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rita e avente in sua possessione le fortezze e tutti i luoghi muniti.

Ci basti il ricordare che Garibaldi, vincitore a Marsala, a Partenico, a Monreale, a Palermo, costrinse l’esercito regio borbonico a venir a patti con lui, e a cedergli la capitale dell’isola.

Poco dopo, la battaglia di Milazzo finì di distruggere ogni ombra di resistenza per parte dei nemici, e ad eccezione della cittadella di Messina, tutta Sicilia fu libera ed esultante.

Allora gli occhi del prode campione dell’indipendenza nazionale si volsero verso le vicine sponde del continente napoletano, ed anche questa volta, benchè Francesco II vedesse organizzarsi l’attacco, e disponesse le sue numerose schiere per combatterlo, non fu in caso di sapervi resistere; non appena i Garibaldini ebber messo piede nelle Calabrie, ch’ei già pensava a ritrarsi nella ben munita Gaeta. Chè, se Garibaldi non aveva un’armata ben fornita, bene equipaggiata e numerosa al pari della sua, aveva con sè la gloria del suo nome, l’amore e la fiducia della nazione italiana, che già da gran tempo il riguardava e predicava qual suo liberatore.

Difatto, cosa maravigliosa a dirsi, a misura che l’eroe si appressava, e ognun sa con quanta rapidità il facesse, cadevano le barriere, si dileguavano gli ostacoli, eserciti e generali nemici s’inchinavano a lui dinanzi, ed egli, quasi solo, giungeva alle porte di Napoli, ove non appena la popolazione di quell’illustre città il seppe pervenuto che accorse numerosa, entusiasmata, a salutarlo qual suo redentore.

Non parleremo degli atti governativi del Dittatore delle Due Sicilie; diremo solo che se tutti questi atti non furono improntati di quella saggezza che si richiede in profondo uomo di Stato, non deve di ciò farsi carico all’eroe nazionale.

S’egli commise alcuni errori — e qual’uomo mai non è soggetto ad errare? — li compensò con tanta magnanimità d’imprese, con tanta lealtà di operato, che in vero non sapremmo chi potesse ardire di muovergliene rimprovero.