saper troppo ove dar del capo, ebbe la proposizione, che accettò, lasciamo pensare con quanta riconoscenza, d’entrare come precettore nella casa della vedova Tenioni. Colà, e in quell’impiego restò vari mesi, fintantochè non si ripose a navigare rimbarcandosi sul brigantino Notre Dame de Grace del capitano Casabona, primo bastimento sul quale il futuro vincitore di Calatafimi comandò in qualità di capitano.
Non parleremo di vari altri viaggi marittimi ch’egli ebbe a fare, ed arriveremo subito al momento in cui Garibaldi, giunto all’età di ventiquattro anni, bollente d’amor patrio, e sognando dì e notte come pervenire ad ajutare l’italica redenzione, incominciò a mescolarsi alla vita politica col prender parte al moto mazziniano del 1834.
Il compilo assegnato al nostro protagonista in quella cospirazione consisteva nel far proseliti alla rivoluzione a bordo della regia fregata l’Euridice, sulla quale egli erasi a tal uopo imbarcato marinaro volontario di prima classe. Nel caso, ben inteso, che il movimento fosse riuscito, Garibaldi doveva insieme ai proprî compagni impadronirsi del naviglio e metterlo a disposizione dei repubblicani.
Ma il giovine marinaro era troppo ardente, e amiamo dichiararlo, troppo onesto per addattarsi a sostener quella parte. Avendo saputo che doveva operarsi un moto in Genova stessa, moto, mediante il quale i rivoltosi avrebbero tentato impadronirsi della caserma di gendarmeria situata sulla piazza di Sarzano, lasciò ai proprî socî la cura d’impadronirsi della fregata e all’ora in cui doveva scoppiare l’insurrezione in Genova, scese da bordo in un canotto, si fe’ sbarcare davanti alla dogana, e di là corse alla piazza suddetta.
Dopo avere aspettato ivi gran tempo, vedendo che non vi si formava verun assembramento, e udendo ben presto annunziare che l’affare era andato male, che i repubblicani fuggivano, ed alcuni erano già stati arrestati, quando volle ei pure sottrarsi colla fuga alla prigionia che senza dubbio attendevalo, si avvide che il luogo incominciava ad esser circondato dalle truppe che accorrevano d’ogni banda.
Refugiatosi nella bottega di una fruttajuola, le confidò la posizione in cui si trovava. Quest’eccellente donna, dopo averlo tenuto ascoso tutto il giorno nella sua retro-bottega, gli procurò vesti da contadino, indossate le quali, circa le otto di sera, colle mani in saccoccia e in atto di persona che vada a passeggio, uscì di Genova dalla porta della Lanterna, dirigendosi, una volta allontanatosi d’un buon tratto, senza seguire alcuna via battuta, verso i monti.
Oltrepassati tutti quei deliziosi giardini che si elevano ad anfiteatro sopra San Pier d’Arena e Cornigliano, non senza averne dovuto scalare i muri, camminando poco di giorno e molto di notte, pervenne a Nizza, daddove, abbracciata la madre e riposatosi un dì, si ripose in cammino, accompagnato da due amici che lo scortarono fin sulle sponde del Varo. Traversate le gonfie acque del fiume a nuoto — Garibaldi sin dall’infanzia è stato abilissimo e saldo nuotatore — mandato un saluto di commiato ai suoi fedeli, rimasti sull’altra riva, egli aveva ragione di credersi in piena sicurezza sulla terra francese, quando invece si vide arrestato da un picchetto di doganieri, i quali sei condussero seco a Draguignan, malgrado che il nostro fuggitivo lor avesse confidato gl’imperiosi motivi dai quali erasi veduto costretto a cercare un ricovero in Francia.
A Draguignan, rinchiuso in una camera la cui finestra metteva sopra un giardino, salta da quella in questo alla presenza de’ suoi guardiani, che si precipitano giù per le scale ad inseguirlo, senza però che arrivino in tempo a raggiungerlo, tanto il marinajo nizzardo era svelto e vigoroso.
Rimessosi a battere strade poco frequentate e viottoli di montagne, non senza aver schivati, mediante la sua presenza di spirito e la sua agilità, vari altri pericoli, pervenne infine a Marsiglia. Colà seppe dal giornale le Peuple Souverain ch’egli era stato condannato a morte in Piemonte, e credette quindi opportuno di cambiar nome, assumendo quello di Giuseppe Pane.
A Marsiglia, Garibaldi tornò in qualità di capitano in seconda ad imprendere viaggi marittimi più o meno lunghi sopra diversi navigli, fintantochè sul brik il Nautonnier di Nantes partì per Rio-Janeiro, ove le inaudite avventure guerresche del nostro protagonista dovevano aver principio.
Non crediamo però inutile, prima di seguire il redentore delle due Sicilie oltre l’Atlantico, ricordare che durante il suo soggiorno nella popolosa città dei Foci, egli, vedendo un giorno cadere nel bacino del porto un fanciullo, precipitatosi tutto vestito nell’acqua, pervenne a salvarlo, e che nella luttuosa circostanza del colèra, il quale menava, come ognun sen sovviene, le più fiere stragi a Marsiglia, mancando gli infermieri negli ospedali, giacchè chi non ammalava e moriva disertava le mura della contristata città, Garibaldi si offri volontario, e durò quindici giorni, finchè la pestilenza non cominciò a diminuire d’intensità, in quel pio, quanto perigliosissimo incarico.
Pochi giorni dopo aver messo piede a terra a Rio-Janeiro, il nostro eroe si stringe in amicizia col Rossetti e con esso si occupa per alcun tempo di affari commerciali, sebbene avesse per tali affari tutt’altro che propensione. Di là a non molto riescono entrambi a porsi in relazione con un Zambeccari, figlio del famoso aereonauta di tal nome perdutosi in un viaggio in Siria, e con Bento Gonzales, presidente della repubblica di Rio-Grande, entrambi detenuti prigioni in un forte presso l’imboccatura del porto.
Rio-Grande era allora in guerra col Brasile e lo Zambeccari, segretario del Gonzales, propose ai nostri due compatrioti di armare un piccolo bastimento, sul quale essi facevano il cabotaggio, a corsaro, onde recar danno al commercio brasiliano; e siccome questa proposta non dispiacque allo spirito azzardoso dei due amici, così Garibaldi fu messo in rapporto col presidente della repubblica americana e si ebbe dalle proprie sue mani le lettere di marca che lo autorizzavano a imprender la corsa. Egli è di tal guisa che il nostro protagonista da semplice e fino allora pacifico marinajo divenne uomo di guerra.
Provvedutisi d’armi che ascosero sotto merci in fondo alla stiva, accompagnati da sedici arditi gagliardi, Garibaldi e Rossetti salparono da Rio-Janeiro, e drizzando il viaggio verso le isole Marica, site a cinque o sei miglia fuor dell’imboccatura della rada, abbordarono ad una di quelle e colà attesero che capitasse la preda. Nè questa si fece aspettare. Una goletta che navigava sotto bandiera brasiliana, ma appartenente a ricco austriaco abitante l’isola Grande, carica di caffè che recava in Europa, fu la prima presa del nostro protagonista, il quale non se la poteva desiderare più accetta, appunto perchè fatta a danno d’un nemico d’Italia. Garibaldi e i suoi non incontrarono in quel primo fatto veruna resistenza, e intimata appena la resa furono padroni del naviglio. Non appena salito a bordo il nostro nizzardo si vide venire incontro un passeggero portoghese, che gli sporgeva una cassetta riboccante di diamanti, a riscatto della vita.
L’eroe di Milazzo chiuse il coperchio della scatola e con quel dolce sorriso che non appartiene che a lui:
— Conservate, conservate, amico mio, gli disse, le vostre ricchezze per una migliore occasione, giacchè in questa la vostra esistenza non corre, certo, il menomo rischio.
I corsari erano troppo poco numerosi per poter conservare i due legni; quindi affondato quello col quale avevano incominciato la guerra, montarono la goletta cui fu dato il nome di Scarro-Pilla (straccione), poco lusinghiero predicato che nell’impero del Brasile veniva dato agli abitatori delle giovani repubbliche del mezzogiorno.
Messi a terra i prigionieri, la goletta si recò a gettar l’áncora a Maldonato, stato della repubblica orientale dell’Uruguay, ove si rimase otto giorni, e d’onde dovette partire perchè Oribe, che nella sua qualità di capo della repubblica di Montevideo non riconosceva le altre repubbliche, aveva dato ordine d’arresto contro Garibaldi e di presa a danno del suo naviglio.
Dirigendosi verso la Plata, dopo due giorni di navigazione, alla distanza di sei miglia dalla punta meridionale di Gesù-Maria, Garibaldi vide venirsi sopra due barche, che alla prima credette amiche, ma che dopo più attenta ispezione sembrandogli sospette, l’indussero a dar gli ordini opportuni, onde tenersi pronti a combattere. La precauzione non era inutile. La prima barca che si avanzava verso lo Scarro-Pilla, non avendo apparentemente sovra il suo ponte che tre individui, si copri ad un tratto d’armati, e mentre una voce gridava: arrendetevi! senza aspettare neppur risposta all’intimazione, da bordo della barca si fece fuoco sulla goletta garibaldina.
Il nostro eroe, dato di piglio al suo fucile e gridato: all’armi! trasmise un ordine al suo timoniere, che questi, caduto estinto ai primi colpi dell’avversario non poteva certo eseguire. Lanciatosi allora verso il timone onde far virar di bordo la goletta, Garibaldi stesso venne ferito da una palla che gli traversò il collo tra l’orecchia e la carotide e lo rovesciò esanime sul ponte.
Ma i marinari del nostro protagonista, fra i quali si contavano parecchi italiani, non perdutisi d’animo, sostennero il combattimento con tanto vigore che il nemico, contando una diecina de’ suoi fuor d’azione, si dette alla fuga.
Garibaldi, riavutosi dal suo svenimento, potè appena indicare col dito sopra una carta geografica che gli si era messo sottocchio, la direzione di Santa Fè nel fiume Parana, e fortunatamente tenendo quella rotta incontrò all’imboccatura dell’Ibiqui un naviglio comandato da un ottimo capitano maonnese, che il provvide di molte cose di prima necessità, gli dette commendatizie pel Gualeguay, e sopratutto pel governatore della provincia d’Entre Rios, don Pasquale Echague, il medico del quale, don Ramone Delarea, giovine argentino del più gran merito, estrasse la palla ch’era rimasta nella ferita del nostro eroe, e lo curò, durante diverse settimane, col più gran disinteresse fino a guarigione perfetta.
Garibaldi soggiornò sei mesi a Gualeguay, dimorando in casa di un don Giacinto Andreas che il colmava di gentilezze; un inconveniente soltanto turbava il suo animo, e questo inconveniente era ch’ei si vedeva in certa qual guisa ritenuto prigione, e che la sua goletta potea dirsi confiscata, sebbene gli si passasse uno scudo al giorno a titolo di compenso.
Quell’idea di prigionia gli sembrò così insopportabile che il nostro protagonista volle fuggire. Tradito da una guida, dato in pugno d’una mano di cavalieri, fu ricondotto legato come un malfattore a Gualeguay, ove un barbaro giudice, don Leonardo Millan, dopo avergli vanamente ultimato di denunziare coloro che avevano favorita la sua fuga, ebbe la crudeltà di farlo mettere alla tortura.
Sospeso pei polsi delle braccia a cinque piedi da terra, egli restò due ore in sì straziante positura, e non essendosi piegato a far nessuna rivelazione, fu caricato di catene e gettato in un carcere, ove il futuro liberatore d’Italia sarebbe forse morto, se la pietà di una donna, la signora Alleman, nol soccorreva in mille guise e il restituiva alla vita. Traslocato in Bajada, capitale della provincia, Echague il restituiva a libertà.
Più tardi la fortuna dell’armi fece cadere tra le mani del nostro eroe tutti i capi militari della provincia del Gualeguay; ei li fece liberar tutti, senza permettere che si recasse loro la benchè menoma offesa; soltanto non permise che gli si conducesse dinanzi il Millan, temendo che la costui presenza il facesse trascendere a commettere un qualche atto men degno di sè!
Imbarcatosi sovra un brigantino italiano, il nostro protagonista si recò a Montevideo, ove s’imbattè in molti amici, tra cui Gian Battista Cuneo e Napoleone Castellini. Là ritrovò pure il Rossetti, insieme al quale, dopo un mese di soggiorno, si portò a Piratinin, sede del governo di Rio-Grande, la capitale (Porto Allegro) essendo caduta in potere degl’imperiali.
Non crediamo far cosa discara al lettore dandogli una descrizione, cavata dalle memorie di Garibaldi redatte dal Dumas, del Piratinin, paese de’ più belli e pittoreschi del mondo.
«Il territorio è diviso in due regioni; regione piana, e regione montuosa.
«La pianura è completamente tropicale; là sorgono il banano, la canna da zucchero e l’arancio. Tra i fusti di tali piante striscia il serpente a sonagli, il serpente nero, e il serpente corallo; là, come nelle giungle indiane scorrazzano il tigre, il giaguar e il puma, inoffensivo leone della grossezza d’un cane del San Bernardo.
«La regione montana è temperata invece come il bel clima di Nizza; ivi si raccoglie la pèsca, la pera e la susina, tutte in una parola le frutta d’Europa: ivi si estollono quelle stupende foreste, di cui niuna penna varrà mai a dare la descrizione esatta, coi lor pini dritti quali alberi da nave, alti ben cinquanta braccia dal suolo, e di cui sei uomini appena bastano ad abbracciare il tronco. All’ombra di quei pini crescono i tacaros, gigantesche canne, che simili alle felci anti-diluviane pervengono ad ottanta piedi d’elevazione, sebbene alla base sieno appena grosse quanto il corpo d’un uomo; ivi si rinviene la barba de pao, o, traducendo alla lettera, barba degli alberi, che si adopra a mo’ di tovagliuolo, e quelle liane il cui molteplice intrecciamento rendono inestricabili i boschi; colà si trovano quelle vaste praterie, dette campestre, in cui sorgono intere città: Lima da Serra, Vaccaria, Lages; — non soltanto tre città, ma tre dipartimenti; — popolazione caucasiana, d’origine portoghese, e omericamente ospitale.
«Colà il viaggiatore, non ha bisogno di dir cosa alcuna, nè di chiedere checchè si sia. Entra nelle case, sen va direttamente nella camera riservata all’ospite, e i domestici vel raggiungono, lo scalzano e gli lavano i piedi; rimane il tempo che vuole, parte quando gli torna comodo, non dice addio, non ringrazia neppure, ove il creda, e malgrado tale dimenticanza quegli che gli succede non è accolto men bene.
«Ivi e la gioventù della natura, il mattino dell’umanità.»
Accolto ammirabilmente a Piratinin dal governo di quella repubblica e dal suo cavalleresco presidente, Bento Gonzales, che pose a Garibaldi grande stima ed affetto, lo s’incaricò dell’armamento di due barconi ch’esistevano sul Camacua, fiume quasi parallelo al canale di San Gonzales e che al pari di questo sbocca nella laguna di Los Patas. Due altri piccoli legni furono messi sotto i suoi ordini, e sebbene la flottiglia avesse a lottare contro trenta navigli armati in guerra ed un vapore degl’imperiali, tuttavia, mediante mosse d’un’arditezza poco comune, mediante la leggerezza stessa di quei battelletti che potevano addossarsi alla costa, od anche venir tratti fuora dell’acqua quando si vedevano troppo dappresso inseguiti, non solo Garibaldi, secondato dagli energici suoi subordinati, valse a tenere il campo, ma ad inquietare seriamente il commercio dell’inimico, e a fargli alcune prede importanti.
Del resto il nostro protagonista ed i suoi non la facevano soltanto da marinai, ma anche se occorreva da cavalieri, mentre mettendo piede a terra trovavano tutto l’occorrente per trasformare le agguerrite ciurme in isquadroni, poco eleganti se il vogliamo, ma solidi e formidabili.
Un tal giorno in cui Garibaldi era sbarcato insieme a tutta la sua gente, per riparare i barconi, e per salare le carni che servivano a lor nutrimento, mentre che gli uomini si erano dispersi in tutte le direzioni per occuparsi ciascuno della propria bisogna, il nostro eroe, rimasto solo col cuoco dinanzi un baraccone ove erano riposte le armi, udì ad un tratto con sua grande sorpresa suonarsi alle spalle la carica. Era il colonnello degl’imperiali Moringue, soprannominato la faina, a cagione della sua accortezza nel perpetrare stratagemmi di guerra, che alla testa d’un cento cinquanta uomini, cavalleria e infanteria, avanzatosi pian pianino e senza farsi scorgere dai Garibaldini, si spingeva all’attacco del baraccone ove era stato informato che questi abitualmente convenivano allorchè mettevano piede a terra. Il nostro eroe non si perdette di animo un solo istante. Dal banco sul quale se ne stava seduto, d’un salto schizzò dentro al baraccone, entro il quale lo seguì il cuoco e di cui ebbero tempo appena d’assicurare la porta. Là dentro si trovavano sessanta fucili belli e carichi; Garibaldi ne afferra uno e fa fuoco, poi un secondo, ed un terzo e tre nemici cadono esanimi al suolo.
Il colonnello Meringue, che non poteva mai più credere che il suo avversario si trovasse solo entro quel meschino recinto di tavole, tanto più che il cuoco si era pur messo a tirare e che ogni colpo dei due cadendo nella massa feriva od uccideva, dette ordine ai suoi di allontanarsi d’un centinajo di passi dal baraccone e di rispondere al fuoco che ne usciva.
Garibaldi allora si tenne per salvo, e lo era difatti. Siccome il cuciniere non sapeva mirar bene al pari di lui, e che in quella situazione non dovevasi sprecare veruna botta, il nostro eroe gli ordinò di contentarsi di ricaricare le armi scariche e di dargliele a misura dell’occorrenza, ben sicuro che i propri uomini, udendo lo scoppiettio della fucilata, non avrebber tardato ad accorrere.
Difatto, di là a non molto, uno ad uno, e passando con grandi stenti attraverso i tiragliatori nemici, tredici de’ soldati di Garibaldi gli furono a fianco e imitando l’efficacissimo esempio del loro condottiero, sostennero il fuoco durante cinque ore. Finalmente uno di quei valorosi pervenne a spezzare il braccio al colonnello Meringue; questi dette ordine allora di ritirata e partì trasportando seco i suoi feriti e lasciando quindici morti sul terreno.
Il nostro protagonista, dal canto proprio, de’ suoi tredici uomini ne aveva perduti cinque uccisi e cinque ne aveva pure feriti; de’ quali ultimi tre non tardarono poscia a perire.
Questo eroico fatto valse efficacemente ad accrescere fama al futuro trionfatore dell’Urban, sicchè quando si trattò di muovere una spedizione contro Santa Caterina, si pensò a lui, decidendo ch’ei vi prendesse attiva parte sotto gli ordini del generale Canavarro.
Siccome però non potevano i due barconi uscire dalla laguna, giacchè le imboccature di questa erano con forze preponderanti custodite dagl’imperiali, onde ovviare a sì grave inconveniente, Garibaldi, che tra l’eccelse qualità d’uomo di guerra ond’è distinto possiede in sommo grado quella di aver sempre pronta la risorsa e il mezzo di scampo nelle circostanze più critiche e perigliose, pensò a far caricare i due bastimenti su enormi carri appositamente costrutti e trascinati da duecento bovi che li tradussero sulle rive del lago Tramandai. Di colà, non senza aver superate le più aspre difficoltà, pervennero a prendere il mare. Ma la stessa sera in cui a sì grande stento erasi ottenuto cotal risultato, una spaventosa tempesta spingeva contro la costa il barcone guidato dal nostro eroe in persona, il quale, trovandosi al momento della catastrofe sulla cima dell’albero di mezzo, d’onde sperava scoprire un passaggio attraverso gli scogli, fu dall’urto scagliato ad una trentina di passi di distanza.
Sebbene ei si trovasse nella più perigliosa situazione, sapendosi abilissimo nuotatore non si preoccupò un solo istante della propria salvezza, ma sibbene di quella de’ suoi compagni di sventura, e riunendo una porzione degli oggetti che a cagione di lor leggerezza potevano galleggiare, sì dette a respingerli verso l’abbattuto barcone, mantenuto ancora dalla propria alberatura con un fianco fuora dell’onde. Sventuratamente gli sforzi proprio sovrumani del nostro eroe non poterono impedire che sedici degl’intrepidi suoi marinari non perissero, e tra questi sei italiani, due dei quali affezionatissimi a Garibaldi.
Dopo esser riuscito a trionfare dello straziante dolore che tanta perdita gli aveva arrecato, mediante un supremo sforzo della ferrea sua volontà, il nostro protagonista si mise alla testa dei superstiti e si avanzò nelle terre le cui coste erangli state così fatali.
Per fortuna quella porzione della provincia di Santa Caterina ove era accaduto il sinistro si era già sollevata contro gl’imperiali, dimodochè i naufraghi, invece di trovar de’ nemici, furono accolti da fedeli alleati, che misero a lor disposizione tutti quei mezzi di trasporto dei quali nella lor povertà era lor dato far uso.
Rimessisi quindi quasi subito in marcia onde raggiungere l’avanguardo del generale Canavarro, comandato dal colonnello Teneira, che si recava quanto il poteva rapidamente sulla laguna onde impadronirsi della metropoli, assistè alla reddizione di questa, la quale, a vero dire, non oppose seria resistenza, mentre l’inimico battè prontamente in ritirata dopo un lieve combattimento, lasciando in poter dei repubblicani tre piccole navi da guerra. Della principale tra queste, l’Itaparika, fu affidato il comando a Garibaldi, che ne prese possesso insieme ai superstiti del barcone.
Si fu in quella circostanza che il futuro difensore di Roma si acquistò una tenera, una devota compagna, la sua Anita, la cui prematura morte, sulle sponde dell’Eridano, nel 1849, sparse di tanto lutto i di lui giorni.
Alcuni dì dopo il generale in capo Canavarro metteva sotto gli ordini di Garibaldi due golette ed un brick, confidandogli la rude missione di attaccare i legni imperiali che incrociavano sulle coste brasiliane.
Questi però erano tanto superiori in numero e in armamento che ci voleva tutta l’audacia, la destrezza e l’abilità del nostro eroe, non solo per pervenire a far delle prese quasi sotto il loro tiro, ma anche a conservare tali prese e guidarle in sicuro una volta fatte.
Ci duole di non poter descrivere con dettagli varî scontri e il lungo combattimento sostenuto a Imbituba dalla squadriglia garibaldina, digià ridotta in male stato, contro navi da guerra imperiali di grossissima mole. Sbarcati due cannoni a terra, giacchè uno dei suoi bastimenti era stato fin dal bel principio della lotta inutilizzato dal fuoco nemico, Garibaldi sostenne l’urto avverso durante cinque ore, e finì coll’indurre gl’imperiali a ritirarsi, avendo subite gravissime perdite, tra le quali non ultima quella del loro ammiraglio ucciso da un colpo di fuoco.
Si fu pure durante sì fiera ed eroica battaglia che il nostro protagonista ebbe a sopportare una delle più vive e crudeli emozioni che nell’accidentata sua esistenza gli sia venuto fatto di subire. Mentre che la sua Anita sul ponte della goletta incoraggiava con la sciabola in pugno i marinai, una palla di cannone la rovesciò sulla tolda insieme a due altri. Garibaldi si lanciò sovr’essa, credendo non trovar più che un cadavere, ma l’amata donna si rialzò sana e salva; i due uomini, invece erano rimasti uccisi. E siccome il consorte la supplicava a volersi ritirare sotto coverta, Anita rispose che intendeva ben recarvisi, ma per farne uscir fuora i paurosi che vi si fossero ricoverati.
Ma intanto, volgendo a male le cose pei repubblicani, giacchè gl’imperiali per la pacificazione del Para potevano concentrare contro di essi quasi che tutte le proprie armi, e perchè gli abitanti stessi di Santa Caterina e di altre terre della laguna, malcontenti del governo dei primi, incominciavano a far coi secondi causa comune, il nostro protagonista, dopo aver ricacciato il nemico da Imerni, si vide solo coi suoi tre navigli contro una flottiglia ostile di ventidue vele che combinava le sue mosse coi soldati di terra e che trasportava, oltre i suoi equipaggi, numerose truppe da sbarco.
Una sì poderosa forza non isgomentò l’animo veramente sublime del nostro eroe, il quale coi suoi tre legni, contando anche sul fuoco d’una batteria da esso fatta inalzare sulla punta del molo, sebbene con pezzi di tenue calibro, si dispose contrastare l’entrata della laguna agl’imperiali.
Il combattimento riuscì terribile; tutti i cannoni di Garibaldi furono smontati dal soverchiante fuoco nemico; tutti i suoi ufficiali furono uccisi; egli solo e la sua intrepida Anita, che durante quanto fu lunga la pugna non si dipartì dal suo fianco, rimasero illesi. La provvidenza che il serbava a redimer l’Italia fece un miracolo e il preservò in tanta strage.
Nonostante, piuttostochè che cedere, Garibaldi invia la sua coraggiosa compagna al generale in capo, onde chiedergli rinforzi d’uomini a resistere ancora. Questi, che il credeva morto, gli fa rispondere non aver gente da inviargli, abbandonasse gli avanzi de’ suoi bastimenti e si ponesse in salvo. Il nostro eroe a malincuore cede a tal ordine, ma non si ritira prima d’aver recato in sicuro, egli e la valorosa Anita in più e più viaggi, compiti attraverso la grandine delle palle e della mitraglia, quante più armi e munizioni poteva, e prima d’aver messo il fuoco, e aver veduto bruciare i proprî navigli.
Da quel momento Garibaldi cessa d’esser marinaro per diventare ben tosto un valente condottiero di truppe.
Messosi alla testa di quel pugno di prodi che erano scampati alla terribile battaglia della laguna, montato sopra un buon cavallo, armato di una sciabola e di un’ottima carabina, colla sua fida compagna che cavalcagli a fianco, ei si sente felice, e pieno di baldanza si getta nella nuova carriera che gli si apre dinanzi.
Questa incomincia con un trionfo riportato a Santa Vittoria; quindi, per un’imprudenza del colonnello Teneira che comandava la colonna, tratta questa in una imboscata, è battuta e dispersa, ad eccezione del nucleo di prodi strettisi intorno al coraggioso nostro compatriota, presso al quale si rannodano ben presto una settantina d’uomini, a capo ai quali Garibaldi, inseguito da un mezzo migliajo di cavalieri nemici, compie una meravigliosa ritirata fino a Lages, d’onde poi raggiunge a Mala Casa il quartiere generale di Bento Gonzales, che esercitava ad un tempo le funzioni di presidente e di generale in capo. Quivi prende parte ad alcune marcie e contro-marcie, disposizioni d’attacco e di battaglie, che poi non si verificano a cagione dell’esitanza dei due duci supremi delle armate avverse, e più tardi all’attacco di San José del nord. Ma ben presto l’armata repubblicana, che si componeva quasi assolutamente di volontari, pel ritirarsi successivo di questi, cominciò a sminuirsi talmente, che l’infanteria si trovò ridotta in breve ad un fantasma, e che il po’ di cavalleria rimasta sotto le bandiere servì appena a proteggere la ritirata nei quartieri di Bella-Vista, d’onde Garibaldi venne inviato coi quaranta uomini che gli rimanevano del suo corpo a San Simone, collo scopo di far fabbricare alcuni canotti, mediante i quali il nostro protagonista contava di pervenire a riaprire le comunicazioni nel lago. Ma costretti di là a qualche mese i repubblicani ad abbandonare ancora quei luoghi per battere di nuovo in ritirata davanti agl’imperiali, che, possessori d’un’armata regolare assai più numerosa, non davano loro mai un sol momento di tregua, il nostro protagonista, vedendo che non si veniva ad un’azione decisiva, ma ch’era sempre d’uopo indietreggiare, non avendo il cuore di mirare più a lungo soffrire inauditi disagi e privazioni alla sua Anita, che gli avea in mezzo a quelle inennarrabili peripezie, dato un figlio, non sapendo neppure in quelle selvagge regioni più notizia alcuna d’Italia, chiese un congedo al presidente e si decise di tornare a Montevideo
Strada facendo si legò in amicizia coll’Anzani, e giunto a Montevideo, non tardò ad entrare al servizio di quella repubblica, accettando il comando della corvetta la Costituzione dapprima, poscia quello del brigantino da diciotto cannoni il Pereyra, coi quali legni, cui vennero poscia aggiunti la Teresia e il Procida, fu spedito a Corrientes per aiutarlo nelle sue mosse contro le forze del dittatore Rosas.
La spedizione era delle più rischiose, giacchè doveva farsi rimontando il Parana per ben seicento miglia tra due sponde nemiche, inseguiti da una squadra avversa quattro volte più forte della flottiglia di Garibaldi.
Ciò nonostante il nostro eroe è lungi dal perdersi d’animo; egli si pone in via col consueto ardimento, e dopo aver sostenuto un primo fuoco contro le batterie dell’isola Martin Garcia, si avanza in buon ordine, quando, per isventura, la Costituzione si arena e necessita un lungo e faticoso lavoro onde poter esser rimessa a galla.
Mentre i marinaj garibaldini sono intenti a opera così importante, eccoti comparire la flotta nemica, che fa forza di vele per piombar loro addosso. La situazione in cui si trovava il nostro protagonista era delle più malagevoli. Per alleggerire la Costituzione e poterla di tal guisa più facilmente rialzare, egli ne aveva fatto trasportare tutti i cannoni a bordo della goletta Procida, sopra il ponte della quale si trovavano ammucchiati, resi di tal guisa inutili, dimodochè non restava pronto a combattere che il brigantino Teresia.
Ma Garibaldi, che nelle occasioni, come quella, supreme, lungi dallo smarrirsi, sembra raddoppiare d’attività e d’energia, deciso a salvare, se non la vita, l’onore, non pensa un istante ad evitare la pugna, ma vuol riceverla nella miglior posizione possibile.
Sapendo i propri bastimenti più piccoli di quei del nemico, epperciò pescanti minor acqua, li fa appressare quanto meglio può alla riva, che offrivagli in caso di sconfitta un ultimo mezzo di salvezza: lo sbarco. Fa pure sbarazzare all’infretta il ponte della Procida, onde almeno taluno de’ suoi pezzi sia in caso di far fuoco, ed attende.
La squadra nemica era comandata dall’ammiraglio Brown, uno de’ più arditi ed abili marinari del mondo; quindi niuna meraviglia che attacco e difesa riuscissero al di là d’ogni espressione stupendi. Ci basti il dire che il combattimento durò tre giorni; che la mattina del terzo di Garibaldi, avendo ancora della polvere, ma difettando di projettili, fece spezzare le catene dei bastimenti, riunire i chiodi, i martelli, tutto quanto in somma eravi di metallo a bordo onde servirsene invece di palle e di mitraglia, e scagliarlo contro l’assalitore; che verso sera, perduta la metà de’ suoi uomini, fece appiccare il fuoco agli scheletri dei navigli, e col resto della sua gente, provveduta di moschetti e e di quel po’ di cartucce ch’eran rimaste, trasportando i suoi feriti, mise piede a terra. Ma ei si trovava lungi centocinquanta o duecento miglia da Montevideo ed in paese ostile. Respinto l’assalto della guarnigione dell’isola Martin-Garcia, si pose a traversare il deserto, vivendo delle poche provvisioni di cui si era munito e di ciò che poteva raggranellare cammin facendo, e dopo cinque o sei giorni di lotte, di combattimenti, di privazioni, di sofferenze, delle quali riuscirebbe vano il voler dare un’idea, rientrò in Montevideo.
Quel lungo certame, e diversi altri che il nostro protagonista ebbe in seguito a sostenere contro il Brown, riempirono questi di tanta ammirazione pel nostro compatriota, che allorquando l’ammiraglio americano, avendo abbandonato il servizio di Rosas, si portò a Montevideo, prima di recarsi ad abbracciare la sua propria famiglia, corse difilato a trovar Garibaldi e dopo esserselo tenuto lungamente stretto sul seno, rivolse ad Anita le seguenti parole: «Io ho pugnato a lungo, o signora, contro vostro marito, senza mai poterne trionfare; faceva quanto poteva per vincerlo onde condurlo meco prigione; ma egli mi resistè sempre e sempre mi fuggì; se avessi avuta la fortuna d’impadronirmene, si sarebbe accorto, dal modo con cui l’avrei trattato, della grande stima che io aveva concepita per lui.»
Oribe, il famigerato generalissimo di Rosas, vincitore ad Arroyo-Grande, si pose in marcia alla volta di Montevideo, dichiarando altamente che ove fosse riuscito a penetrarvi avrebbe fatto man bassa su tutti, non risparmiando neppure i forestieri. Allora questi sel tennero per detto, e non volendo cadere almeno senza combattere si organizzarono secondo le diverse nazionalità in legioni, formandosene una italiana, una francese ed una spaguuola.
La legione italiana non aveva paga; le venivano date soltanto razioni di pane, vino, sale, olio ecc., ed era stipulato che finita la guerra, i sopravvissuti, le vedove e gli orfani ricevessero doni di terre e bestiami.
Composta di circa ottocento uomini, la legione fu divisa in tre battaglioni, e il supremo comando ne fu affidato a Garibaldi.
Oribe, avanzatosi sino alle porte di Montevideo, non si azzardò ad entrarvi e dette tempo agli abitanti della città di rafforzarsi; il generalissimo di Rosas mise campo al Cerrito e le scaramuccie e i combattimenti d’avamposti ebber principio.
Se non che, avendo i Montevideini potuto riuscire ad organizzare una piccola flottiglia, il nostro protagonista tornò a farsi ammiraglio per guidarla, e desiderando che la legione italiana avesse una pronta occasione di segnalarsi, l’imbarcò tutta sovra una porzione della sua squadra per attaccare alla sua testa le truppe di Oribe assedianti il Cerro.
L’inimico, assalito alle due pomeridiane, alle cinque era disfatto: la legione, forte in quella fazione di soli quattrocento uomini, si scagliò alla bajonetta sovra un battaglione d’oltre seicento, dei quali più di cento cinquanta rimasero sul terreno, duecento cadder prigioni e gli altri vennero posti in fuga o malconci. Garibaldi, un po’ a cavallo, un po’ a piedi si era sempre mostrato là ove più ferveva la mischia, guidando i suoi, incoraggiandoli, elettrizzandoli colla voce e coll’esempio. Da quel momento il nostro eroe si tenne sicuro della sua gente: essa aveva generosamente ricevuto il battesimo del fuoco.
Difatto, di là a pochi mesi la legione italiana trovandosi di gran guardia, s’impegna un combattimento de’ più accaniti tra lei e il nemico intorno al corpo del colonnello montevideino Negra, che la prima voleva ritorre dalle mani del secondo, impadronitosene per sorpresa. Garibaldi, informato dell’avvenimento, non volendo lasciare la salma d’un sì prode ufficiale in potere delle genti ostili, prende seco un centinajo di uomini risoluti, carica il nemico e gli strappa di mano l’onorato cadavere.
Ma i soldati d’Oribe non si ristanno, e ricevuto un rinforzo dei loro, che ne aumenta il numero in modo da renderlo quattro volte superiore a quello degl’italiani, cercano inviluppare questi ultimi e farli tutti prigioni. I nostri compatrioti si stringono intrepidi intorno all’eroico lor condottiere, che con voce ferma li riordina e gl’incoraggia a resistere finchè gli altri legionarî accorrendo, tutto quanto il corpo garibaldino si trova alle prese coll’oste avversa e con irresistibile foga si slancia su questa, la rovescia, la caccia dalle sue posizioni e s’impadronisce di una batteria. Nè perciò il nemico si dà ancora per vinto, ma a sua volta riceve nuovi e poderosi rinforzi, composti di quasi tutte le truppe della guarnigione, e torna in massa alla pugna. Il combattimento si fa allora generale e dura con varie alternative per ben otto ore; costretti dalle soverchianti forze dell’avversario ad abbandonare le posizioni tolte di primo slancio, i nostri continuano sempre la lotta col più gran vigore, in modo da far subire al nemico ragguardevolissime perdite, e da convincersi ormai della propria superiorità sovra lui.
La legione italiana, che in quella fazione ebbe una sessantina d’uomini tra uccisi e feriti, rientrò vincitrice a Montevideo, ove a lei ed all’ardito suo capo furono fatte le più festose accoglienze; da quel momento essa incusse un tale terrore alle genti d’Oribe, che queste, quando se la vedevano calare addosso bajonetta in canna, non l’aspettavano mai, o se l’osavano talora, n’erano immanchevolmente travolte.
Più tardi, Garibaldi e il suo corpo, essendo di estrema retroguardia, al passaggio del fiume Boyada sostengono soli lo sforzo di tutta l’armata nemica e si coprono ancora di gloria.
Sì splendide azioni motivarono la seguente lettera, scritta d’officio dal generale Rivera a Garibaldi, lettera che noi riportiamo in intero in un colla risposta del liberatore delle Due Sicilie, onde si possa vedere che il di lui disinteresse, altrettanto sincero che assoluto, non data da jeri.
Ecco la lettera:
- «Signore,
«Allorquando, l’anno scorso, feci dono all’onorevole legione francese, dono che venne accettato, come avrete saputo per mezzo dei giornali, d’una certa quantità di terre, io speravo che il caso dovesse condurre al mio quartier generale qualche ufficiale della legione italiana, che mi avrebbe così dato agio di appagare un desiderio ardente del mio cuore, mostrando alla legione italiana la stima che io nutro per lei a cagione degl’importanti servigi resi dai vostri compagni alla repubblica, nella guerra che sostenghiamo contro la forza armata d’invasione di Buenos-Ayres.
«Per non differire più a lungo ciò ch’io riguardo come il compimento d’un sacro dovere, acchiudo col più gran piacere nella presente un atto della donazione che faccio all’illustre e valorosa legione italiana qual sincero pegno della personale mia riconoscenza per gli eminenti servigi da quel corpo resi alla mia patria.
«Il dono è certo inferiore a tali servigî, nè pari a quello che bramerei si facesse, e tuttavia io spero non rifiutiate d’offrirlo in nome mio ai vostri camerati, informandoli del mio buon volere, non che della gratitudine che io loro professo, gratitudine che non professo minore a voi, o signore, che così degnamente li comandate, e che anche anteriormente a quest’epoca, col prestare l’opera vostra in ajuto e sostegno della repubblica, vi siete acquistato un incontestabile diritto alla riconoscenza nostra.
«Colgo quest’occasione, colonnello, per pregarvi di aggradire le proteste della mia perfetta considerazione e profonda stima.
«Fruttuoso Rivera.»
È da notarsi che le terre da questo generoso patriota offerte alla legione italiana non eran già terre spettanti alla repubblica, ma facienti parte del proprio di lui patrimonio.
Ecco la risposta di Garibaldi:
- «Eccellentissimo Signore!
«Il colonnello Parodi, in presenza degli ufficiali tutti della legione italiana, mi ha consegnato, secondo che il desideravate, la lettera che aveste la bontà di scrivere in data del 30 gennajo, e con quella un documento mediante il quale fate donazione spontanea alla legione italiana d’una metà dei campi, proprietà vostra, giacenti fra l’Arroyo de las Avenas e l’Arroyo Grande a settentrione del Rio Negro, oltre ad una metà del bestiame e degli edifizî esistenti su quel terreno, come rimunerazione ai servigî resi dalla legione alla repubblica.
«Gli uffiziali italiani, dopo essersi pienamente informati d’ogni cosa contenuta nella vostra comunicazione, hanno a voti unanimi dichiarato, in nome della legione, che essi intesero, chiedendo d’essere armati e ammessi a dividere i pericoli del campo coi figli di questa contrada, d’obbedire unicamente ai dettami della loro coscienza, che avendo così soddisfatto a ciò che riguardano come un dovere, essi continueranno da uomini liberi a soddisfarvi, dividendo, finchè le necessità dell’assedio lo richiederanno, pane e pericolo coi loro valenti compagni del presidio di questa metropoli, senza desiderare o accettare rimunerazione e compenso delle loro fatiche. Ho in conseguenza l’onore di comunicarvi, Eccellenza, la decisione della legione italiana, alla quale i miei sentimenti e principî si uniformano interamente, e di ritornarvi l’originale della donazione.
«Possa Dio conservarvi per molti anni.
«G. Garibaldi.»
Nè il nostro eroe aveva dimenticato di essere un abile e intrepido marinaro, mentre con quell’attività che è una delle sue caratteristiche, spesso saliva con pochi de’ suoi valorosi sui navigli montevideini, e quantunque questi fosser piccoli e male armati, pure di notte tempo faceva delle scorrerie contro le flottiglie nemiche, e oltrepassando la linea del blocco si recava a far sua preda bastimenti mercantili argentini che solcavano il mare ad assai grandi distanze.
Una volta Garibaldi allestisce tre golette alla meglio e si risolve con quelle di recarsi ad attaccare di pieno giorno il nemico al suo posto d’ancoramento nella rada di Montevideo. La squadra di Rosas componevasi di tre navi: il Venticinque marzo, il Generale Echague e il Maypu, portanti quarantaquattro pezzi di cannone; il nostro protagonista non possedeva invece che otto soli pezzi e di picciol calibro, ma era sicuro dei proprî uomini e sapeva che ove gli fosse dato di venire all’abbordaggio, la sua vittoria era sicura.
Con tale risoluzione si avanzò contro la flotta avversa in linea di battaglia; già ne era quasi a portata di cannone, già il combattimento sembrava inevitabile, sicchè per non perderne di vista le peripezie, gli abitanti di Montevideo eransi tutti recati sulle terrazze, e gli alberi delle navi straniere stanzionate nel porto vedevansi gremiti di spettatori: quando il comandante della flotta argentina levò l’ancora e si dileguò in alto mare, coprendosi di vergogna, piuttosto che accettare la lotta. Garibaldi rientrò in Montevideo tra gli entusiastici evviva di tutta la popolazione.
L’intervento inglese e francese avendo in questo mezzo fatto cessare il blocco di Montevideo, il nostro eroe si pose a capo d’una spedizione colla quale rimontò il corso dell’Uruguay, fino al luogo detto il Salto, perchè il fiume forma in quel sito una cataratta, non essendo più navigabile al di sopra che da piccole barche. Nel lungo spazio percorso di tal guisa dai garibaldini, questi sbarcarono sovente e dettero combattimenti in cui furono sempre vincitori. Giunto al Salto, Garibaldi mette a terra di nuovo la sua gente, si slancia sopra il generale argentino Lavalleja, accampato in ottima e ben guarnita posizione, lo batte, lo fuga, quindi, trinceratosi a sua volta, resiste a tutti gli attacchi del generale Urquiza, il quale era accorso alla testa d’un’armata di quattromila uomini di cavalleria, mille fanti e una batteria da campagna. Durante ventitrè giorni il nemico rinnovò i suoi attacchi con un accanimento straordinario, ma sempre invano; alfine, convinto dell’inutilità de’ suoi sforzi, prese il partito di ritirarsi, avendo subito gravissime perdite.
In questo luogo appunto e in quel tempo avvenne uno de’ più splendidi fatti d’arme cui abbia preso parte il nostro protagonista in America, fatto d’arme che trovando noi descritto con molti particolari nelle memorie stesse del nostro eroe redatte dal Dumas, esponiamo tal quale l’ha dettalo il celebre autore francese.
«Verso le nove antimeridiane — è Garibaldi che parla — io partii con cento cinquanta uomini della legione e duecento cavalieri costeggiando l’Uruguay. Ci dirigevamo a Las Zaperas, a tre leghe di distanza dal Salto, fiancheggiati da quattrocento nemici appartenenti al corpo del generale Servando Gomez, sole forze che pel momento si trovassero in osservazione al Salto.
«La nostra infanteria prese posizione sotto un zapera — un zapera è un tetto di paglia sostenuto da quattro pertiche — il quale non offrivaci verun altro utile fuori quello di garantirci dagli ardenti raggi del sole.
«La cavalleria, comandata dal colonnello Baez e dal maggiore Caraballo, si stendeva fino al Zapevi.
«Anzani era rimasto alla difesa del Salto, malato ad una gamba, e seco lui infermi al pari di esso erano restati trenta o quaranta uomini. Una diecina d’altri stavan di guardia alla batteria.
«Erano circa le undici antimeridiane: io vidi avanzarsi dalle pianure del Zapevi verso le alture ove mi trovava un considerevol numero di nemici a cavallo; quasi nel tempo stesso m’accorsi che ciaschedun cavaliere portava in groppa un fantaccino. A corta distanza infatti dalle colline ove io mi trovava quei cavalieri misero i fanti a terra, i quali subito si ordinarono per marciare contro di noi.
«La nostra cavalleria aprì il fuoco contro il nemico, ma esso, superiore infinitamente di numero, la caricò e presto la mise in fuga; fuggendo, questa si diresse verso il nostro zapera, fino al quale già arrivavano le palle dell’avversario.
«Comprendendo allora che la vera resistenza doveva esser fatta dai miei legionari, e che laddove essi sarebbero avverrebbe la pugna, mi slanciai nella loro direzione; ma mentre arrivava alle prime file in mezzo al fuoco ostile, sentii tutt’a un tratto mancarmi sotto il cavallo, il quale cadendo mi trascinò seco a terra.
«Mi sorse subito in mente l’idea che la mia gente potesse credermi morto e che tal credenza valesse a sgominarli. Ebbi quindi la presenza di spirito nel cadere di togliere dalle fonde una pistola, e rialzandomi subito di esploderla in aria, onde si sapesse da tutti che io era sano e salvo. Mi si vide appena, di fatto, a terra, che già mi si scorse ritto in piedi tra le file de’ miei bravi.
«In questo mezzo il nemico andava ognor più avanzandosi con mille e duecento uomini di cavalleria e trecento d’infanteria, mentre che noi, abbandonati dai nostri cavalieri, eravamo appena un cento novanta in tutto.
«Non aveva, certo, tempo di fare un lungo discorso, d’altronde il farli lunghi non mi garba. Alzai, dunque la voce e non dissi che queste parole:
«— I nemici son numerosi e noi siam pochi; tanto meglio! chè meno siamo, maggiore sarà la nostra gloria. Vi raccomando la calma! Non si faccia fuoco che a brucia-petto, eppoi alla bajonetta!
«Queste parole erano volte ad uomini sui quali ogni accento produceva l’effetto della scintilla elettrica. Bisogna, dire, d’altronde, che tutt’altra determinazione poteva tornarci funesta, mentre s’egli era vero che; circa ad un miglio di distanza sulla nostra destra avevamo l’Uruguay, preceduto da qualche gruppo di boscaglia, era altresì incontestabile che dare il segnale della ritirata in tal momento, sarebbe stato lo stesso che correre alla nostra perdita, quindi io non vi pensai neppure.
«Pervenuta alla distanza di sessanta passi da noi la colonna nemica fece una scarica che ci recò gravi danni; ma i nostri le risposero con un fuoco ben più micidiale, e tanto più micidiale, in quanto che i nostri fucili non solo portavano la cartuccia ordinaria, ma dei pezzi di palla oltre a quella.
«Il comandante dell’infanteria cadde colpito a morte; le fila si disgiunsero, e alla testa de’ miei bravi, con impugnato un fucile, li trascinai meco ad una carica a fondo. Era tempo: la cavalleria era già pervenuta lungo i nostri fianchi e alle nostre spalle.
«La mischia fu terribile.
«Alcuni uomini dell’infanteria nemica dovettero la loro salvezza ad una rapida fuga; il che mi dette tempo di far faccia alla cavalleria. I nostri uomini fecero spontanei mezzo giro, come se ciascheduno di essi ne avesse ricevuto il comando, e tutti, officiali e soldati combatterono al par di giganti. Una ventina di cavalieri, condotti da un bravo ufficiale nomato Vega, arrossendo della fuga di Baez e della sua gente, che ci lasciavano soli, volsero briglia, amando meglio dividere la nostra sorte di quello che continuare la vergognosa loro ritirata. Quindi è che li vedemmo di improvviso ripassare in mezzo al nemico e tornare a collocarmi accosto. Ci voleva del coraggio, e non poco, ne sto garante, per fare quanto essi facevano.
«La carica che dettero per raggiungerci ci fu non poco utile in momento sì critico: essa separò e rovesciò l’inimico, una porzione del quale si era messa ad inseguire i fuggitivi. Così avvenne che alla nostra seconda scarica, la cavalleria, vedendo distrutta la sua infanteria e venticinque o trenta uomini de’ suoi caduti sotto il nostro fuoco, fece un passo di ritirata e mise a terra seicento soldati circa, che armandosi di carabine ne circuirono da ogni lato.
«Intorno a noi avevamo uno spazio di terreno coperto di cadaveri, di cavalli e di uomini, tanto nemici che nostri.
«Potrei narrare innumerevoli atti d’individuale valore. Tutti combatterono come i nostri antichi prodi del Tasso e d’Ariosto; molti erano coperti di ferite d’ogni specie, prodotte da palle di fucile, da lame di sciabola, da punte di lancia.
«Un trombettiere di quindici anni, che chiamavamo il Rosso e che ci animava col suono del suo strumento durante la pugna, fu colpito da una lanciata. Gettar la sua tromba, dar di piglio al coltello, scagliarsi sul cavaliere che avealo ferito fu l’affar d’un momento; soltanto nel colpire a sua volta il proprio avversario, spirò. Dopo il combattimento i due cadaveri furono trovati l’uno attaccato all’altro: il giovine era coperto di ferite; il cavaliere portava alla coscia la marca profonda d’un morso datogli dal suo nemico.
«Dal lato dei nostri avversarî si compierono pure atti di prodigiosa temerità. L’un d’essi, vedendo che quella specie di baraccone intorno al quale ci stavamo aggruppati, se non ci riparava dalle palle, almeno ci difendeva dai violenti raggi del sole, tolse un infiammato tizzo, mise il suo cavallo alla gran carriera, passò in mezzo a noi, e passando lanciò il tizzo sul letto di paglia.
«Quel tizzo cadde a terra senza produrre verun danno, ma ad ogni modo quel cavaliere aveva dato prova d’un ben nobile ardire! I miei uomini stavano per fargli fuoco addosso; io ne li impedii gridando: vita salva ai valorosi, son della nostra razza. Niuno vi fu che tirasse; era maraviglioso il vedere come io fossi obbedito. Una mia parola bastava a render forza ai feriti, coraggio ai dubbiosi, e addoppiava l’ardore nei forti.
«Quando vidi il nemico decimato dal nostro fuoco, stanco per la nostra resistenza, allora soltanto parlai di ritirata; ma dicendo: ritiriamoci — soggiunsi: io spero che non lasceremo un sol ferito sul campo di battaglia.
«— No, no! gridarono tutte le voci; del resto feriti là eravamo quasi che tutti. Quando adunque vidi che ognuno era calmo e rassicurato, detti tranquillamente l’ordine d’indietreggiar combattendo. Per fortuna io non aveva neppure una graffiatura, il che mi permetteva di trovarmi per tutto, e quando un nemico troppo temerariamente si appressava, lo faceva pentire della sua temerità. I pochi intatti che tra noi si trovavano, cantavano inni patriotici, cui i feriti replicavano in coro; il nemico ne stupiva.
«Il mancar d’acqua ci faceva soffrire più d’ogni altra cosa: alcuni strappavan radiche dal suolo e le masticavano, altri succhiavan palle di piombo, taluni bevvero la propria orina. Finalmente giunse la notte e un po’ di fresco con essa. Chiusi i miei uomini in colonna e posi in mezzo i feriti; due soltanto, ch’era impossibile trasportare, furon lasciati sul campo di battaglia.»
L’indomani il nostro protagonista scriveva la seguente lettera alla commissione della Legione italiana residente in Montevideo:
- «Fratelli,
«Ier l’altro abbiamo sostenuto nei campi di Sant’Antonio, ad una lega e mezzo di distanza dalla città, il più terribile e il più glorioso dei nostri combattimenti. Le quattro compagnie della nostra legione e una ventina d’uomini di cavalleria, refugiati sotto la nostra proiezione, non solamente si sono difesi contro mille e duecento uomini di Servando Gomez, ma hanno interamente distrutta l’infanteria nemica, che li aveva assaliti in numero di trecento bajonette. Il fuoco, cominciato a mezzogiorno, è finito a mezzanotte. Nè la quantità dei nemici, nè le cariche sue ripetute, nè la sua massa di cavalieri, nè li attacchi de’ suoi fucilieri a piedi hanno potuto sopra di noi; sebbene non avessimo altro riparo che un baraccone ruinato sostenuto da quattro pali, i legionari hanno costantemente respinti gli assalti dell’accanito avversario. Tutti gli ufficiali sonosi fatti soldati in questa giornata; Anzani, che era rimasto al Salto, e cui l’inimico intimò l’ordine di arrendersi, rispose colla miccia in mano e il piede sulla santa-barbara della batteria, quantunque il nemico stesso lo assicurasse che noi eravamo tutti quanti morti o prigionieri.
«Abbiamo avuti trenta morti e cinquanta feriti, tutti gli ufficiali sono stati colpiti, meno Scarone, Saccarello primo e Traversi, tutti leggermente.
«Non darei oggi il mio nome di legionario italiano per un mondo d’oro.
«A mezzanotte ci siamo messi in ritirata sul Salto: eravamo appena un cento legionari sani e salvi.
«Coloro che non erano che leggermente feriti marciavano in testa, contenendo il nemico, quando ardiva di soverchio. È un affare che meriterebbe d’essere scolpito in bronzo!
«Addio! vi scriverò più lungamente un’altra volta
«Il vostro Giuseppe Garibaldi.»
Tali furono le prodezze del nostro protagonista in America, prodezze sulle quali ci siamo piuttosto indugiati perchè, come quelle che rimontano ad un’epoca di già alquanto remota, e che non sono troppo divulgate in Italia, meritavano a nostro avviso una speciale e particolareggiata menzione.
Informato dei moti della nostra penisola, dell’elezione di Pio IX e delle amnistie e promesse di riforme da questi e da altri sovrani nostrali pubblicate, Garibaldi, che se voleva guadagnarsi fama, gloria e scienza militare oltre l’Atlantico, nol faceva che con la speranza che gloria e scienza un giorno ei potesse spendere a prò della sempre amatissima patria, propose ai suoi compagni d’arme di tornare alla terra natia, onde dedicarle le proprie braccia, la propria vita.
Naturalmente tale proposta fu da quei generosi accolta con estremo entusiasmo; ma i mezzi del viaggio mancavano, mentre una domanda diretta al pontefice a nome di tutta la Legione del nostro eroe e dall’Anzani era rimasta senza riscontro, e quei prodi, a cominciare dal capo, mediante la loro stupenda abnegazione, non erano ricchi che di gloria.
Una sottoscrizione aperta tra i compatrioti stabiliti a Montevideo valse tuttavia a provvedere un brick ai garibaldini, cui il governo della Repubblica, malgrado la sua povertà, volle far dono di due cannoni e di ottocento fucili.
Rimesso appena piede in Italia, il nostro protagonista si presentò a Re Carlo Alberto in Roverbella. e fu da quel principe diretto al ministro della guerra Ricci, il quale non seppe far delle sue offerte quel caso che meritavano. Allora, un po’ indignato contro il governo piemontese, Garibaldi si unì al colonnello Medici, grande amico d’Anzani, morto sventuratamente appena tornato in patria, e seco lui recossi a domandar servizio al governo provvisorio di Milano. Questi accolse bene il nostro protagonista, gli diè titolo di generale e l’autorizzò ad organizzare de’ battaglioni di volontari lombardi. In pochi giorni meglio di tremila combattenti circondavano l’eroe di Montevideo, ed erano pronti a seguirlo per tutto ove contasse guidarli.
Ma le cose italiane già volgevano a male. Tentato invano il blocco di Mantova, spinta senza successo una ricognizione fin sotto Verona, perduta la posizione di Valeggio, impegnata per ricuperarla la battaglia di Custoza, nella quale l’eroismo de’ soldati italiani soggiacque, più che per il numero stragrande dei nemici, per la inintelligenza dei condottieri, principiò quella serie di sventure che in meno di due settimane ricondusse gli Austriaci a Milano.
Garibaldi, chiamato a difendere la capitale lombarda, fu arrestato in via dalla fatale notizia della conclusione dell’armistizio Salasco. Allora ebbe pensiero di conservare almeno la schiera ch’egli guidava, quel nucleo d’armati, ai quali altri si sarebbero aggiunti sin che fosse possibile alla loro testa di riprendere le ostilità. Ridottosi con rapida marcia da Monza, ove stava per penetrare, in Como, ebbe quivi a subire un primo e fiero disinganno, mentre fatto l’appello dei suoi, da cinquemila che erano, li trovò ridotti a duemila.
«Il capo di stato maggiore Bottaro — narra il Vecchi nella sua storia d’Italia, 1848 e 1849 — era fuggito pel primo con altri duecento da Luvino. Il buon generale presagì male da quei tristi principi, ma come colui che mai l’animo disfranca nelle avversità le più dure, pensò che gl’inesperti nelle cose e nei travagli della guerra, i quali tuttora gli rimanevano, avrebbero dal suo esempio tolto fiducia sulla loro forza e sulla nobile causa che avevano presa a difendere. La legione dei volontari fu a Varese il giorno sette e l’indomani a Sesto Calende, dove le sponde del Lago Maggiore formando alveo ristretto danno nome al fiume Ticino. Gli Austriaci l’avevan sempre inseguita, e fatto fuoco più volte contr’essa, speravano di sgominarla; giammai però si attentarono a seriamente attaccarla. Quivi il Garibaldi passò co’ suoi trafelati e stanchi a Castelletto sul territorio piemontese; e i tedeschi rimasero al di là; l’indomani però una trentina dei nostri tra i più arditi ripassarono il fiume, assaltarono il nemico, uno ne uccisero, ne ferirono due e riportarono indietro una lancia a trofeo. Sembra che quella levata di insegne fosse plaudita dal Re; egli però avrebbe voluto che i legionari si rimanessero dentro il confine, dirimpetto agli avamposti imperiali.
«Difatti il prode capitano restò qualche giorno nel dubbio su ciò che avesse a fare; era sua mente accogliere le migliaja ch’erano col Durando e col Griffini, unirli ai pochi suoi, fare una punta sul nemico tuttora immobile nell’alta Lombardia pel sospetto del ritorno del Re e del giungere de’ cotanto promessi e vantati soccorsi francesi, e rannodare un esercito nazionale a fine di trarlo ad una formidabile riscossa. Privo di viveri e di denaro, mosse a dì quattordici per Arona, chiese al municipio la somma di lire 10,000, e ne ebbe sette con venti sacca di riso e un migliajo e più razioni di pane; trattenne nove barche; volle dall’amministratore dei battelli a vapore sul Lago, il Radaelli, i due piroscafi, della forza di 30 cavalli ognuno, il San Carlo e il Verbano, e salito a bordo di quest’ultimo co’ suoi ufficiali, diede l’ordine della partenza, facendo rimorchiare dalle due macchine i barconi carichi d’armati, di munizioni e di vettovaglie. Molti i plausi delle popolazioni lungo le rive del lago sino a Luvino, dove le truppe sbarcarono verso le nove di sera. Il generale era da più giorni malato di febbre terzana e quello era il suo giorno di tremito convulso; pur nondimeno ei di persona dispose i suoi avamposti sulla strada di Germignaga, e sul lato opposto del paese.
«In sull’annottare venne avvertito che un drappello di settecento fanti imperiali senza alcun sospetto appressavansi alla borgata; incontanente egli pose in agguato cento uomini dietro una siepe tra la casa della contessa Crivelli e una casa detta della Beccaccia; altri cento li mandò per un piccolo colle che domina la strada di Varese; il resto lo lasciò come corpo di riscossa sulla ripa del lago. Per la fretta non si poterono mettere in posizione i due cannoni ch’erano a bordo. Allorchè gli Austriaci si furono tanto inoltrati da percuoterli in pieno, i rimpiattati levaronsi in piedi e con terribile grido fecero fuoco; le palle prendendo obliquamente le colonne in marcia, vi seminarono la strage. Alcuni danno in dirotta; altri, avvedutisi d’onde partivano le offese, volgono a destra per togliere posizione sul colle; ma bersagliati anche da quell’altura, parte s’impossessa della locanda, parte si forma in colonna a trecento passi dal paese. Il generale li attacca con duecentocinquanta uomini colla baionetta spianata, e l’istinto della propria conservazione prevalendo alla disciplina, dopo breve conflitto li spinge laceri e sanguinosi a fuga precipitosa. Quelli che eransi fortificati nell’albergo della Beccaccia opponevano una vigorosa resistenza; il capitano Vecchi e il maggiore Angelo con una compagnia del battaglione pavese corrono all’assalto, sfondano l’uscio di sotto e nell’ebbrezza del trionfo fanno pagar caro a quanti entro trovarono gli stupri, le rapine, le devastazioni di ogni maniera tollerate dal maresciallo nei suoi durante la guerra dei quattro mesi. Rimasero morti sul campo venticinque soldati e un ufficiale nemico; la legione ebbe quattro morti e otto feriti, fra cui vari ufficiali.»
Avendo rifiutato di riconoscere l’armistizio Salasco, e circuito per ogni dove da soverchianti forze nemiche, mentre le sue genti non assuefatte ai disagi, alle privazioni e alle fatiche si assottigliavano ogni giorno di più, dopo aver sostenuto un’ultima e disperata pugna a Morazzone contro un numeroso corpo imperiale, Garibaldi riparò in Isvizzera e giunse a Lugano seguito da soli ventinove individui, recante seco la bandiera forata da una palla di cannone.
Soggiornato alcun tempo colà, anche per curarsi della terzana che già da lunga pezza il tormentava, rientrò quindi in Piemonte, passò a Nizza e quivi rimase alcune settimane onde finire di ristabilirsi in salute. Ma in ottobre, dato convegno ai superstiti della sua legione in Livorno, s’avviò con essi per gli Appennini a Ravenna, da dove sul primo avea divisato recarsi in soccorso di Venezia, ma poscia, mutato consiglio, si mosse alla volta di Roma.
Noi non rifaremo l’istoria delle vicende politiche, mediante le quali quell’antica capitale del mondo divenne la sede d’un governo repubblicano alla cui testa era un triumvirato composto d’un Mazzini, d’un Saffi e d’un Armellini; nè ricorderemo come avvenisse la spedizione dei Francesi; solo diremo, che non appena si seppero sbarcati questi ultimi, il nostro protagonista, che per modestia aveva dapprima accettato grado e titolo di colonnello, venne promosso a generale, e fu messo a difendere le mura dell’alma città da porta Portese fino a porta San Pancrazio.
La sua brigata comprendeva i due battaglioni della sua legione, il battaglione detto dei trecento reduci, il battaglione universitario, forte di circa quattrocento combattenti, trecento guardie di finanza mobilizzate e infine un battaglione di fuorusciti politici, con circa un trecento uomini anch’esso, sicchè il totale sommavano a circa 2,500 soldati.
E qui, onde dare un’idea al lettore di queste truppe del nostro eroe, non possiamo trattenerci dal citare le eloquenti parole di quel valoroso patriota che chiamavasi Emilio Dandolo, sì prematuramente mancato all’Italia e agli amici:
«Garibaldi e il suo stato maggiore — egli dice — sono vestiti in blouses scarlatte, cappellini di tutte le fogge, senza distintivi di sorta, e senza impacci di militari ornamenti. Montano con selle all’americana, pongono cura di mostrar grande disprezzo per tutto ciò ch’è osservato e preteso con grandissima severità dalle armate regolari.
«Seguiti dalle loro ordinanze — tutta gente venuta d’America — si sbandano, si raccolgono, corrono disordinatamente in quà e in là, attivi, avventati, infaticabili. Quando la truppa si ferma per accamparsi e prender riposo, mentre i soldati affasciano le armi, è bello vederli saltar giù da cavallo e attender ciascuno in persona, compreso il generale, ai bisogni del proprio corsiero. Finita quest’operazione, sciolgono in tenda la sella, fatta appositamente così, nè più pensano a sè.
«Se dai vicini paesi non possono aver viveri, tre o quattro colonnelli e maggiori saltano sul nudo cavallo ed armati di lunghi lazos s’avventano a carriera per la campagna in traccia di pecore e buoi: quando ne hanno raccolto una buona quantità, tornano spingendosi innanzi il mal capitato gregge, ne distribuiscono un dato numero per compagnia, eppoi tutti questi ufficiali e soldati si mettono a scannare, squartare ed arrostire intorno ad immensi fuochi i quarti di buoi, i capretti, i porcellini, senza poi contare le minutaglie dei polli, delle anitre e delle oche.
«Intanto Garibaldi sta, se il pericolo è lontano, sdraiato sotto la sua tenda; se invece il nemico è vicino, egli è sempre a cavallo a dar ordini e a visitar gli avamposti; spesse volte vestito da contadino si avventura egli stesso in ardite esplorazioni; più sovente, seduto su qualche cima dominante, passa le ore col cannocchiale ad interrogare i contorni. Quando la tromba del generale dà avviso di apprestarsi alla partenza, gli stessi lazos servono a pigliare i cavalli che si erano lasciati liberi nelle praterie. L’ordine di marcia è stabilito fino dal dì precedente, e il corpo s’avvia senza che nessuno mai sappia dove si arriverà il giorno dopo.
«D’una semplicità patriarcale, e forse un po’ spinta, Garibaldi rassembra più ad un capo di tribù indiana che ad un generale; ma quando s’avvicina ed incalza il pericolo, allora è veramente mirabile per coraggio ed avvedutezza; ciò che gli manca per esser buon generale egli sa in parte compensarlo colla sua stupenda attività.
«La legione di Garibaldi, forte di circa 1000 uomini, era composta del più disordinato accozzamento di gente diversa. Giovinetti di 12 e 14 anni, chiamati dal più nobile entusiasmo e dalla naturale inquietezza, vecchi soldati riuniti dal nome e dalla fama del celebre condottiere di Montevideo, e in mezzo a questi molti di coloro che cercano nella confusione della guerra impunità e licenza, ecco di che era formato quel corpo veramente originale.
«Gli ufficiali erano scelti fra i più coraggiosi, e levati di piè pari ai gradi superiori, senza badare ad anzianità e regola di forme: oggi se ne vedeva uno colla sciabola al fianco, era capitano; domani per amor di varietà, ripigliando il moschetto, entrava nelle file, ed eccolo tornato soldato.»
Rifare l’istoria dell’assedio di Roma, di quella lotta energica e disperata, combattuta da un pugno di prodi male armati e peggio ordinati, secondati, tuttavia dal coraggio e dall’abnegazione del fiero popolo dell’eterna città, contro i primi soldati del mondo, sarebbe per noi assunto de’ più interessanti e graditi. Ma la natura del nostro libro non permettendoci di trattare tale argomento in quel degno modo che vorremmo, tanto più che la presente biografia ha già proporzioni assolutamente straordinarie, siamo costretti a ricordare in modo sommario le principali imprese del nostro protagonista durante quell’importante periodo della sua vita.
Il 30 aprile i Francesi si avanzavano verso le porte di Roma. Non si sapeva bene quali fossero le loro intenzioni, o per meglio dire, essi stessi ignoravano se avrebbero o no attaccato, se avrebbero o no trovata resistenza. Ma il dubbio non durò molto tempo; il generale Oudinot ordinò di penetrare ad ogni costo nella città per le porte Angelica e Cavalleggeri. Garibaldi che coi suoi guardava quelle porte si oppose all’avanzarsi delle schiere di Francia, e il combattimento, che dapprima s’impegnava mollemente e quasi con repugnanza dall’una parte e dall’altra, ben presto divenne micidiale, accanito. Le truppe del generale Oudinot furono dopo quattr’ore di pugna respinte con gravi perdite; un numero assai ragguardevole di prigionieri fu tratto in Roma. Bixio, che si distinse moltissimo in quell’importante fazione, ne fece alla testa della sua compagnia più di 500. Garibaldi, secondo il solito, durante la battaglia animava le sue genti, non solo colla voce, ma eziandio coll’esempio. I Romani al suo rientrare in città gli fecero un’ovazione delle più entusiastiche.
Sospese le ostilità contro i Francesi, l’eroe di Montevideo, che non poteva restare un momento nell’inazione, parte con una colonna alla volta di Palestrina, ed incontrata colà l’avanguardia dell’esercito napoletano, che muoveva alla volta di Roma, la carica arditamente, la respinge, e induce il re Ferdinando II ad ordinare la ritirata di quella porzione delle sue truppe. Rientrato appena in Roma, il nostro eroe muove incontro all’altro corpo d’esercito napoletano che si avanzava sulla via Appia, ed aveva già occupato Velletri.
Sotto le mura di questa città Garibaldi alla testa dei suoi cavalieri si scaglia contro il reggimento de’ cacciatori a cavallo di Napoli, comandati dal colonnello Colonna, e sopraffatto dal numero de’ nemici, quattro volte superiore alle proprie genti, malgrado l’indomita sua gagliardia è rovesciato a terra, e sta quasi per soccombere, quando una sua ordinanza uccide d’un colpo di pistola l’ufficiale napoletano che è sul punto di ferire forse mortalmente il futuro liberatore delle due Sicilie.
Accorsa l’infanteria garibaldina in ajuto al suo capo, questi, già rimontato a cavallo, riprende di subito l’offensiva, fuga i soldati di Ferdinando II, e si spinge nell’inseguirli fin sotto le mura di Velletri.
Si sa come durante la notte i Napoletani operassero una pronta ritirata verso Terracina. Se il generale Roselli avesse in tal circostanza acconsentito a secondare la proposta del suo ardito collega, quella ritirata avrebbe per avventura potuto essere seriamente inquietata, se non del tutto impedita — le forze della repubblica essendo troppo inferiori in numero alle napoletane per poter mai conseguire un tal resultato. — Difatti Garibaldi offriva di recarsi alla testa de’ suoi sotto Cisterna, la notte istessa, onde precludere la via all’esercito del re Ferdinando, prevedendo che questi avrebbe pensato a battere in ritirata, e in precipitosa ritirata, una volta che si fosse veduto assalire con energia dalle forze repubblicane. Il Roselli, che non conosceva bene il valore delle schiere garibaldine, e sopratutto l’indomabile ardimento che poteva ispirare in esse il loro capo, si oppose assolutamente a tal mossa.
Intanto, siccome si temeva a Roma l’appressarsi degli Austriaci dalla parte d’Ancona, si richiamava in tutta fretta Garibaldi nelle mura della città eterna, onde inviarlo a quella volta, per opporsi ai progressi degli eterni nemici d’Italia.
Ma appena rientrato in Roma, l’eroe di Montevideo non potè più pensare ad uscirne, mentre egli dovette resistere agli assalti impetuosi e improvvisi ai quali si spinsero il 2 giugno i Francesi, che, dopo un’accanitissima lotta, nella quale il nostro protagonista si coprì di gloria, riuscirono ad impadronirsi delle Ville Pamfily e Valentini, e di Monte Mario; Garibaldi potè appena, spargendo il più generoso sangue de’ suoi, restar padrone del Vascello.
Sappiamo come progredissero rapidamente e inesorabilmente i lavori d’assedio dei Francesi intorno a Roma, lavori che ogni giorno facevano perdere un terreno prezioso e uomini anco più preziosi alla città assediata, per istringerla di più in più entro una micidiale cerchia di ferro e di fuoco.
Il futuro vincitore di Calalafìmi, che non aveva requie, nè dì, nè notte, ch’era sempre presente là ove più sovrastava il pericolo, o ferveva la pugna, che continuava a tenere il suo quartiere generale entro la villa Spada, sebbene ogni giorno il casino da lui abitato venisse crivellato da ogni sorta di projettile nemico, si decideva a fare la resistenza la più disperata, e a tale oggetto proponeva al Triumvirato nientemeno che l’abbandono della parte trasteverina della città, la distruzione di tutti i ponti che questa con quella mettono in comunicazione, il barricamento di tutte le vie, ecc. ecc.
Questo progetto di disperata difesa non venne però accolto dai governanti di Roma; quindi, dopo un ultimo fatto d’arme a villa Spada, in cui il nostro eroe pagò ancora della propria persona in modo da veder cadere a sè d’intorno buon numero de’ suoi più fedeli, al momento stesso in cui le truppe di Francia penetravano nella città eterna, egli col cuore profondamente turbato, se ne allontanava alla testa d’una porzione degli armati che gli obbedivano.
Era suo disegno da prima di recarsi negli Abbruzzi, onde sollevare quelle popolazioni, e tentare digià allora di cacciare i Borboni dal trono di Napoli; ma più maturo consiglio lo indusse a dirigersi verso la Toscana, ove sperava potersi mantenere durante un certo tempo, appoggiandosi sui molti che osteggiavano il governo granducale. Senonchè, appena fornite poche tappe, la sua colonna si assottigliò in maniera, per le frequenti diserzioni, che appena componevasi ancora di 3000 uomini. — Ciò nulla ostante egli proseguì il sno cammino e penetrò in Toscana; ma recatosi sotto le mura d’Arezzo si vide chiudere in faccia le porte di quella città, e non avendo mezzi sufficienti per impadronirsene, dovette ritrarsene, e gettarsi coi pochi legionarî che gli rimanevano sugli Apennini, onde trovar modo di sfuggire di mano alle colonne austriache, che d’ogni banda correvano ad attorniarlo.
Allora incominciò per parte dei Garibaldini una serie d’operazioni altrettanto difficili per essi ad eseguirsi, quanto sarebbe malagevole per noi il descriverle.
Senza mezzi di trasporto, senza viveri, senza denaro, quella colonna dei difensori di Roma, assottigliala in modo, che appena più contava un migliajo di combattenti, si diede a fornir marcie e contromarcie su per sentieri dirupati, attraverso gole di montagne inaccessibili, sostentandosi non sappiam come, e sfuggendo per vero prodigio ai Tedeschi, che li stringevano da ogni lato, e anelavano d’impadronirsi di quel Garibaldi, che tanto li aveva già fatti sudare e correre invano per l’erte della Valtellina.
Trafelati, stanchi, possiam quasi dire esanimi, i Garibaldini trovarono alfine un rifugio nell’angusto territorio della repubblica di San Marino. Colà credettero un momento d’essere in salvo; ma indarno, che il generale Gorzkowski spediva un suo ajutante di campo per intimare ai reggitori del piccolo Stato la consegna di quei prodi e disgraziati fuggiaschi.
Resistettero i padri della repubblica di San Marino, quanto poterono e seppero; ma dovettero infine inchinarsi dinanzi alla volontà del più forte, e imporre in certo qual modo le condizioni del disarmo e della resa, garantita però la sicurezza delle persone, ai Garibaldini. — Una porzione di questi accettò i miseri patti, e pur troppo ebbe a pentirsene, giacchè gli Austriaci, lungi dal tener loro parola, li imprigionarono tutti e ne suppliziarono persino parecchi; un gruppo di 100, con Garibaldi alla testa, di nottetempo irruppero dai confini della debole repubblica, e lanciatisi entro Cesenatico s’impadronirono colà di tredici bragozzi di Chioggia, coi quali speravano poter giungere sino a Venezia.
Ma la flottiglia austriaca per fatalità vigilava, e non sì tosto ebbe veduto prendere il largo a quei deboli navigli, che può ben dirsi recassersi in grembo la fortuna d’Italia, diè loro la caccia, ed alcuni ne affondò a tiri di cannone, altri ne predò, altri infine ne astrinse a gettarsi contro il litorale.
Di questo numero appunto si fu il barcone, montato dal nostro eroe e dalla sua indivisibile Anita. — Appena il campione di Montevideo ebbe posto piede a terra, che licenziò i pochi compagni rimastigli, mentre per cercare uno scampo in mezzo alle frequenti truppe nemiche, era assolutamente indispensabile il tentarlo quasi isolatamente.
Il maggiore Leggiero solo accompagnò Garibaldi e la di lui moglie.
Allora per varî giorni i tre miseri fuggitivi si videro costretti a trascinare la vita la più meschina, la più travagliata, la più penosa che mai immaginar si possa. Di macchia in macchia, di palude in palude, privi di ogni sorta di cibo, eccettochè di alcuni tozzi di polenta loro offerti dalla commiserazione di qualche pescatore o taglialegna, nutrendosi il più spesso d’erbe e di radici selvatiche, dovendo ad ogni istante, quasi, cangiare di luogo d’asilo, senza speranza di trovarne uno sicuro, si videro ben presto giunti all’estremo dei loro morali e fisici patimenti, quando quell’imperterrita eroina, che aveva nome Anita Garibaldi, incinta di sette mesi, travagliata già dalla febbre, spirava di disagio, di privazioni e di strazio, fra le braccia dello sconsolato marito in un tugurio presso il lago di Comacchio.
Come mai il sommo uomo, del quale abbiamo impreso a narrare la vita, potesse resistere a tanta perdita, subíta in circostanze così dolorose, come mai egli non ismarrisse la mente, e non si portasse ad un atto di disperazione, vedendo intorno a sè fallite tutte le lusinghe del patriota, perduti, inesorabilmente perduti, tutti i conforti che all’uomo sogliono rendere più accetta resistenza, com’egli, diciamo noi, sapesse resistere a tanto pondo di sciagura, è ciò che veramente parrebbe inesplicabile, ove non ci persuadessimo, che la tempra del carattere del liberatore delle due Sicilie è tale da sostenere con invitta forza lutti quei mali che varrebbero a piegare e ad abbattere l’animo di qualsiasi altra persona.
Garibaldi continuò la sua via; la sua missione non era compita, egli lo sapeva, egli lo sentiva. Travestito, ajutato da mani amiche e devote, traversò sconosciuto tutta la Toscana, e pervenne alfine in Genova, ove fu salvo, ed ove potè trovare un riposo necessario, ma aimè! che pur troppo non potè far dividere a quell’angelo d’affetto che aveva sopportati con lui gl’inauditi disagi da esso sofferti.
Vero è che quell’angelo godeva ormai d’un ben più sicuro e fido riposo!
Trattenuto per qualche tempo quasi prigioniero in Genova, ebbe dal governo un bastimento col quale recossi a Nizza ad abbracciare la madre e i tre figli Menotti, Teresita e Ricciotti; dopo breve soggiorno portossi ad Algeri, ma fece vi breve dimora, e si condusse in America, ove si stabilì a Nuova-York, rimanendo colà tutto il 1850; ne partì quindi per recarsi al Perù.
Ivi fu mirabilmente accolto dalla colonia italiana risiedente in Lima, ed un ricco negoziante, Dinegri, gli propose il comando d’un suo bastimento mercantile, col quale fece diversi viaggi.
Ma l’amor della patria ferveva in esso troppo vivace, perchè potesse continuare a lungo a condurre la sua vita lungi dalla terra d’Italia. Indi è che, raunato un suo peculio, si fece a comprare quel nudo scoglio che ha nome Caprera, noto appena ai naviganti prima di allora, celebre adesso quanto alcun altro più famoso sito d’Italia.
Colà si stette occupandosi di agricoltura, e anelando a nuove patriotiche imprese, il nostro eroe, finchè risuonarono in Europa le famose parole pronunciate dall’imperatore Napoleone, mentre riceveva gli ambasciatori delle potenze straniere, il primo del 1859, dirette al barone Hubner rappresentante dell’Austria, parole che produssero sugli Italiani l’effetto che la tromba degli angeli produrrà il giorno dell’universale giudizio.
Il conte di Cavour che sapeva imminente la guerra contro l’oppressore d’Italia, da quell’uomo di profonda mente ch’egli è, non volle trascurare di servirsi a prò della causa nazionale di un elemento, ch’egli sapeva in parte, ed in parte presentiva, doverle tornare utilissimo. Quindi è che fece fare delle proposte a Garibaldi sul suo scoglio di Caprera, invitandolo ad assumere il comando dei volontarî italiani.
In questo corpo veramente eletto si inscrissero quanti più distinti giovani sotto ogni rapporto contava il nostro paese; studenti, artisti, letterati, nobili, figli delle più ricche ed agiate famiglie, accorrevano dalla Toscana, dalla Lombardia, dalla Venezia e dall’Emilia, per far parte di quella legione, alla cui testa doveva trovarsi il popolare guerriero, l’eroe di Montevideo e di Velletri.
Dopo aver superate alcune difficoltà di forma, il conte di Cavour riusciva a far nominare Garibaldi maggiore generale. Si dette al corpo a lui affidato il nome di Cacciatori delle Alpi; quel corpo ammontava a ben 5000 bajonette.
Non è nostra mente di rifare l’istoria della celebre campagna del 1859; ricorderemo soltanto al lettore i principali fatti compiuti dal nostro eroe, fatti che la istoria ha già consegnati nelle eterne sue pagine, per esser tramandati alla più tarda posterità, e che ora vivi e splendidi stanno nell’animo e nella memoria di tutti i contemporanei.
Passato il Ticino, con una manovra, quanto pronta altrettanto ardita, Garibaldi si avanza sino a Varese, ove mirabilmente secondato da quegl’intrepidi cittadini, può da prima contenere, quindi sbaragliare le schiere del maresciallo Urban, di quell’Urban che si era vantato di trionfare agevolmente del vincitore di Montevideo.
Presso Como egli raggiunge il nemico che lo aspettava ben munito sulle alture di San Fermo, e sbaragliatolo lo insegue indi impetuoso e terribile. L’Austriaco, quantunque fosse ben a lui superiore di numero e con artiglierie molte, pure si dette a sì precipitosa fuga da lasciarsi addietro bagagli, gran quantità di armi, feriti e prigioni.
Questi rapidi movimenti, e fortunati scontri facevano sì che, mentre ancora l’esercito alleato tenevasi sulla difensiva, già una gran porzione della Lombardia per fatto di Garibaldi e delle energiche sue schiere fosse liberata dalle tiranniche genti straniere.
Il Re si mostrò grato verso il nostro eroe e verso i suoi di tante prodezze, compartendo loro vivi encomî e onorifiche ricompense; la fama già gigante di Garibaldi si accrebbe in Italia e all’estero, ove tutti i giornali lo levavano a cielo.
Ben tosto, mentre l’armata alleata vinceva a Magenta, il gran zappatore del nazionale movimento si avanzava nella Valtellina, che faceva insorgere, e temerariamente quasi si spingeva sotto le mura di Brescia, sebbene quest’eroica città fosse ancora occupata dagli Austriaci. Ma questi, saputo appena l’appressarsi del liberatore di Como, la sgombrarono all’infretta, e non ancora l’ultimo tedesco aveva lasciato le mura di quella, che già in essa penetravano, festeggiati indicibilmente dalla commossa esultante popolazione, i Garibaldini.
Il combattimento di Treponti, sostenuto eroicamente dal nostro protagonista alla testa di poche bajonette de’ suoi cacciatori e di una truppa accogliticcia, male armata, di Bresciani, contro il nemico numeroso e ben fornito, che sembrava accennare ad un ritorno sopra Brescia; quello di Castenedolo vicino al Chiese, in cui con poche compagnie del suo reggimento, comandate dal colonnello Cosenz, si attentò ad attaccare le posizioni austriache, e superatele, si spinse tanto oltre da mettersi in grave pericolo, ove la sua ben nota valentia non l’avesse tratto di impaccio, cagionando gravi perdite all’oste avversa e provandone egli stesso in quantità notevole: questi combattimenti, diciam noi, erano gli ultimi in cui Garibaldi trionfava, durante quella breve e gloriosa campagna.
Egli stava a fronte di un corpo di 25,000 Tirolesi che tentavano il passo di Bormio e che aveva già respinti con gravi loro perdite e costretti a ritirarsi sullo Stelvio, abbandonando la Vecchia Rocca, antemurale di Rocca d’Anfo, quando venne a sorprenderlo, e bisogna pur dirlo, straziargli l’animo, la notizia della pace di Villafranca.
Accorreva Garibaldi tosto al quartiere generale del Re a Roverbella onde rassegnargli il proprio comando, e quello de’ suoi uffiziali; ma smosso dalle esortazioni del primo soldato della nazionale indipendenza, cui egli ama e stima supremamente, chinò il capo ed acconsentì di rimanersi al suo posto.
Lascialo indi a poco il comando dei suoi Cacciatori delle Alpi per esser promosso al grado di generale di divisione e comandante in capo dell’armata Toscana, si recò a Bologna, onde assumere quel comando, e lungo il cammino ch’ebbe a percorrere, e nelle più cospicue città, ch’ebbe ad attraversare, quali Genova, Livorno, Firenze, Modena, Parma e Bologna, dappertutto ricevè l’accoglimento il più festevole, il più entusiastico.
La truppa toscana, che dette prove sì chiare di patriotismo nel movimento spontaneo del 1859, accolse con inesprimibile soddisfazione sì illustre condottiero ma le circostanze politiche delle vicine provincie dell’Umbria e delle Marche, ispiravano a Garibaldi un’interesse così ardente, che si desiderava invano, in alto luogo, ch’egli si astenesse dal mostrare il suo vivo desiderio di liberarle al più presto dal giogo che le opprimeva. — Allora fu ch’ei credette dover dare la propria dimissione, congedandosi però dalle truppe, che a gran dispiacere il vedevan partire, col dire loro in un proclama dettato da Genova, che non cessassero dall’esercitarsi e dal disciplinarsi, mentre la pace poco aveva a durare, e la guerra del riscatto completo d’Italia non dovea tardare a rinascere.
Convocati intanto i Comizii elettorali del regno, che già chiamatasi italico, parecchi collegi inviavano al Parlamento qual loro rappresentante l’illustre generale.
Egli si recò a sedere nell’aula coll’anima martoriata dal crudele pensiero che la nativa sua Nizza dovesse venir spiccata dal diadema d’Italia per ornare l’imperiale di Francia. Forse in tal circostanza il di lui spirito fieramente commosso non seppe resistere al cruccio che l’affannava, e aperto e pronto quale egli è, si lasciò trascorrere a proferire dalla tribuna parole, che un uomo più freddo di carattere avrebbe forse creduto dover risparmiare.
Ad ogni modo il motivo che lo spinse a tanto, e che l’ha ancora in seguito animato nella sua opposizione contro il conte di Cavour, è fino ad un certo punto scusabile, giacchè emana da sorgenti purissime.
Ma un nuovo e più alto cimento si preparava nel quale doveva esser dato a Garibaldi di compiere una quelle più alte e maravigliose sue imprese a prò della patria italiana.
Nei primi giorni del mese d’aprile scoppia in Sicilia un movimento d’insurrezione contro l’odiosa tirannia borbonica; questo movimento, compresso un’istante nella generosa Palermo, si propaga nelle campagne, e vi si mantiene. — I valorosi Siciliani, però, sono stretti da ogni parte dalle armi borboniche, le quali ingrossano a dismisura; essi tendono le braccia verso le libere provincie d’Italia, onde averne soccorso.
Garibaldi si decide tosto a recarsi in ajuto di quei generosi isolani, e concepito appena il gran disegno, lo manifesta ai suoi più fidi, che si dichiarano pronti a seguirlo. Fra questi sono da menzionarsi Nino Bixio, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Sirtori, Cairoli e l’indivisibile Türr.
Prima di partire lascia una lettera al Re, nella quale gli esprime l’imperiosa necessità che lo induce all’impresa, protestando non aver consigliato il movimento insurrezionale della Sicilia, ma che dal momento in cui questo era accaduto a nome di quell’unità italiana, di cui Vittorio Emanuele appunto era la personificazione, ei non poteva esitare a mettersi alla sua testa, sebbene riconoscesse l’impresa essere delle più perigliose.
Questa missiva, che è un modello di affezione devota, termina con queste espressive parole:
«Io non ho partecipato il mio progetto a V. M.; temeva intatti, che per la riverenza che Le professo V. M. non riuscisse a persuadermi d’abbandonarlo.»
La soscrizione per il milione di fucili, dallo stesso Garibaldi promossa, fornì il denaro necessario ai primordi della spedizione; i due vapori il Piemonte ed il Lombardo, tolti di nascosto alla società Rubattino, vennero caricati delle armi e delle munizioni necessarie, e sovra essi i mille intrepidi salparono alla volta dell’antica Trinacria.
Dinanzi all’Europa attonita, che non può credere a sì grande, a sì generoso ardimento, solcano le onde i due piroscafi, sfuggono mediante la prontezza e l’abilità delle loro manovre alla numerosa crociera napoletana, e giungono a gettare salvi, e già ardenti alla pugna, Garibaldi ed i suoi seguaci dinanzi a Marsala.
L’eroe, appena sbarcato, corre in ajuto di Palermo, e a misura che si avvicina alla nobile città, il suo pugno di prodi fa la palla di neve, aumentandosi ad ogni piè sospinto di quei Siciliani che già stringevano le armi in pugno contro il loro oppressore, o che anelavano l’occasione di farlo.
Non possiamo aggiunger qui la descrizione dei combattimenti e delle battaglie, mediante le quali l’eroico condottiero riuscì con pochi, ma valorosi guerrieri a vincere la resistenza di un’armata, numerosa, agguerrita e avente in sua possessione le fortezze e tutti i luoghi muniti.
Ci basti il ricordare che Garibaldi, vincitore a Marsala, a Partenico, a Monreale, a Palermo, costrinse l’esercito regio borbonico a venir a patti con lui, e a cedergli la capitale dell’isola.
Poco dopo, la battaglia di Milazzo finì di distruggere ogni ombra di resistenza per parte dei nemici, e ad eccezione della cittadella di Messina, tutta Sicilia fu libera ed esultante.
Allora gli occhi del prode campione dell’indipendenza nazionale si volsero verso le vicine sponde del continente napoletano, ed anche questa volta, benchè Francesco II vedesse organizzarsi l’attacco, e disponesse le sue numerose schiere per combatterlo, non fu in caso di sapervi resistere; non appena i Garibaldini ebber messo piede nelle Calabrie, ch’ei già pensava a ritrarsi nella ben munita Gaeta. Chè, se Garibaldi non aveva un’armata ben fornita, bene equipaggiata e numerosa al pari della sua, aveva con sè la gloria del suo nome, l’amore e la fiducia della nazione italiana, che già da gran tempo il riguardava e predicava qual suo liberatore.
Difatto, cosa maravigliosa a dirsi, a misura che l’eroe si appressava, e ognun sa con quanta rapidità il facesse, cadevano le barriere, si dileguavano gli ostacoli, eserciti e generali nemici s’inchinavano a lui dinanzi, ed egli, quasi solo, giungeva alle porte di Napoli, ove non appena la popolazione di quell’illustre città il seppe pervenuto che accorse numerosa, entusiasmata, a salutarlo qual suo redentore.
Non parleremo degli atti governativi del Dittatore delle Due Sicilie; diremo solo che se tutti questi atti non furono improntati di quella saggezza che si richiede in profondo uomo di Stato, non deve di ciò farsi carico all’eroe nazionale.
S’egli commise alcuni errori — e qual’uomo mai non è soggetto ad errare? — li compensò con tanta magnanimità d’imprese, con tanta lealtà di operato, che in vero non sapremmo chi potesse ardire di muovergliene rimprovero.
Respinta l’armata borbonica fin’oltre le sponde del Volturno, mediante l’intrepidezza de’ suoi volontarî, Garibaldi, da quell’abile militare che egli è, comprese che a tanto doveva limitarsi il suo compilo, e che certo non era dato a lui ed ai suoi di espugnare i baluardi di Capua e di Gaeta.
Quindi è, che con un abnegazione di cui non saprebbe encomiarsi abbastanza, cedette al suo Re, ed alle regolari schiere italiane, alla testa delle quali si trovava il valoroso suo amico, generale Cialdini, l’importante bisogna di compier l’opera a sì buon punto condotta, e di cacciare dalla penisola la fedifraga borbonica dinastia.
In quanto a lui, l’eroe nostro, si ritrasse a quello scoglio di Caprera, sul quale adesso gli sguardi di tutta Europa ammiratrice sono rivolti, e colà, in un modesto riposo, che fa ricordare invero i più illustri cittadini del mondo antico, attende, con quella fede che mai lo abbandonò, nè lo abbandona, che il giorno, in cui il riscatto intiero e completo di tutta la penisola abbia ad operarsi, sorga alfine radioso. — Quando un tal giorno verrà, e non sia lontano! siamo certi di rivederlo alla testa dei suoi valorosi volontari accorrere a combattere le ultime pugne della nazionale indipendenza.
Garibaldi è un uomo troppo meraviglioso, perchè noi non dobbiamo arrestarci a cercare di porgere al lettore un’idea della di lui indole, del suo carattere.
L’eroe di tante ardite quanto stupende avventure, a chi gli rivolga, sopra tutto le prime volte, la parola, sembra freddo e riservatissimo. Il suo nobile volto è quasi sempre atteggiato alla meditazione; non fosse il lampo degli sguardi, che di tempo in tempo vi manifesta l’ardore dei più nobili sentimenti, vi credereste dinanzi ad un filosofo, o ad un’anacoreta dei vecchi tempi.
Le sue parole, conversando, escono a tuono sommesso dalle labbra; egli non alza mai la voce, quasichè volesse far meglio spiccare l’immenso contrasto che esiste tra la moderatezza dei suoi accenti, e l’ardimento inaudito delle sue azioni.
Del resto, il suo argomentare pacato e pieno di buon senso, è tale che lo si può giudicare, anche al semplice discorso, uomo di mente profonda. L’espressione ordinaria della sua fisonomia spira molta dolcezza, tendente un cotal po’ alla melanconia.
Noi non l’abbiamo mai veduto sul campo delle sue guerresche intraprese; ma ci vien detto da testimonî oculari, degnissimi di fede, che anche quando più ferve la pugna, Garibaldi non si diparte mai da quella sorta di tranquillità vigilante, pronta e perspicace. — Il suo colpo d’occhio nelle azioni campali è meraviglioso. I detrattori o gli avversari di Garibaldi lo hanno sempre accusato, non si sa troppo, del resto, su qual fondamento d’esser egli tutto al più un buon colonnello o capo-banda, piuttostochè un abile generale; noi crediamo invece tutto il contrario. Non già che Garibaldi, ogni volta che si è trattato e si tratta di menare le mani, o di caricare in testa ai suoi soldati il nemico, sia uomo da farlo men bene di chicchessia; ma non è men vero, che egli ha mostrato in più d’un’occasione, tanto in America, ove il campo era più ristretto, quanto nelle ultime campagne italiane, e in queste di Sicilia e di Napoli, ch’egli è in grado di sapersi servire d’un esercito in modo assolutamente abile e funesto al nemico. In fatto di guerra, e sopratutto pei grandi comandi, è assai erronea l’opinione di quelli che ritengono esser necessario aver fatti lunghi studî tecnici per riuscire sommo.
Alcuni dei più eccelsi generali dell’impero, tali quali Bernadotte, Lannes, Ney, Junot e Massena, erano usciti dalle file inferiori dell’armata. — Saint-Arnaud, egli stesso, il vincitore dell’Alma, è sorto a tanta altezza da semplice soldato di linea. — La cosa è talmente vera, che suol dirsi nelle scuole militari francesi, che i fruits secs (con questi vocaboli si designano quegli allievi che hanno gli ultimi numeri nei concorsi annuali d’uscita) divengono marescialli, ed i primi premi (prèmiers prix), destinati al corpo di Stato Maggiore, i loro ajutanti.
Si è detto anche molto, e non siamo lontani dall’assentire noi pure a tale opinione, che Garibaldi non sia uomo politico. Il suo carattere leale, franco incapace di sotterfugi o di infingimenti, fosse anco a fin di bene, non può prestarsi alle sottigliezze, alle ambiguità e alle tergiversazioni della politica. Si è pur asserito ch’ei non sappia troppo sceglier gli uomini dei quali si circonda. — A questo risponderemo che la sua buona fede, disposta sempre a vedere in altri quella rettitudine di pensieri e di intendimenti ch’egli in sommo grado possiede, può venire un momento tratta in inganno; ma ch’è altresì incontrastabile, che il generale non tarda a farsi accorto dell’errore, e la sua buona e generosa natura, mal potendo accoppiarsi con una falsa e perversa, non lascia d’avvertirlo di dipartirsi dal falso sentiero, ove ei s’era messo, indurendolo a ritirare l’onorata sua mano da quella, tanto indegna di essa, in cui l’avea posta.
Nel terminare questi cenni biografici, confessiamo che non abbiamo potuto dare al lettore che una narrazione imperfetta, uno schizzo informe: speriamo, tuttavia, che non si vorrà sapercene mal grado, in quanto che lo spazio riservatoci era troppo angusto, perchè noi potessimo dare alla maestosa e sublime figura che ci stava dinanzi tutto quello sviluppo, ch’ella avrà un giorno nelle pagine dell’istoria contemporanea.