Il Parlamento del Regno d'Italia/Camillo Benso di Cavour
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deputato.
Non è egli qui da ripetersi il famoso motto Tanto nomini nullum par elogium? E di fatto noi ci risparmieremo nel narrare le principali vicissitudini della vita d’un uomo, cui ogni buon Italiano ha sacrato un culto nel proprio cuore, di tributargli encomî o di esprimere ammirazione, quando riferiremo taluna di quelle sue maravigliose gesta alle quali Italia deve la propria esistenza.
Camillo Benso di Cavour è nato a Torino, dal marchese don Michele Giuseppe e da Adelaide Susanna Sellon, il dì 10 agosto 1810.
Dovremo noi far notare che la sua famiglia è illustre per nobiltà di stirpe e per dovizia di censo, e che il padre suo, personaggio di gentili costumi e di nobile ingegno, ebbe cariche d’alto rilievo e fu anche vicario di Torino, durante il regno di re Carlo Felice.
Camillo ricevette l’educazione che suoleva darsi a tutti i figli delle più nobili famiglie piemontesi; fu posto nell’Accademia militare ove studiò per divenire ufficiale del genio. Da fanciullo fu anche paggio, ma per breve tempo, giacchè la sua indole vivace e il suo svegliato ingegno mal si accomodavano ad indossare la livrea ed a piegarsi alle cerimonie di corte.
Uscito dall’Accademia militare all’età di 18 anni col grado di tenente del genio, non potè sostenere lungo tempo la disciplina severissima che allora più che mai vigeva nelle file dell’armata piemontese. Difatti com’egli era nel 1831 a Genova a sorvegliare alcuni lavori di fortificazione, lasciò andarsi a parlare alquanto liberamente; del che i suoi superiori, ai quali le parole del giovine ufficiale furono riferite, tanto s’insospettirono e s’indignarono, che il Cavour fu rilegato entro il forte di Bard.
Ma poco vi stette, che il padre gli diè il desiderato permesso di offrire le proprie dimissioni, talchè in breve fu libero appieno, e potè abbandonare un paese in cui si scrutava perfino il pensiero onde incolparlo.
«Dimorò egli a lungo in Inghilterra, dice il Bonghi nella biografia che ci ha dato dell’illustre uomo di Stato, ed ivi, alla maniera dei nobili inglesi, s’educò a forti studî senza chiudercisi dentro e ricusare le distrazioni della vita e i sollazzi del mondo; contrasse amicizie potenti, e soprattutto un affetto, un’ammirazione non solo per le istituzioni inglesi, ma per il concetto inglese della libertà, ch’è il vero. Giacchè in Inghilterra non s’intende la libertà come in Francia, dove basta perchè si sia liberi che il ministero deva proceder d’accordo colla maggioranza dei deputati spediti a Parigi da una maggioranza più o meno grande d’una classe più o meno larga di elettori; quantunque la mano dello Stato continui a comprimere e reggere del pari la vita dei comuni, delle provincie, degli individui, del commercio, dell’insegnamento. In Inghilterra invece la società stessa è libera e lasciata padrona di sè; l’individuo, da solo o associato con altri, v’ha pienissimo il giuoco delle facoltà sue, e la società è libera non solo perchè il governo ha a dare ragione di sè ai deputati, ma perchè l’azione sua non si surroga a quella di un’altra forza sociale. E questo fu poi il concetto di libertà che il conte di Cavour portò, a suo tempo, al governo; quantunque sin oggi le questioni, ora di finanze, or di politica, gli abbiano preoccupato l’animo, ed impedito di attuarlo in altro che nelle sue conseguenze economiche.
«E questo suo amore dell’Inghilterra non fu poi una delle sue minori colpe agli occhi del partito democratico e del retrivo nel Piemonte, quando egli ritornato in patria, cominciò a prender parte alla vita politica e ad ascenderne uno dopo l’altro i gradini.»
Lo stesso Cavour sembra di fatto aver previsto le conseguenze che la di lui simpatia per le istituzioni inglesi avrebbe cagionate un giorno a suo danno, mentre nel suo opuscolo intitolato: Sur l’état actuel de l’Irlande, così si espresse:
«Da San Pietroburgo a Madrid, in Germania come in Italia, gli inimici del progresso e i partigiani delle convulsioni politiche considerano del pari l’Inghilterra come il più formidabile dei loro avversarî. I primi l’accusano d’essere il focolare su cui tutte le rivoluzioni si scaldano, il refugio assicurato, la cittadella, per così dire, e de’ propagandisti e dei livellatori. Gli altri pel contrario, forse con maggior ragione, riguardano l’aristocrazia inglese come la pietra angolare dell’edificio sociale europeo, e come l’ostacolo più grande alle loro mire democratiche. Quest’odio che l’Inghilterra ispira ai partiti estremi, dovrebbe renderla cara agli intermedî, agli uomini amici del progresso moderato, dello sviluppo regolare e graduale dell’umanità; a quelli, in una parola, i quali per principio sono opposti del pari alle tempeste violenti, e alla stagnazione della società. Eppure non è. I motivi che li porterebbero a nutrir simpatie verso l’Inghilterra, son combattuti da una folla di pregiudizî, di memorie, di passioni, la cui forza è quasi irresistibile. E non ci ha quindi che pochi uomini sparsi e solitarî, i quali sentano per la nazione inglese quella stima e quell’interesse che deve ispirare uno dei più gran popoli che hanno onorato l’uman genere, una nazione che ha gagliardamente cooperato allo sviluppo morale e materiale del mondo, e la cui missione di civiltà è ben lontana dall’esser finita.»
Intanto fin da quei tempi l’uomo di Stato si formava e si rivelava anche diggià, mediante scritti molto sensati che venivano alla luce sulle principali Riviste francesi; questi scritti erano notevoli per la forza del ragionamento, e per l’indipendenza del giudizio, sebbene difettassero alquanto per parte della forma, giacchè gli studî letterarî quali si facevano in quel tempo, sovrattutto nell’Accademia militare, non fossero dei migliori.
Tuttavia la sua dicitura era come la sua mente, sempre netta, chiara, coerente, sebbene mancasse di quella vivacità, di quella forza irresistibile ch’egli improntava alle sue idee quando le esprimeva colla parola.
I più importanti di tali scritti furono quello che già abbiamo citato intorno all’Irlanda, l’altro: Sulle idee comuniste e sulla maniera di combatterle.
Il Bonghi ne dà il seguente giudizio:
«Nell’uno e nell’altro (di tali scritti) si riconosce quella vasta e compiuta maniera di concepire il soggetto, e di sviscerarlo, che dicevamo sua propria. In lui con lo scienziato e collo storico si vede già unita quella propria e particolare qualità dell’uomo di Stato, che consiste nell’abbracciare d’un’occhiata tutta l’arruffata matassa delle cause e degli effetti sociali, nel non estrarne e considerarne da sè una serie sola; anzi d’ogni fatto di cui si ricerca le origini, riconoscere, o per una divinazione difficile a ragionare, come accade alla più parte degli uomini di Stato, o per una consapevole e ragionala convinzione, come accade al Cavour, riconoscere, ripeto, in quanto e quale intreccio sia con altri fatti e quale modificazione nasca in ciascheduno degli elementi sociali da questa sua complicata coesistenza con altri. Così, dove parla delle idee comuniste, non ischiva di mostrare quanto arduo sia il contrasto che si deve sciogliere per confutarle a fil di logica, tra due diritti, i quali pajono inconcussi del pari, quello della vita, e l’altro di proprietà. Egli prova come questo contrasto non sia tra due diritti assoluti, i quali non si potrebbero contraddire, ma bensì tra due diritti relativi, e de’ quali ciascheduno non ha valore che in un certo giro. Crede che ove la scienza s’imprimesse bene di questa dottrina, essa sarebbe il migliore antidoto del comunismo, giacchè gli torrebbe ogni forza, tra perchè ammetterebbe la limitazione del diritto che i comunisti negano, e perchè mostrerebbe d’accettare il diritto che i comunisti contrappongono.
E fida che dalla scienza la persuasione passerebbe negli animi del volgo; giacchè non gli pare da mettere in dubbio e conferma coi fatti l’utile efficacia delle idee scientifiche nella trasformazione dei sentimenti volgari. Ma aggiunge che questa trasformazione non si opererebbe se i ricchi non l’ajutassero con la beneficenza verso i poveri.»
E difatti il Cavour conclude nel seguente modo il suo opuscolo:
«A ciascheduno dunque, l’opera sua. Il filosofo e l’economista nel chiuso del loro studio confuteranno gli errori del comunismo; ma l’opera loro non sarà feconda, se non in quanto gli uomini onesti praticando il gran principio della benevolenza universale, agiranno sui cuori, mentre la scienza agisce sugl’intelletti.»
L’opuscolo sull’Irlanda venne molto letto in Inghilterra e assai apprezzato. Ed invero in quell’opuscolo il futuro statista italiano non solo metteva con esperienza provetta il dito sulla piaga, ma additava anche con estremo discernimento quali dovessero essere i rimedî onde sanarla; e tali rimedî vennero effettivamente, in progresso di tempo, impiegati all’uopo dagli uomini di governo britannici.
Ciò che vi ha pure di notevolissimo in quello scritto ci è sembrato essere il ritratto che vi delinea l’autore del celebre Pitt, ritratto che ne sembra dover sommettere all’occhio del leggitore:
«E’ corre, dice il Cavour, in genere un giudizio molto falso su quell’illustre uomo di Stato. E’ si commette un errore gravissimo rappresentandoselo come il partigiano di tutti gli abusi, di tutte le oppressioni, a modo di un lord Eldon, o d’un principe di Polignac. Ben altro; il Pitt aveva i lumi del suo tempo: il figlio di lord Chatham non era l’amico del dispotismo, nè il campione dell’intolleranza religiosa. Spirito potente e vasto, amava il potere come un mezzo e non come un fine. S’introdusse nella vita politica col far la guerra all’amministrazione retriva di lord Narth, ed appena ministro, uno dei suoi primi atti fu di proclamare la necessità di una riforma parlamentare. Certo il Pitt non aveva una di quelle anime ardenti che si appassionano pei grandi interessi dell’umanità, che non guardano, quando il vedano pericolare, nè agli ostacoli che loro si frappongono, nè ai danni che il loro zelo può cagionare. Non era uno di quegli uomini che vogliono riedificare la società da capo a fondo con l’ajuto di concetti generali e di teoriche umanitarie. Ingegno profondo e freddo, spoglio di pregiudizî, non era animato che dall’amore della patria e della gloria. Sul principio della sua carriera vide le parti difettose del corpo sociale e volle correggerle. Se avesse continuato ad esercitare il potere in un periodo di pace, di tranquillità, sarebbe stato un riformatore alla maniera del Peel e del Canning, accoppiando l’arditezza e l’ampiezza delle viste dell’uno colla saggezza e l’abilità di quelle dell’altro. Ma quando vide spuntare sull’orizzonte l’uragano della rivoluzione francese, colla perspicacia propria delle menti che sovrastano, previde i guasti dei principî demagogici e i pericoli che avrebbero suscitati all’Inghilterra. Si fermò a un tratto ne’ suoi disegni di riforma, per provvedere ai bisogni della crisi che si preparava. Comprese che dinanzi al movimento delle idee rivoluzionarie che minacciavano d’invadere l’Inghilterra, sarebbe stato imprudente di toccare l’Arca santa della costituzione, e infiacchire il rispetto ch’ella ispirava alla popolazione, applicandosi a ricostruire le parti lese di un edilizio sociale consacrato pure dal tempo. Dal giorno in cui la rivoluzione, soverchiando i confini del paese che l’avea vista nascere, minacciò l’Europa, il Pitt non ebbe che un oggetto solo davanti a sè; combattere la Francia, coll’impedire alle idee ultra-democratiche di farsi strada in Inghilterra. A questo supremo interesse consacrò tutti i suoi mezzi, a questo sacrificò ogni altra considerazione politica.»
Quanta profondità in questo giudizio! e come si sente ch’egli è proferito da un uomo che uguaglia almeno colui sul conto del quale si esprime con tanta chiarezza, con tanta evidenza! Reduce dai suoi viaggi, il conte di Cavour si applicò, con quell’energia che ognuno gli ha conosciuto, ad applicare a vantaggio del proprio paese le utili cognizioni ch’egli aveva acquistate oltre Alpe ed oltre mare. Ogni intrapresa diretta ad ammogliare le condizioni economiche e civili del Piemonte, se non l’ebbe a capo o a fautore, l’ebbe certo ad attivissimo cooperatore. Egli fu dei fondatori di quell’ottima istituzione degli Asili infantili alla cui testa, tuttavia, non rimase gran tempo dappoichè il presidente Cesare Saluzzo lo pregava ad uscirne per il bene della società, poichè lo si aveva in concetto di troppo liberale.
«E sì! esclamava Camillo Cavour alludendo a questo fatto nella tornata della Camera dei deputati, del 17 gennaio 1851, fra le risa di tutti i suoi colleghi, che io non era un gran rivoluzionario!»
Nel 1842 ei fu pure uno degli istitutori della Società agraria più volle mentovata nel corso di quest’opera, nella quale ebbe carica di consigliere, essendogli per tal modo concesso di diffondere quelle precise e variale cognizioni di agricoltura ch’egli aveva attinte dalla pratica e dai libri, e per la quale aveva egli il primo introdotti o fatti introdurre nuovi metodi, concimi e coltivazioni in Piemonte e nella Sardegna. Ma ben presto il maturarsi dei destini d’Italia, le nobili aspirazioni di Carlo Alberto, la morte del pontefice Gregorio XVI, l’elezione di Pio IX e le riforme da questi, nei primordî del suo regno concesse, aprirono un più ampio orizzonte al futuro rigeneratore d’Italia, e avvegnacchè alla stampa politica venisse concessa una qualche libertà, ei non mise tempo in mezzo a profittarne, fondando insieme al Balbo, al Galvagno e al Santarosa il giornale il Risorgimento, che non tardò ad essere apprezzato in tutta la penisola.
Questo foglio aveva per iscopo precipuo l’indipendenza d’Italia, l’unione tra i principi e i popoli, il progresso nella via delle riforme e la lega dei principi italiani tra di loro; proclamava i più nobili e i più sinceri caratteri del diritto e della forza essere la calma e la moderazione, due qualità che, secondo la mente del Cavour e de’ suoi compagni, non volevano e non vogliono dire remissione d’animo e fiacchezza di proposito, ma risoluto e imperturbato avanzare verso un fine chiaramente concepito con mezzi proposti ed approvati, non da una fantasia ammalata e delirante, ma da una mente sana e consapevole.
«II 21 dicembre dello stesso anno, dice il Bonghi, il conte Cavour firmò, con parecchi altri, una supplica al re di Napoli, che non si risolveva a seguire l’esempio dato prima da Pio IX e da Leopoldo di Toscana e poi cominciato a seguire da re Carlo Alberto. Lo supplicavano a consentire nella politica della Provvidenza, del perdono, della civiltà e della carità cristiana. Ma il 7 gennaio del 1848 potè dare maggiore e miglior prova della perspicacia della sua mente e della risolutezza del suo spirito.»
Egli aveva già fermato in cor suo dove il movimento italiano potesse riposare, e doveva vedere che il governo solo anticipando e prevenendo le richieste avvenire e prevedibili del popolo tumultuante, avrebbe potuto riguadagnare quell’efficacia morale che doveva aver persa nell’accordare, sforzato e a spilluzzico, le riforme che gli si andavano strappando di mano l’una dopo l’altra. Perciò quando una deputazione venne da Genova a chiedere al re Carlo Alberto la istituzione della guardia civica e l’espulsione dei gesuiti, e i varî scrittori e direttori dei giornali politici venuti su in quei tempi in Piemonte, il Brofferio, del Messaggero torinese, il Valerio, della Concordia, il Durando, dell’Opinione, e il Galvagno, il Santarosa, il Carnero, il Castelli, il Vincis, si furono, sotto la presidenza del marchese Roberto d’Azeglio, raccolti a deliberare, ed ebbero risoluto di appoggiare le proposte di Genova, il Conte Cavour, che nella sua qualità di direttore del Risorgimento era presente, si contrappose egli solo e gridò:
«A che servono le riforme che non concludono, le domande che, consentite o negate, turbano lo Stato e diminuiscono l’autorità morale del governo? Si chieda la Costituzione. Poichè il governo non si sa reggere sulla base sulla quale si è retto finora, se ne dia un’altra conforme all’indole dei tempi, a’ progressi della coltura, prima che sia troppo tardi, e tutta l’autorità sociale sia sciolta e precipitata davanti ai clamori del pubblico.»
«La più parte dei presenti dissentì e molti di quelli i quali allora dissentirono, anzi, tutti, il Cavour li vide poi nel Parlamento, egli ministro, sostenere che la libertà amassero più di lui». Non è questo un rimprovero che si debba fare a quelle persone egregie sotto ogni rapporto, ma evidentemente essi credettero prematura la richiesta, e fors’anche, ne sospettavano l’intenzione. L’Azeglio, il Santarosa e il Durando parteggiarono per il Cavour; tutti quelli, in una parola, che erano detti da qualche democratico gli uomini dell’aristocrazia. Il Brofferio solo in questa circostanza, che forse fu l’unica, si unì al conte di Cavour, perchè appunto è dell’indole sua di propugnare tutto quanto ha d’audace in politica.
Il Durando aveva già commissione di redigere la supplica al Re in cui la proposta del Cavour venisse con reverenti modi formulata; ma il Sineo, il Valerio ed altri si opposero, sicchè la cosa andò in fumo; i giornali toscani solo resero conto dell’accaduto, chè niuno dei piemontesi l’osò. Non ostante il Cavour continuò la parte sua energicamente collo scrivere sul Risorgimento degli articoli pieni di senno e di patriotismo, i quali valevano non poco e a mostrare agl’italiani la mente acuta e profonda del futuro uomo di Stato, e a spargere nella popolazione quelle verità e quei sentimenti così necessari a un popolo che risorge.
La sua penetrazione gli faceva scrivere il 22 marzo, dopo che i Milanesi ebbero cacciato gli Austriaci, le seguenti parole nel citato periodico:
«L’ora suprema per la monarchia sabauda è suonata; l’ora delle forti deliberazioni: l’ora dalla quale dipendono i fati degl’imperi, le sorti de’ popoli. In cospetto degli avvenimenti di Lombardia e di Vienna l’esitazione, il dubbio, gl’indugi non sono più possibili; essi sarebbero la più funesta delle politiche. Uomini noi di mente fredda, usi ad ascoltare assai più i dettami della ragione che non gl’impulsi del cuore, dopo di avere attentamente ponderato ogni nostra parola, dobbiamo in coscienza dichiararlo: una sola via è aperta per la nazione, pel governo, pel Re: la guerra, la guerra immediata e senza indugi».
Sostenitore del ministero Balbo, sebbene avesse poca fede nell’abilità dei componenti quel gabinetto, non dissimulò le difficoltà in cui si trovavano, e non si ristette dal censurarli per la condotta incerta da essi tenuta a fronte dell’accettazione del voto di fusione dei Lombardi. Più tardi quando vennero proposte leggi eccezionali di polizia, egli fin da quel punto si dimostrò quell’uomo altamente liberale che si è poi sempre dato a conoscere, col respingerle a nome della Commissione di cui era relatore. Poco tempo dopo appariva pure nel seno del Parlamento economista distinto qual già si era palesato per mezzo de’ suoi scritti col combattere i progetti finanziari del conte di Revel e suggerirne altri più consentanei alle necessità dello Stato e allo spirito dei tempi. E quella sua opposizione non fu l’ultima causa della caduta del Ministero.
Dopo la disfatta di Custoza il conte di Cavour si ricordò di aver cinta la spada, e già era corso ad arruolarsi, quando l’armistizio di Milano gl’impedì di partire. Sostenne quindi il Ministero presieduto dal marchese Alfieri, opponendosi in ciò al Gioberti, il quale, colla segreta ambizione del governo, combatteva il gabinetto e faceva cosa indegna del suo ingegno soffiando nel fuoco delle ire partigiane, e impedendo con parole per lo meno imprudenti un compito difficilissimo.
Così avvenne che in quei giorni il conte di Cavour si acquistasse non poca impopolarità esponendosi nella Camera alle stolte vociferazioni delle tribune e fuora ai fischi della piazza e ai sarcasmi e alle calunnie del giornalismo. Non è a dire quanto coraggio civile mostrasse in quelle circostanze; ed a prova non abbiamo che a citare un brano del suo discorso contraddicente la proposta di legge fatta dal Pescatore dell’imposta progressiva, colle interruzioni e dimostrazioni che egli occasionò nell’aula parlamentare.
«Voi sapete, o Signori, egli diceva, quanto le leggi retroattive sono odiose, quanto esse facciano paura ai capitalisti, a coloro che dispongono del credito. Ma forse il deputato Pescatore mi dirà: non è una legge retroattiva, è una legge nuova che impone un prestito forzato su coloro che posseggono un capitale maggiore di 150,000 franchi, estensibile dall’1 al 4 per cento. Ma allora se questa legge è considerata sotto questo aspetto, questa legge retroattiva sarà ingiusta, contraria al principio dello Statuto, perchè colpisce una sola classe di persone arbitrariamente (bisbiglio dalle gallerie). Lo ripeto, i rumori non mi turbano nè punto nè poco; che ciò ch’io reputo essere la verità, lo dico malgrado i tumulti e i fischi (rumori). Chi m’interrompe non insulta me, ma insulta la Camera, e l’insulto lo divido con tutti i miei colleghi (applausi dal centro e da’ Ministri). Ora continuo». Così l’egregio oratore mostrava il contegno che un uomo dotato di ferme convinzioni deve tenere in una pubblica assemblea per sostenere quelle opinioni ch’ei crede valgano a meglio far conseguire il bene della patria. Il Cavour si suscitò contro, con questa sua fiera baldanza, le ire democratiche, tanto che, venuto al potere il Gioberti, e questi sciolta la Camera onde averne una a sè più favorevole, in quel turbinio delle passioni, e in quel tempestare degli sdegni dei sedicenti ultra-liberali, il futuro liberatore d’Italia ebbe a vedersi nel suo collegio di Torino preferito un oscuro Ponsoya. Ma questo non impedivagli di sostenere nel suo giornale il Gioberti quando quest’uomo di Stato, con un concetto capace di salvare la patria, risolse d’intervenire in Toscana ed a Roma.
Sotto il ministero d’Azeglio, il Cavour, capo del partito di destra, incominciò le sue lotte col competitore suo, il Rattazzi, onde era capitanata la sinistra. Si fu da quel momento che l’oratore parlamentare apparì in tutta la sua irresistibile forza.
Tutti quelli che hanno sentito a parlare il conte di Cavour, sanno com’egli fosse tutt’altro che eloquente, ove per eloquenza s’intenda la bella e pronta dicitura. Il conte di Cavour era qualche volta obbligato a cercare, per così dire, l’espressione colla quale rivestire il concetto che lucido balenavagli in mente, e ciò produceva nel suo dire un ritardo che inceppava fino a un certo tal punto l’orazione e produceva sugli ascoltanti quel senso penoso che indurrebbegli a suggerire la parola cui l’oratore sembra indarno cercare. Il suono stesso della voce del grand’uomo di Stato era piuttosto aspro e la pronunzia lasciava pur molto a desiderare; ciò nonostante il Cavour è stato uno degli oratori i più invincibili che mai siensi uditi arringare in una pubblica assemblea.
La sua prima qualità era quella di sapere udire i suoi avversarî e ritenere meravigliosamente gli argomenti tutti da essi prodotti, dandosi quasi l’aria di non ascoltarli e senza avere il benchè menomo bisogno di prendere appunti o note di sorta... E qui noi cediamo anche una volta la parola al Bonghi, il quale ha mirabilmente e veridicamente reso sotto questo rapporto il carattere morale e fisico dell’eccelso torinese.
«La stessa prontezza di mente, dic’egli, che l’abilita ad abbracciare tutte le relazioni del suo concetto, gli fa intendere alla prima dove l’avversario vada a conchiudere e come e su quali ragioni si fondi e con quali s’abbia a rispondergli. Perciò, se l’oratore che parla non gode la sua stima, o si sciupa in parole, tutta la persona del Cavour diventa impaziente e i suoi occhi mobilissimi, vivaci a un tempo e stanchi, corrono da una parte all'altra dell’assemblea, ovvero affissa il banco e colla stecca tormenta e lacera le carte che vi si trovano. Ma ad un avversario nuovo o di vaglia fissa gli occhi sul viso, nè li rimuove se non quando o può dire a sè medesimo: questi è vinto e lo riporrò a dormire cogli altri; o la forza dell’argomento lo costringe per poco a raccogliersi. Un oratore incerto, o inabilmente amico, e che risichi con una proposta inopportuna di sviare la maggioranza è però quello che gli dà maggior noja, nè ha più membro che tenga fermo nè trova una giacitura in cui possa posare, sinchè il discorso continua e non gli è data facoltà di chiarire il sunto e ravviare gli animi. Un sorriso continuo gli sta sulle labbra le più volte, ma non sempre un sorriso d’ironia. Dico non sempre, perchè gli affari davvero non lo gravano e di sotto al loro peso egli si muove leggermente; perciò senza difficili e insolite complicazioni egli non è preoccupato che di rado; nè la sua fronte resta accigliata od il suo sguardo pensoso, se non sin quando ha trovato il modo di sciogliere il gruppo e preso un partito, e lo prende subito, nel quale resta fermo ed irremovibile. Oltre di che è d’animo benevolo e senza rancori. Pronto alla collera, non se ne fa mai trasportare in modo che non sia più in grado di dominarla e dalla maggiore concitazione passa alla maggiore calma subito. Certo del fine suo e consapevole di potervi e sapervi arrivare, non ha avversarj che quelli i quali per il momento l’impediscono, prontissimo a servirsi oggi di quelli che l’hanno combattuto jeri, se oggi è il giorno in cui gli possono tornar utili. Così, d’altra parte non ha amici ai quali si creda, come uomo pubblico, in debito di restar legato, quando non sieno più acconci a’ suoi fini politici; anzi a volte, temendo quasi che la sua indole risoluta potrebbe trascinarlo a sostenerli anche a sproposito, va nell’estremo opposto e li abbandona frettolosamente. A compagni nel potere, come accade ad uomini vittoriosi da un pezzo ed assuefatti ad aver ragione, preferisce chi non lo possa adombrare col nome o resistergli colla forza del volere e colla capacità della mente; del pari che ad istrumento nell’eseguire presceglie volontieri uomini nuovi fatti o dominati da lui; al lavoro e alla spedizione degli affari ha un’attitudine ed una infaticabilità piuttosto unica che rara; quantunque di molte parti dell’amministrazione la cui importanza gli par minore non si dia nessun carico se vanno male, convinto che non può andar bene ogni cosa.
Fatticcio della persona, piuttosto pingue e basso, non rivela l’altezza della mente e la determinazione della volontà se non nella fronte spaziosa, nello sguardo vivo e sicuro, in tutto il carattere della fisonomia. La gentilezza continua del tratto, e la finezza dello spirito, attestano in quali ordini sociali sia nato ed abitualmente vissuto. Ma della nascila e delle sue dignità nè l’ambizione, nè la cognizione de’ tempi e degli uomini gli permettono di mostrarsi altero; e di fatti non ha alterigia di nobile, nè sussiego di ministro. La coscienza di sè medesimo gli lasciò apprezzare meno in sè medesimo tutto quello che non è lui». Se noi non fossimo costretti dalla natura del nostro lavoro a contenerci entro certi dati limiti, vorremmo far l’istoria particolareggiata del come il conte di Cavour andasse poco a poco staccandosi dalla destra pura per accostarsi a quella parte della sinistra la quale propugnava l’abolizione del Foro ecclesiastico, e sviluppando in un suo discorso, che produsse altissima sensazione, quei principj di assestamento finanziario e di libero scambio i quali in progresso di tempo hanno reso il piccolo Piemonte uno degli Stati modello di progresso costituzionale. Questo discorso aprì in certo tal qual modo al Cavour le porte del Gabinetto, nel quale entrò dapprima come Ministro di Agricoltura e Commercio, assumendo all’uscita del conte Nigra dal Ministero contemporaneamente i portafogli delle Finanze.
Poco tempo dopo il Gabinetto presieduto dall’Azeglio avendo incontrate difficoltà gravi con Roma, dovette dimettersi, e si fu l’Azeglio stesso che propose al Re di chiamare a capo dei Governo il conte di Cavour, che in quel frattempo si era, per non venir accusato di brigare, allontanato dal Piemonte, e in un suo viaggio in Francia e in Inghilterra aveva ricevute le più singolari accoglienze dai principali statisti dei due paesi e dal novello imperatore Napoleone III. In questo tempo il già avanti accennato ravvicinamento fra il Cavour ed il Rattazzi, capo del centro sinistro, si fece più intimo e cordiale, tantochè quest’ultimo entrava nel Gabinetto presieduto dal Cavour in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia, assumendo indi a poco provvisoriamente anche il portafoglio dell’Interno.
Da quel punto il conte di Cavour si può dire che reggesse fino alla pace di Villafranca il governo del Piemonte e i destini d’Italia, raccogliendo in sè una immensa fiducia non solo del Parlamento, ma di tutti quanti gl’Italiani. Che anzi si può dire non esservi mai stato uomo che abbia governato con tanta sicura fede di ognuno nelle forze dell’ingegno suo e della sua abilità, in tempi d’altronde così eccezionali in cui gli spiriti erano agitati da tanto fremito di speranze, di dubbi, di odii e d’affetti. Si può anche dire che se il conte di Cavour con un’abnegazione poco comune si addossò il grave pondo del reggimento dello Stato in simili contingenze, lo fece anche perchè comprese che niun altro fuori di lui avrebbe osato di farlo, tanto che quando scoppiò la guerra d’Italia lo si vide a un tempo Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e dell’Interno, e per la partenza del La Marmora per il campo, reggitore del Ministero della Guerra.
Questa guerra, cui l’Italia doveva la sua rigenerazione, ognun lo sa, ei l’aveva concertata con l’imperatore dei Francesi nella visita da esso fattagli a Plombières. La pace di Villafranca tuttavia non potea convenirgli perchè non concordi sembravangli gli effetti colle promesse, nè col fine dell’indipendenza nazionale; quindi ei comprese esservi della sua dignità il non rimanersi a capo dell’amministrazione, e dimettendosi consigliava egli stesso il Re a confidare al Rattazzi la formazione di un nuovo Gabinetto. Indi a poco però, sentendosi la necessità di un’azione più pronta ed efficace, mediante la quale potessero le annessioni della Toscana e dell’Emilia passare nel novero dei fatti compiuti, consentì di buon animo a riassumere il potere e a prendere la responsabilità della cessione di Nizza e di Savoja alla Francia, compiendo poscia il gran fatto della quasi completa unificazione d’Italia col promuovere in parte l’eroica spedizione di Marsala, coll’effettuare quindi l’audace spedizione delle Marche e dell’Umbria.
Per dare ora un’idea adequata del concetto politico ideato dal conte di Cavour, e condotto con tanta maestria e costante fermezza ad effetto, è mestieri ripigliare da più lungi l’esame degli eventi e delle ragioni filosofiche e storiche del loro sviluppo onde averne una ben chiara intelligenza. In questo caso ancora cederemo la parola al Bonghi, che con una profondità e una lucidezza straordinaria ha trattato in modo inimitabile questo soggetto.
«I casi del 48, dic’egli, avevano lasciata l’Italia stremata di forze, ma accresciuta di reputazione. Il partito liberale v’era stato bensì sopraffatto da capo, ma cogli sforzi dei due più potenti Stati militari di Europa; ed aveva sentito come sarebbe di peso da esso stesso, quando non si fosse dissoluto e scisso in sè medesimo, se non di vincere, almeno di cadere dopo più fiera battaglia. Il Piemonte, che aveva preso la difesa aperta ed ufficiale dell’indipendenza d’Italia, era uscito dalla rotta di Novara diminuito di gloria militare, fiaccato nelle sue forze, esausto nelle sue finanze, deserto d’alleati, lacerato dagl’interni partiti, con un giovine re, la cui grandezza e lealtà d’animo non erano ancor note, ed a cui dai nemici della monarchia non era risparmiata nessuna calunnia, come dagli uomini del reggimento assoluto non era risparmiato nessun consiglio. Ma la dinastia di Savoja aveva chiaramente asserita avanti all’Italia e all’Europa la sua alta ambizione; e gl’italiani avevano potuto vedere al fatto come il Piemonte solo avesse quella forza ordinata, la quale, se aveva perso, aveva però pur potuto combattere e ritentare le grandi battaglie; una forza ordinata intorno a cui le forze vive dei partiti liberali e popolari delle varie parti della penisola si sarebbero potute in caso aggruppare.
«Gli uomini di Stato del Piemonte che furono dopo il 48 eletti a reggerne il governo, e sopratutto il D’Azeglio, prima, e il Cavour, poi, si proposero di mantenere intatte le istituzioni liberali e salvarle dagli assalti di destra e di sinistra, come quelle le quali sole rendevano il Piemonte adatto a formare d’intorno a sè le parti liberali d’Italia, e gli facevano trovare in queste il sostegno e l’equilibrio che aveva smarrito quando, accettando contro l’Austria una querela mortale, s’era tolta per sempre ogni possibilità di futura alleanza con essa. Così la dinastia di Savoja avrebbe potuto continuare il suo cómpito, il cómpito che aveva assunto da secoli; bensì non più bilanciandosi tra Francia ed Austria, come aveva fatto sino allora, ma sorreggendosi sulla parte più viva e illuminata delle popolazioni italiane e sulle amicizie che avrebbe tentato di acquistare tra gli Stati liberali d’Europa. Il Cavour si distinse dall’Azeglio in questo, che credette che le simpatie delle popolazioni italiane fossero una leva di tal possanza che bisognasse a mantenerla e rafforzarla una politica più risoluta di quello che all’Azeglio paresse prudente; e che per impedire che la reazione, la quale cominciava a strapotere di fuori, prevalesse al di dentro, si dovesse senza scrupoli e vani rispetti costituire fortemente il partito liberale e fonderne al possibile le varie sfumature, staccarsi recisamente dagli amici timidi delle istituzioni costituzionali e del loro sviluppo, e tanto più aderire a’ principii di libertà quanto più l’Europa paresse volerli dimenticare. Nè però il Cavour credeva che in questa difficile manovra si dovesse procedere senza una prudenza abile. Quando l’Impero fu fatto in Francia e di qui partivano accese calunnie ed invettive contro il futuro alleato d’Italia, quando il generoso, ma traviato Orsini tentò il colpo omicida, Cavour non esitò nè l’una nè l’altra volta a proporre, ed ottenne, che la legge della stampa fosse modificata in maniera che non potesse turbar leggermente le relazioni internazionali dello Stato.
Maggiore ed assoluta fu poi la scissura che rispetto alle quistioni economiche e politiche s’aperse tra il Cavour e quegli antichi suoi amici che sedettero sui banchi a destra della Camera. Egli voleva cambiare affatto il piano finanziario dello Stato, credendo che i mezzi che avrebbe potuto offrire l’aumento del bilancio, quando i proventi di cui s’alimentano non avessero mutato di natura e d’origine, non avrebbero mai potuto bastare a supplire alle spese necessitate dalle nuove condizioni del Piemonte. Però non teneva che, come gli si proponeva da parecchi banchi della sinistra, in quest’innovazione si dovesse o si potesse provedere per principii teoretici ed assoluti; gli pareva non solo meglio, ma unicamente possibile di attingere, a misura che se ne sentisse il bisogno, alle varie fonti della ricchezza pubblica, cercando non un’assoluta eguaglianza nelle gravezze imposte a ciascuna, ma un’equa e relativa e possibilmente perfetta proporzione per via d’imposte speciali; cosicchè ciascuna di quelle fonti di ricchezza sopperisse per la sua parte ai bisogni dello Stato senza che nessuna si sentisse esaurire. Così non approvò nè un nuovo assetto dell’imposta fondiaria su un cadastro provvisorio, nè accettò di surrogare un’imposta unica sulla rendita alle parecchie e svariate che nutrono i bilanci attivi d’ogni Stato. Perciò andò introducendo con raro coraggio, sfidando così le calunnie delle persone civili come le ire persin minacciose delle plebi, parecchie imposte colle quali si colpiva le ricchezze investite nei fabbricati urbani, nei commerci e nelle industrie».
Continua così il Bonghi ad esporre partitamente il sistema finanziario adottato e messo in opera dal conte di Cavour, sistema che gli fa osservare, come, se non riuscisse a ristabilire l’equilibrio fra i proventi e le spese del Piemonte, si avvicinasse a questo risultato d’assai, allorquando venne ad iscoppiare la guerra del 59; e che anzi, ove si rifletta che le spese sopportate dal piccolo regno di Sardegna dopo la salita al potere del conte di Cavour, sia per le grandi imprese all’interno di pubbliche costruzioni e di ampliazioni di organamenti amministrativi, come per la non mai abbastanza lodata spedizione di Crimea, fossero veramente grandiose e sproporzionate alle risorse dello Stato, si può dire che il pareggiamento del bilancio attivo col passivo fossesi di fatto conseguito. Grande riconoscenza devesi poi al conte di Cavour per l’introduzione in Italia del sistema di libero scambio, il quale era del resto una conseguenza immancabile dell’insieme del di lui piano finanziario.
L’abolizione infatti del protezionismo esercitato a pro dell’industrie nazionali e l’abbassamento dei dazj d’introduzione per le merci manifatturate dall’estero, dovevano dare un impulso efficacissimo alle forze produttive del paese, e porgere un più grande sviluppo alle industrie nazionali, dando così modo ai diversi fabbricatori e industrianti di sopportare con facilità i nuovi balzelli destinati ad impinguare le casse dello Stato. E che l’effetto abbia corrisposto all’espettazione, niuno che conosca adesso e conoscesse prima le condizioni della ricchezza pubblica in Piemonte può revocare in dubbio, mentre quest’ultima si è considerevolmente accresciuta negli ultimi dieci anni, e tanto più lo si sarebbe ove i mancati raccolti dei vini e quelli ancor più funesti delle sete non avessero contribuito massimamente ad impedire che ella ottenesse tutto quello sviluppo che avrebbe altrimenti raggiunto. Questo piano finanziario del conte di Cavour che produceva così ottimi resultati all’interno, ne conseguiva poi di non meno produttivi all’estero, giacchè serviva a riporre il Piemonte nel concerto delle potenze europee, e i trattati commerciali conclusi colla Svezia, colla Danimarca, col Belgio, coll’Inghilterra e colla Francia sembravano ispirati dal desiderio di legarsi in più intime ed amichevoli relazioni con questi Stati. Crediamo far cosa grata il riprendere, in ciò che riguarda più specialmente la definizione del piano politico seguito dal conte di Cavour, la citazione dell’opera del Bonghi. Dopo aver questi ricordato come le alleanze commerciali non sarebbero bastate a tôrre il Piemonte dalla solitudine in cui esso si trovava in Europa, continua così:
«Due nemici aveva già certi e dichiarati, due nemici i quali non aspettavano se non una propizia occasione di compiere la sua rovina, Roma ed Austria.
«Le necessità stesse della libertà, gli effetti stessi i più semplici, i più naturali, i più inevitabili del concetto moderno dello Stato, mettono in una guerra aperta e continua con Roma qualunque Stato oggi riformi sè medesimo e accetti, rispetto al giure pubblico, civile ed ecclesiastico, le conseguenze della scienza e della storia ne’ tre ultimi secoli. II Cavour sostenne da deputato la riforma del foro ecclesiastico, proposta dal Siccardi, e da ministro, assentendo e difendendo la presentazione della legge sulla soppressione di parecchie comunità religiose e di quella sul matrimonio, continuò ad asserire l’indipendenza del potere civile e la necessità di costruire lo Stato laico. Pure, anche in questa parte mostrò quella sua propria indipendenza e fermezza di giudizio, giacchè si rifiutò sempre di proporre l’incameramento dei beni ecclesiastici, parendogli che fosse un provvedimento da cui dovessero tornare effetti contrari a quelli che si auguravano coloro i quali se lo proponevano; giacchè non si potesse argomentare che ne avesse, per prova di logica e di fatti, a resultare altro che una maggior dipendenza del clero da Roma, ed una maggior scissione di esso dalla società civile, con cui non avrebbero più avuto comune nessun interesse.
«Roma, la quale vedeva per la prima volta ripenetrare in Italia dei concetti e de’ propositi i quali essa sperava che coi Francesi avessero rivalicate per sempre le Alpi, e li vedeva rifarsi avanti accompagnati dalla libertà politica, appunto nel tempo che essa cercava di farli disdire dagli eredi di Giuseppe II, Roma combattè fieramente; e il clero, inspirato da essa, principiò una guerra accanita d’intrighi e di calunnie contro il ministro autore di così spaventose innovazioni. Le si diceva: Ma non avete ammesso in tutta Europa tutto quello che ora noi introduciamo nel Piemonte? Ammesso, no, rispondeva, risponde e risponderà Roma; tollerato, sì; ma l’ho tollerato per non potere altrimenti, pronta a ricacciarmi da capo avanti, appena lo Stato sia costretto da’ suoi pericoli inferni a ritrarsi indietro.
«E l’Austria, in quel tratto di tempo che è scorso dal 48 al 59 si ritraeva appunto indietro, e rinunciava alla miglior parte delle sue leggi; la qual cosa dava delle speranze grandissime e, son quasi per dire, delle allucinazioni a Roma. L’Austria seguì in quell’intervallo una politica verso Roma affatto contraria a quella che seguiva il Piemonte; questo spingendosi nelle vie dell’avvenire, quella ricalcando le vie del passato. L’Austria e Roma in quel frattempo cercarono di compire la loro alleanza; giacchè, sorelle da gran tempo nel giro della politica, erano sin allora rimaste peggio che due nemiche nel giro delle questionî ecclesiastiche. Con quanta lealtà l’Austria cedesse, s’è visto a’ fatti; giacchè il Concordato non è poi rimasto una realtà che sulla carta. Se non che Roma è astuta, e si contenta delle apparenze. L’ipocrisia è un ossequio alla virtù; e l’ottenere che vi si ceda, anche apparentemente, è una prova che la vostra riputazione di forza se n’è migliorata ed aumentata.»
«Più pericolosa era la inimicizia d’Austria, contro la quale bisognava tener ferma ed alta quella bandiera inalberata da Carlo Alberto, bandiera di libertà e d’indipendenza italiana che ad essa minaccia rovina. E l’Austria lo sentiva, nè nascondeva a sè medesima, che, quando il Piemonte fosse lasciato andare per la nuova via, sarebbe ad essa rimasto impossibile di continuare per l’antico suo indirizzo e di rimanere alla lunga padrona di Lombardia e della Venezia. Bisognava adunque far prova a riprese d’audacia e di prudenza, non recidendo nessuna parte del programma italiano annunciato nel 48, ma non rischiando neanche di averlo momentaneamente a sopprimere per la prevalenza delle armi altrui. Il Cavour, quindi, nel tratto dei dieci anni, senza provocar mai una guerra, che al Piemonte da solo sarebbe stata rovinosa, compì egli stesso o s’associò a quei ministri che compirono atti solenni coi quali si fece fronte, nel giro della diplomazia, alle pretensioni e alle minaccie dell’Austria. Quando questa, con insigne violazione di diritto, ebbe nel 1853 sequestrati i beni di parecchi cittadini piemontesi per punirli di colpe non loro, il Dabormida, ministro degli esteri nel ministero di cui il Cavour era capo, protestò gagliardamente, con un memorandum spedito a tutti i gabinetti d’Europa. L’Austria rispose alle querele del governo piemontese richiamando l’Appony, suo ministro presso la Corte di Torino, e il governo piemontese richiamò il Revel, che lo rappresentava presso la Corte di Vienna. E il Cavour, ministro delle finanze, chiese alla Camera de’ fondi per venire in aiuto alle famiglie de’ sequestrati.
«I due governi si premunivano. Mentre l’Austria, non contenta dell’occupazione continua delle Romagne, conchiudeva trattati con Parma e con Modena, ed afforzava Piacenza, il ministero del conte Cavour si preparava a migliorare le condizioni difensive del Piemonte, fortificando Casale, rinforzando Alessandria, e trasportando la marineria militare da Genova alla Spezia. E quante aspre battaglie non ebbe il Cavour a sostenere nel Parlamento contro coloro che, o per isbaglio di vista politica, o per il facile allarme degl’interessi municipali, s’opposero all’esecuzione di disegni così provvidi! Le fortificazioni di Casale, le quali sono state la salvezza del Piemonte nell’ultima guerra, ed erano state intraprese dal ministero nell’intervallo delle sessioni, essendogliene parso urgente il bisogno, non vennero approvate che alla maggioranza di due voti. Del rimanente, coteste battaglie parlamentari, come torna ad onore al Cavour l’averle vinte, così torna ad onore della libertà l’essersi dovute combattere; giacchè non è che con queste larghe e fiere discussioni che l’opinione pubblica si costituisce e si genera; e se la luce del vero non riesce sempre a conquidere i partiti nel Parlamento, riesce sempre a vincere gli animi del pubblico fuori. Ed è mediante queste discussioni che l’idea del fine che la nazione deve raggiungere, o dei mezzi adatti a raggiungerlo, si fa strada nel popolo; e si distinguono gli uomini, e se ne forma un retto giudizio e proporzionato piuttosto a’ loro meriti effettivi, che non alla boria delle loro frasi, o all’attrattiva delle loro lusinghe.
«Sinchè però il Cavour non fosse riuscito a trovare alla sua patria alleati iu Europa, non poteva parere ad un uomo di così cauto giudizio come il suo, che il Piemonte si trovasse in sicura e franca posizione. L’avvenimento dell’impero dovette sin da principio parergli una miglior soluzione delle cose di Francia rispetto all’Italia che non la gelida ed egoistica monarchia di Luigi Filippo, e la debole e pregiudicata repubblica. Quantunque l’Impero si annunciasse con parole di pace, non poteva non chiudere in grembo ambizioni di guerra. Che cosa, infatti, avrebbe voluto dire per la Francia l’Impero, se non avesse significato l’onta dei trattati del 15 cancellati? Pure, sui principii, quest’impero rinnovato era in sospetto degli effetti e delle influenze della libertà piemontese; e appunto perchè gli urti non precedessero e non rendessero impossibili le amicizie, il Cavour temperò il linguaggio sfrenato della stampa liberale di Piemonte; credendo che, se la libertà non potesse avere altro che beneficii nelle relazioni interne, non avrebbe potuto invece essere cagione che di danni, lasciata libera di turbare le relazioni esterne. La guerra di Crimea fu l’occasione della quale il Cavour si servì, non con fretta soverchia, ma però a tempo, per istringere tra l’Impero e la dinastia di Savoia quell’alleanza che avrebbe potuto permettere a questa di aprirsi la via ad un più largo avvenire. Ognuno previde che i soldati piemontesi che andavano in Crimea a combattere allato ai francesi non avrebbero avuto solo quelle lontane battaglie comuni con questi, e che ben presto, sopra un campo di guerra più vicino, avrebbero fatta comune prova di valore. Ma un partito nel Parlamento non lo vide o non lo volle vedere; e fu fortuna del Piemonte che allora, come prima, la maggioranza si stringesse d’intorno all’opinione dell’abile conte.
Il valore che i soldati piemontesi in Crimea, comandati da quello stesso Alfonso Lamarmora da cui era stato rifatto l’esercito, avevano mostrato al mondo, ristorò la riputazione militare del paese; come, d’altra parte, l’ordinato uso della libertà e l’intelligenza e l’applicazione delle sane dottrine economiche avevano aumentata la riputazione civile del Piemonte, e ristorato per mezzo suo quella d’Italia agli occhi d’Europa; giacchè davvero que’ moti, piccoli e subitanei, che avevan preceduto e seguito il 48, se potevano persuadere l’Europa che un partito avverso a’ governi ci fosse in Italia, e non mancasse di pervicacia e d’ardire, avevano però anche dovuto darle cagione di credere, che questo partito fosse scarso di numero come di mezzi, assistendo le popolazioni con tanta noncuranza alle sue continue disfatte. Oltre di che, parecchi de’ mezzi adoperati da cotesto partito erano di tal natura, che il solo vederli prescelti arguiva non solo un certo scadimento morale nell’indole di quelli che li adoperavano, e per riverbero, della nazione a cui questi appartenevano, ma anche una certa smania rabbiosa e sconsigliala, che pareva scaturire, anzichè dalla speranza di raggiungerne il fine, dalla disperazione di non poterlo ottenere.
«Il frutto di questa riputazione accresciuta del Piemonte il Cavour lo raccolse al congresso di Parigi, dove, non senza la contraddizione e la ripugnanza dell’Austria, fu chiamata la sua patria a deliberare alla pari de’ grandi Stati d’Europa. Questo vantaggio politico il Cavour cercò di migliorarlo al possibile, ma non potette quanto avrebbe voluto. Giacchè la discussione aperta per sua persuasione dal Walewski sugli affari d’Italia, e favorita dall’Inghilterra, non fu voluta accettare dall’Austria. Il Cavour però fu in grado di mostrare ai ministri raccolti delle potenze d’Europa quanto dura fosse la condizione d’Italia ed instabile e travagliata, e quanto il potere dell’Austria oltrepassasse oramai perfino i confini indicati da’ trattati stessi del 15, ed annullasse tutti gli altri governi minori d’Italia. E partendo lasciò e diresse all’Inghilterra e alla Francia un memorandum in cui ripresentava, colla sua chiarezza di concetto e di frasi, le miserie e i pericoli della sua patria; e, non uscendo dal giro dvi diritti riconosciuti e legali, proponeva i rimedii a’ mali più urgenti. In questo memorandum, nel quale il Cavour mostrava il dominio esercitato dall’Austria sui governi di Parma, di Modena, di Toscana e di Roma, e proponeva, come soluzione provvisoria della quistione romana, la separazione amministrativa delle Romagne, non era certo chiarito il pensiero finale del Cavour, ma vi si vedeva di che maniera egli intendesse procedere. Egli non ha una soluzione inflessibile nella mente, la quale ha necessariamente ad esser quella; e quando non vi si possa arrivare d’un tratto, ogni altro palliativo si deva piuttosto ricusare, per la speciosa ragione, che tutto ciò che modera un male, rendendone meno acuto il dolore, renda insieme meno urgente il bisogno di risanarlo affatto. A lui pare invece che il meglio sia nemico del bene, e non crede, come molti credono, che un passo fatto in avanti accresca, anzichè diminuire il cammino.
«Gl’Italiani ebbero tutti grado al Cavour della difesa presa di loro davanti a chi soleva prima sorridere a’ loro dolori, e persino ghignare. Da quel punto il nome suo divenne grande nella Penisola; e parecchie medaglie gli furono offerte per sottoscrizione pubblica da parecchie parti d’Italia, ed un busto dai Toscani colla leggenda:
Colui che la difese a viso aperto.
«Egli, di ritorno da Parigi, spiegò i risultati ottenuti dalla sua politica sino allora; e parecchi de’ suoi oppositori i più fieri si strinsero d’intorno a lui, e cedettero, persuasi cogli effetti della bontà della causa. Nè mancò di far sentire quanto più radicale ed aperta ed inevitabile fosse diventata la scissura tra Austria e Piemonte.
«Questa scissura s’andò nei tre seguenti anni aumentando sempre di più. Quando e come cominciassero i concerti del Cavour con Napoleone è cosa troppo incerta per farne oggetto di racconto, chi prima invitasse l’altro a disegni più vasti, è dubbioso, è certo, però che l’assicurazione dell’appoggio dell’Imperatore, aumentò continuamente la baldanza del Governo piemontese e la sospettosa ira dell’austriaco. Da quel tempo in poi i fatti sono troppo vicini ed evidenti per aver bisogno di racconto; e le cagioni particolari troppo poco chiarite per esser capaci di storia. L’alleanza fra il Piemonte e la Francia, fu stretta e poi confermata mediante il matrimonio della principessa Clotilde col principe Napoleone: l’Austria prestò il fianco alle offese provocando: e il Piemonte non cessò di dar materia e soggetto alle provocazioni dell’imprudente avversario.
Alessandria fu guernita di cannoni per una pubblica sottoscrizione raccolta in Italia; fu accettato dal Municipio di Torino, il dono di parecchie centinaja di migliaja di lire mandata da’ Lombardi, a fine di erigere un monumento all’esercito piemontese in memoria della guerra di Crimea, il giorno stesso che l’Imperatore Francesco entrava in Milano; all’Imperatore non fu spedito nessuno che da parte del Governo piemontese lo complimentasse; le proteste altere del Buol contro la stampa piemontese, ebbero risposta altera e severa nelle note diplomatiche e nelle Gazzette Ufficiali; le relazioni internazionali, appena mantenute sin allora per mezzo d’incaricato d’affari, furono rotte. Le parole dell’imperatore Napoleone nel capo d’anno del 1859 annunciarono la guerra, le trattative diplomatiche, nelle quali l’abilità del Cavour vinse e soprafece la superbia contagiosa del Buol, la sospesero durante tre mesi. Infine l’Austria, prorompendo a sproposito, invase il Piemonte, che con rara costanza d’animo si lasciò devastare le sue provincie, raccogliendo l’esercito attorno Casale ed Alessandria insino a che fosse pronto all’offesa; le schiere di Francia calarono all’ajuto; e Palestro, Magenta e Solferino, posero fine al dominio dell’Austria in Lombardia e alla sua prevalenza in Italia.
Il Cavour e Napoleone III non avevano, io credo, gli stessi intendimenti, l’uno nell'invitar l’altro a calare in Italia, l’altro nell’accettare l’invito. E potrebbe essere che questo dissenso intimo, fosse stato la cagione più prossima della pace di Villafranca. Il Cavour desiderava restaurare l’Italia, e raccoglierla, se non tutto a un tratto, almeno la Lombardia e la Venezia, sotto la dinastia di Savoja: ma non poteva volere, che in qualunque altra parte d’Italia si lasciasse nido a qualunque altra dinastia straniera, che, appoggiata da influenze estranee, avesse potuto rimetterci negli antichi guai. Non so se i moti di Toscana fossero dal Cavour voluti, e se non avrebbe preferito in que’ primi bollori, un temperamente provvisorio col Granduca. Credo che i moti delle Romagne e dei Ducati, entrassero di più nei suoi disegni; ma ad ogni modo mi pare che gli uni e gli altri e la proclamazione di Vittorio Emanuele a dittatore contribuissero ad arrestare sul Mincio il volo delle aquile imperiali.
Il Cavour, di certo, non aveva potuto conformarsi a tutte le regole della prudenza chiamando in Italia un alleato più potente che il Piemonte non era, e col quale, per sopraggiunta, sentiva di non poter concordare del tutto. Ma la prudenza non basta a risolvere; ed uno dei più illustri e rispettati Italiani suol dire, che il Cavour per questo appunto è un valente uomo di Stato, perchè ne ha le due qualità necessarie, la prudenza e l’imprudenza. Di certo è sempre l’audacia quella che gitta l’ultimo peso nella bilancia, e senza cui nessuna cosa di grande nè di bene non si conchiude. Il Cavour non aveva per giugnere coll’Italia al fine proposto, che un mezzo solo, quello dell’alleanza Francese. Questa aveva certo de’ rischi; ma quando questi rischi non si fossero voluti correre, quel mezzo stesso, e con esso il fine, almen per ora, si aveva a ripudiare.
Il Cavour fidava sull’Europa e sui sentimenti italiani stessi per ovviare a’ rischi di quell’alleanza. Difatto dopo Villafranca, e mentre durava il ministero Rattazzi, che, se non osava avanzare, non retrocedeva neanche l’Italia centrale, per riparare ai danni di quella pace, si andò ricostruendo da sè, e preparando alla unione col Piemonte, sotto l’egida della Francia; che, non amando gli avvenimenti a cui doveva assistere, pure era impegnata dall’onor suo a non turbarli essa stessa e a non lasciare che altri li turbasse.
La cessione di Savoja e Nizza alla Francia, quando il Cavour risolse, contro il palese volere di questa, d’accettare l’annessione dell’Italia centrale, era tanto più necessaria, quanto maggiore era l’ajuto dato della Francia a fatti che nel suo parere non erano i più favorevoli ad aumentare la forza relativa della sua potenza in Europa. Ricusare Savoia e Nizza al solo alleato che ci restava e di cui avevamo già contrastati in gran parte i desiderî, sarebbe stata non audacia ma pazzia. E il Cavour adunque accordò la cessione, e quantunque in alcuni particolari avesse proceduto con troppa fretta, si ottenne l’approvazione dal Parlamento; giacchè gli dimostrò quanto necessaria conseguenza essa fosse della politica seguita e degli effetti ottenuti, della politica da seguire e degli effetti sperati.
Quali questi effetti sono? ogni italiano lo sa, e il Cavour non mostra ch’egli disperi di arrivare col concorso d’Italia ad ottenere. Sin oggi egli è stato al timone, perchè gli avvenimenti preparava, non aspettava; ed ha guidata bene la nave, la quale, se non è ancora in porto, nè al sicuro delle tempeste, non ha però ancor dato in uno scoglio. Stende egli ora il suo sguardo, il Cavour, non solo all’Isonzo, ma all’estremo confine dell’Italia meridionale? Spera egli o crede di potere del mezzogiorno d’Italia farne tutt’uno col settentrione, come ha fatto tutt’uno con questo dell’Italia centrale? Aspetta egli questi avvenimenti, che s’accavallano l’uno sull’altro miracolosamente o li dirige ancora? Sarà egli sempre la prima figura del rivolgimento italiano o si vorrà rassegnare a diventare la seconda? Io credo che diriga egli e io spero che voglia e possa continuare a dirigerli lui perchè non credo che l’effetto finale possa essere durevolmente raggiunto se il corso dei fatti non è diretto da una mente la cui attitudine sia già provata e la cui audace prontezza sia temperata dell’abile consiglio; giacchè solo una mente di cotal tempra, tendendo quali siano e devano essere le istituzioni liberali che ci reggono, può sapere erigere sopra di esse come sopra base saldissima quell’edificio che il Cavour stesso diceva dodici anni fa dover essere l’onore e il decoro dell’età presente, la libertà e l’indipendenza d’Italia».
Noi abbiamo lasciato tal quali le ultime parole del Bonghi sebbene la morte dell’illustre uomo di Stato abbia a quest’ora sciolto il problema che il chiaro scrittore della biografia da noi più volte citata si proponeva. Ci rimane adesso a rapidamente narrare gli ultimi fatti ai quali il Cavour ebbe principalissima parte, quelli intendiamo della cooperazione efficacissima da esso avuta, nell’audace spedizione del generale Garibaldi in Sicilia e della spedizione delle Marche e dell’Umbria che valse a compire in modo decisivo l’annessione delle provincie meridionali alle altre tutte che già si trovavan riunite sotto il glorioso scettro di Vittorio Emanuele.
I primi moti scoppiati in Sicilia posero in un tal quale imbarazzo il conte di Cavour giacchè egli comprendeva quanto dovesse riuscire malagevole al Governo nazionale di ajutarli palesemente e come d’altronde fosse impolitico affatto e contrario al compimento del gran disegno di unità nazionale ch’ei s’era da lungo tempo formato in mente, il ristarsi dal porgere ajuti efficaci all’insurrezione Siciliana onde riuscisse a bene e valesse a formare il primo anello della catena la qual congiunger doveva le estreme parti della penisola alle superiori. Quindi è che non si appongono al vero coloro i quali sostengono che la progettata spedizione garibaldina fosse avversata dal gran ministro piemontese, quando è fatto ormai noto ad ognuno che se il Cavour non ne ebbe la prima idea, appena però gli si fecero aperture in proposito egli acconsenti di buon grado a prendervi tutta quella parte che senza troppo compromettersi in faccia all’Europa, tuttavia assicurasse in gran parte l’esito dell’arditissima impresa. Garibaldi salpò da Quarto, sbarcò felicemente a Marsala, e non tardando a penetrare in Palermo, dette l’ultimo urto alla monarchia crollante dei Borboni.
Cavour che forse aveva prima dubitato della possibilità del successo, cominciò allora a porvi sicura fede e si adoprò in modo, da non lasciarsi andare a promesse, e molto meno a patti, con gl’inviati spediti a Torino, da Francesco II; cosicchè mentre respingeva l’alleanza napoletana da un lato, dall’altro sotto mano ajutava il vincitor di Milazzo, non impedendo che da ogni porto dello Stato gli giungessero volontarî ed in ogni città si raccogliesse denaro. E quando talvolta la Francia e l’Inghilterra gliene movean rimprovero, ei rispondeva loro, le seguenti parole; come volete che ai popoli italiani io vieti di correre in ajuto ai loro concittadini e consanguinei mentre voi, non potete vietarlo ai popoli vostri?
Sbarcato Garibaldi presso Reggio e rapidamente quanto maravigliosamente recatosi con una marcia piuttosto trionfale che guerresca in Napoli, ove ebbe a prendere in mano il governo dittatorio di quelle provincie, il conte di Cavour temette che gli amici dell’eroe di Marsala, e il suo stesso spirito avventuroso lo spingessero ad imprese di soverchio rischiose, le quali, o potessero compromettere le sue forze militari, nè disciplinate nè agguerrite abbastanza a confronto del compatto e ben munito esercito che il Borbone aveva raccolto entro i baluardi di Capua e di Gaeta, o dessero un qualche appiglio all’Europa di mischiarsi nelle cose nostre, cosicchè la nave non rischiasse d’andare a fondo quando già prossima era ad entrare nel porto. D’altronde sembrava che Garibaldi stesso, gettasse pel primo una sorta di guanto di sfida al grand’uomo di Stato, col pubblicare una lettera poco dopo che fu giunto in Napoli, in cui rivelava il suo mal animo contro di esso.
Il conte di Cavour volle restare al timone perchè comprendeva quanto fosse necessario e salutare per l’avvenire del paese che egli allora vi rimanesse. Pure il Garibaldi onnipossente allora, e circondato da un prestigio che mai niun uomo ebbe l’eguale si spinse tant’oltre da chiedere al Re che dimettesse il Cavour. Faceva d’uopo aver coraggio e fermezza non comune; faceva d’uopo aver anche quell’audacia mediante la quale ci si spinge a tentare imprese che riescono solo agli uomini straordinari. Il conte di Cavour ebbe tutto; ei non si lasciò sfuggire il momento propizio «se non arrivo ai confini del Napoletano prima che le schiere dei volontarî ci arrivino, diceva egli ai diplomatici, il Governo è perduto».
«L’undici settembre, riprende a narrare il Bonghi, quattro giorni dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, il conte di Cavour consigliò il Re che ricevesse una deputazione che veniva dalle Marche e dall’Umbria ad esporre a quali mali quelle popolazioni soggiacessero per effetto dell’ira disordinata dei mercenarî raccogliticci dell’esercito pontificio; e pubblicasse un proclama in cui annunciando d’accettarne la tutela, comandava al suo esercito di valicare i confini all’oggetto — di restaurare l’ordine civile, nelle desolate città, e di dare ai popoli la libertà di esprimere i propri voti — ».
L’audacia era grande, e la Francia mostrò di riprovarla ritirando da Torino il proprio ambasciatore; solo l’Inghilterra acconsentì, le altre potenze freddamente amiche ebbero più sbalordimento che ira. Come i fatti rispondessero ai desiderî non è necessario il dire; la battaglia di Castelfidardo e la presa d’Ancona, aumentarono l’ardore e la riputazione dell’esercito, e restaurarono il credito del governo. Indi a poco il Re alla testa del vittorioso esercito, s’incontrava con Garibaldi sulle rive del Volturno, e la dittatura cessava, cedeano Capua e Gaeta, e le provincie meridionali, erano definitivamente congiunte al Regno d’Italia. Negli ultimi tempi di sua vita la mente del grand’uomo di Stato era tutta rivolta ad affrettare il compimento dei destini d’Italia, colla liberazione di Roma e Venezia. Era suo fermo convincimento che l’amministrazione e le finanze del nuovo regno non possano perfettamente ordinarsi fintantochè il problema politico non sia risolto. E forse, se il grand’uomo di Stato non fosse per disgrazia d’Italia mancato a’ vivi, a quest’ora la soluzione del problema, non avrebbe più a cercarsi. Quello che resta a fare, ai suoi successori, è evidentemente di camminare sulle di lui traccie, ma non in modo servile, e in certa qual guisa plagiario, giacchè i concetti di un uomo politico appartengono a lui solo e difficilmente possono essere da altri applicati. Principio questo, della verità del quale sarebbe necessario si persuadessero coloro degli Italiani (e son numerosi), i quali sembrano rinfacciare tutto ai governanti che presero in mano le redini del potere, di non essere altrettanti Cavour; quasichè non si sapesse che i genî di quella levatura sorgono di rado nel mondo, e che il proporsi di poggiare così in alto quando non si hanno ali abbastanza saldi per elevarvisi e sostenervisi, sia follia per tutti, e a più forte ragione per coloro che hanno tra le mani i destini delle nazioni.