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mise a terra seicento soldati circa, che armandosi di carabine ne circuirono da ogni lato.

«Intorno a noi avevamo uno spazio di terreno coperto di cadaveri, di cavalli e di uomini, tanto nemici che nostri.

«Potrei narrare innumerevoli atti d’individuale valore. Tutti combatterono come i nostri antichi prodi del Tasso e d’Ariosto; molti erano coperti di ferite d’ogni specie, prodotte da palle di fucile, da lame di sciabola, da punte di lancia.

«Un trombettiere di quindici anni, che chiamavamo il Rosso e che ci animava col suono del suo strumento durante la pugna, fu colpito da una lanciata. Gettar la sua tromba, dar di piglio al coltello, scagliarsi sul cavaliere che avealo ferito fu l’affar d’un momento; soltanto nel colpire a sua volta il proprio avversario, spirò. Dopo il combattimento i due cadaveri furono trovati l’uno attaccato all’altro: il giovine era coperto di ferite; il cavaliere portava alla coscia la marca profonda d’un morso datogli dal suo nemico.

«Dal lato dei nostri avversarî si compierono pure atti di prodigiosa temerità. L’un d’essi, vedendo che quella specie di baraccone intorno al quale ci stavamo aggruppati, se non ci riparava dalle palle, almeno ci difendeva dai violenti raggi del sole, tolse un infiammato tizzo, mise il suo cavallo alla gran carriera, passò in mezzo a noi, e passando lanciò il tizzo sul letto di paglia.

«Quel tizzo cadde a terra senza produrre verun danno, ma ad ogni modo quel cavaliere aveva dato prova d’un ben nobile ardire! I miei uomini stavano per fargli fuoco addosso; io ne li impedii gridando: vita salva ai valorosi, son della nostra razza. Niuno vi fu che tirasse; era maraviglioso il vedere come io fossi obbedito. Una mia parola bastava a render forza ai feriti, coraggio ai dubbiosi, e addoppiava l’ardore nei forti.

«Quando vidi il nemico decimato dal nostro fuoco, stanco per la nostra resistenza, allora soltanto parlai di ritirata; ma dicendo: ritiriamoci — soggiunsi: io