Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 14
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CAPITOLO XIV
Impunità dei veri delitti.
Lo Stato del Papa è il più profondamente cattolico dell’Europa, poichè è governato dallo stesso Vicario di Gesù Cristo. Ma è parimente il più fertile per delitti d’ogni sorta, e soprattutto per delitti violenti. Antitesi e contrasti si scolpiti non potrebbero passare inosservati. Sono anzi mentovati di continuo, e se ne vorrebbe inferire conseguenza sfavorevole al cattolicismo; e qui s’esce di callaia. Non imputiamo alla religione le necessarie conseguenze di un certo genere di governi.
Il Papato ha sue radici in Cielo, non nel paese. Non è il popolo italiano che chiede il Papa; gli è Dio che lo sceglie, i cardinali che lo nominano, la diplomazia che lo conserva, e l’esercito francese che lo impone. Il sovrano Pontefice ed il suo stato maggiore costituiscono un corpo estraneo introdotto in Italia come una spina nel piede d’un taglialegna. Qual è il mandato del governo pontificale? A qual fine l’Europa è ita in traccia di Pio IX a Gaeta, per istabilirlo in Vaticano? È forse per dare a tre milioni di uomini un sorvegliante pronto e vigoroso? Un brigadiere di gendarmeria avria più maestrevolmente condotto la bisogna. Nulla di ciò. E stato, perchè il Capo della Chiesa potesse dall’alto del trono vegliare agl’interessi della religione; perchè il Vicario di Gesù Cristo fosse circondato di regio splendore. I tre milioni d’uomini, che abitano gli Stati suoi, dall’Europa son dannati a fare le spese del lusso di sua corte. Noi abbiam dato essi al Papa; non mica il Papa ad essi.
Ciò posto, primo dover del Papa é dire la messa a San Pietro di Roma per 139 milioni di cattolici. Il secondo, grandeggiare, recare in capo una corona, e guardarsi bene dal farla cadere. Ma che i tre milioni di sudditi si querelino, o a vicenda rubinsi gli scudi, sono agli occhi suoi veri nonnulla, o, al più, cosa secondaria, finchè nè Chiesa nè Governo sono assaltati.
È questo il punto di veduta, da cui è mestieri esaminar la distribuzione delle pene nello Stato del Papa: vedrassi che la giustizia colpisce logicamente a tutto pasto.
I più imperdonabili delitti all’occhio della cheresia son quelli che offendono Dio. Roma punisce le peccata. Il tribunale del vicariato manda al remo un bestemmiatore, o getta in prigione un imbecille che ricusa pasquare. E poi diranno che il Capo della Chiesa non la suo compito?
Il Capo dello Stato difende la sua corona, vi ho già conto in qual modo: nè credo abbiate ad appuntarlo di debolezza. É se Europa osasse affermare ch’ei lascia scuotere il trono in cui lo ha rimesso, noi le daremmo il catalogo degli estinti politici, de’ prigionieri di Stato ed una vaga collezione di sepolcri.
Ma crimini e delitti che gl’indigeni commettono gli uni contro gli altri non tangono, che indirettamente, il Papa e suoi cardinali. Che importa ai successori degli Apostoli che operai e campagnuoli s’accoltellino la domenica dopo i vesperi? Ne avanzeranno anche troppi per pagar le imposizioni.
Il popolo di Roma ha, da lunga pezza, contratto cattive abitudini. Usa frequente a bettola, s’acciappina appena brillo, e man mano, vuotando fiaschi, le coltellate spesseggiano come in Francia le pugna. Il volgo delle campagne imita i cittadini; regola a ghiado le questioni de’muri divisorii, la spartizione delle successioni, gli affari di famiglia. Farebbero con più senno recando i loro piati nanti: i magistrati; ma la giustizia va lenta; i processi costano caro; poi si hanno ad ungere le carrucole, il favore sorpassa il diritto; il giudice è un imbecille, un intrigante, un tanghero. Basta, il coltello tronca il nodo. Giacomo cade: ha torto; Niccolò preda, egli ha ragione. Questo breve dramma ha luogo nello Stato del Papa quattro volte al di; ne dò malleveria la statistica del 1853. È male grande pel paese, ed anche per l’Europa seria sventura. La scuola del pugnale, fondata in Roma, stabilisce succursali altrove. E noi abbiam veduto i più sacri interessi della civiltà messi sotto il pugnale, di che han fremuto tutti gli onorati uomini dell’universo, senza eccettuarne il Papa.
Eppur, sarebbe faccenda di poco momento levar lo stiletto dalle mani de’ suoi sudditi. Non richiederebbesi ch’egli rifacesse l’educazione del popolo, ciò che vorrebbe tropp’agio; nè che raddrizzasse il procedimento della giustizia civile, cosa questa che moltiplicherebbe il numero de contendenti nello scemare quello degli assassini. Basterebbe troncare, presto e a modo, qualche mala testa: ma ei ripugna. Gli assassini da taverna non sono punto nemici del governo.
Ei corre dietro ad essi per seguitar l’usanza de’paesi civili; ma concede spazio bastante per porsi in salvo; e se giungessero alla riva di un fiume, si cesserebbe dallo inseguire; chè potrebbero affogare guadandolo, e perire senza confessione. Di più: se essi aggrappano la tonaca d’un cappuccino; son salvi: se entrano in una chiesa, un convento, uno spedale, son salvi: se pongon piede su dominio ecclesiastico, o su proprietà clericale (e ve ne ha per 500 milioni nello Stato), la giustizia s’arresta e rimane spettatrice di loro fuga. Una parola del Papa basterebbe per cessare cotesto abuso dell’asilo che è un perpetuo insulto alla civiltà; ma lo si conserva studiosamente per chiarir gli uomini che sopra tutte cose umane stanno i privilegi della Chiesa. Dite checchè vi piaccia, voi fate la zuppa nel paniere.
Se, per sorte, alla polizia cade fra le unghie un omicida, lo si trascina nanti i tribunali, cercansi testimoni del delitto, ma non se ne rinvengono punto. Imperciocchè qual vuoi cittadino torrebbesi a disonore abbandonare un collega ai nemici della nazione; lo stesso ucciso, se potesse rivivere, giurerebbe di non aver nulla veduto. Il governo non ha forza per costringere i testimoni a deporre ciò che sanno, nè per rassicurarli intorno alle conseguenze di loro deposizione. Ondechè il più evidente delitto non può esser dimostrato tale in giustizia.
Supponete che l’assassino siasi lasciato acchiappare, che i testi abbiano vuotato il sacco, ed il delitto sia provato; ciò non ostante, il tribunale tentenna di pronunciar pena di morte.
L’effusion del sangue rattrista le popolazioni; il governo non ha nulla contro l’omicida; dunque, al remo, dove, tutto pesato, non istà poi tanto malaccio; tosto o tardi gli sarà fatta grazia; avvengachè il Papa, incurioso del di lui delitto, ha maggior profitto a porlo in liberta, che a sostenerlo.
Ponete la cosa all’estremo. Immaginate un delitto si potente e mostruoso che i giudici a malincuore abbiano dannato il reo a pena di morte. Pensate, per avventura, che darannosi fretta di spacciarlo per lo esempio? Novelle. Gettanlo in una segreta, e quivi fannolo stare a dilungo, sperando che da per sè si muoia. Nel luglio 1858, in Viterbo, piccola città, erano ventidue sentenziati a morte, i quali cantarellavano salmi nella prigione aspettando il boia.
Il boia arriva; tosto ne manda uno a dar calci al rovaio; ed il popolo é commosso a compassione; la folla piange; un grido solo odesi dalla bocca della gente: Poveretto! Egli è che il suo misfatto data da dieci anni; nessuno se ne rammenta; ei stesso l’ha espiato col carcere. Il supplizio sarebbe riuscito esemplare se fosse stato eseguito dieci anni prima.
Eccovi i rigori della giustizia penale. Non vi parlo di sua benignità, chè ne smascellereste dalle risa. Il duca Sforza Cesarini assassina un servo, su due piè, perchè parla vagli con poco rispetto. Il Papa condannò l’omicida ad un mese di ritiro in un convento... per lo esempio.
Guai però chi toccasse l’Arca santa, chi finisse un prete, minacciasse un cardinale! Per lui nè asilo, nè galera, nè clemenza, nè indugio. Or fa trent’anni, la giustizia mise in brani sulla Piazza del Popolo l’uccisor d’un prete. E, non ha guari, fu decapitato colui che aveva attentato alla vita del cardinale Antonelli. Avviene de’ briganti come degli assassini. Ogni cosa mi fa credere che la corte pontificia non farebbe guerra a oltranza ai ladri delle vie maestre, se promettessero di non toccare la pecunia e le spedizioni sue. L’arresto dei viaggiatori, il rapimento di alquante bagaglie ed anche il saccheggio di una casa particolare non sono poi flagelli religiosi o politici. I briganti, per fermo, non iscaleranno il cielo e neanco il Vaticano,
Lo 'mperchè v’ha bei colpi a fare, massime di là dall’Apennino, nelle provincie di sarmate, ma non guardate dall’Austria. Il tribunale di Bologna descrive al vivo lo stato del paese in una sentenza del 16 giugno 1856:
«Negli scorsi anni innumerevoli delitti d’ogni sorta flagellavano quella provincia. Furti, saccheggi, scialate, del continuo e per lutto avevan luogo. Il numero dei malfattori andava crescendo cosi come la baldanza in valorita dall’impunità.»
Nulla è cangiato dal giorno in che il tribunale di Bologna cosi parlava. Racconti inverosimili e pur verişsimi facevansi pel paese. L’illustre Passatore, che arrestò quasi l’intera popolazione di Forlimpopoli nel teatro, ha lasciato eredi di sue virtù. Gli audaci assassini che svaligiarono la Diligenza nelle strade di Bologna, a pochi passi dalle caserme austriache, respirano tuttora e veston panni. In una gita di poche settimane alle rive dell’Adriatico ebbi ad ascoltare buccinarsi tutti i giorni novelle paurose. Costì, un proprietario assediato da piccola mano di ladri nelle sue case, a breve distanza da Rimini; là, tutti i detenuti di un carcere se n’erano iti co’carcerieri, a loro grande agio. Altrove la Diligenza aveva corso disgrazie alle porte della città. E se vivevasi in posa in alcun cantuccio, gli era perchè gli abitanti, calati a patto co’ briganti, pagavan loro la stabilita taglia. Cinque volte la settimana incontrava il corriere pontificio sotto guardia di un Omnibus riempito di gendarmi, e cotesto spettacolo mi faceva avvertito che il paese non era troppo sicuro.
Il governo poi, debole ed incurioso per imprendere a sterminare il brigandaggio e quietare il paese, fa talvolta vendetta dell’autorità sua vilipesa e del danaio rapitogli. I giudici istruttori non si recano benigni quando sono sospinti ad agire. Non solo stringono gli accusati a confessar loro delitti, ma talvolta stringonli con la morsa. Il tribunale di Bologna lo ha detto, a grande rincrescimento, il 16 giugno 1856. Ha fatto menzione di mezzi violenti e feroci.
Ma il furto semplice, il furto innocente, il furto di tabacchiere e di moccichini, il furto che cerca nelle tasche altrui una discreta limosina, è tollerato con bontà paterna, cosi come la mendicità. Le statistiche ufficiali pubblicano, con attenuamento, il numero de’ mendici di Roma; duolmi che non dei tagliaborse, che certo formicolano. Il governo li conosce tutti per nome, e lasciali in lor balia. Gli stranieri sono ricchi abbastanza e denno un tributo all’industria nazionale. Da altra banda, il borsaiuolo non toccherà mai la pezzuola del Papa.
Un Francese arresta un elegante che tentava rapirgli l’oriuolo, e trascinato al posto più vicino, consegnalo al sergente. «Vi credo, gli dice il sott’ufficiale; quest’uomo è un lombardo; e bisogna bene che siate novello nel paese, poichè nol conoscete: ma se tutti i suoi pari avessero ad arrestarsi, le nostre carceri non sarebbero capaci di contenerli. Sàlvati, camerata, e misura meglio i tuoi colpi!»
Un altro è rubato nel mezzo il Corso, a notte tarda, tornando dal teatro. Ei va per giustizia, ed il magistrato gli dice in tuon grave: «Signore, voi eravate girellone in ora, in che la brava gente è tutta coricata.»
Un altro vien preso dai ladri nella via da Roma a Civitavecchia. Dà loro la borsa e, giunto a Palo, narra l’avvenuto all’ufficiale politico. Il galantuomo, il quale spelazza il passaporto de’ forestieri finchè ne abbia carpito una ventina di baiocchi, risponde al ricorrente: «Or che volete voi? La miseria è al colmo.»
Ma nella vigilia delle maggiori solennità, avvegnachè non abbiasi a turbare la santità delle cerimonie religiose da’ malfattori, tutta la canaglia di Roma è obbligata a condursi co’ proprii piedi nelle prigioni: e questo è davvero un fare a fidanza con governo paterno. Se un sol ladro di professione mancasse al convegno, lo si andrebbe a prendere in casa in sul far della mezzanotte. Ad onta di si savie previsioni, durante la Settimana santa, van perduti parecchi oriuoli. Ma guardivi di querelarvene alla polizia; chè vi risponderebbe, senza batter ciglio: «Abbiam preso le precauzioni arrestando tutti i ladri conosciuti; se ve ne ha di novelli, tanto peggio!».
Eccovi un avvenimento seguito mentre ero in Roma, dal quale conoscerete i vincoli di fraternità che uniscono ai ladri i magistrati.
Il signor Berti, antico secretario di monsignor Verdi, possedeva una tabacchiera d’oro, che aveva carissima, sendo dono del suo signore. Un giorno, transitando il Foro Romano, toglie presa di tabacco nanti il tempio di Antonino e Faustina, e ripone la tabacchiera in iscarsella; ahimè, era stato veduto! Nell’istante medesimo vien rovesciato da’ giuocatori di ruzzola(disco); rialzasi, tasta il borsellino, la tabacchiera non v’era più.
Va difilato a contar la cosa ad un giudice suo amico. «È un bel nulla, dice il magistrato. Ritornate domani al Foro, cercate di Antonio, tutti ve lo additeranno; presentatevi a lui in mio nome, e chiedetegli dell’oggetto che avete perduto. »
Il signor Berti va il di seguente, cerca Antonio, ed il personaggio accorre. Sorride al nome del giudice, e protesta che non può nulla negargli. In questa, grida a piena gola: «Ehi, Giacomo!» Un altro assassino sbuca dalle ruine del tempio alla voce del suo signore. « Chi era ieri di servizio?
— Peppo.
— Gli è qui?
— No, egli ha buona giornata, oggi.
— Signore, gli dice allora Antonio, nulla per voi questa mane. Tornate domani alla stess’ora: spero ne sarete contento.»
L’indomani, all’ora detta, Antonio è col signor Berti; chiedegli minuta descrizione della tabacchiera per non essere uccellato da un furbo, e ultimamente gli dice: «Ecco la tabacchiera. Datemi due scudi. Ve ne chiederei quattro se non mi foste diretto da un magistrato che io stimo. »
Tutti i magistrati però non sono al pari stimabili, testimone la storia del marchese di Lesmaisons. Gli erano state involate sei posale d’argento, ed ei, imprudente, ne fe’ querela. La giustizia volle esser chiarita per filo e per segno intorno agli oggetti, ed il marchese, per maggior sicurezza, confidò al giudice istruttore il rimanente della dozzina. Se la cronaca narra il vero, il pover’uomo v’avria rimesso mosto ed acquerello perdendo dodici posate.
Le concussioni de’ pubblici impiegati sono tollerale, fino a che non nuocono per diretto al potere. Di qualunque rango, l’impiegato vi stende la mano, e vi domanda a bere: il governo, anzichè adontarsene, gode: è tanto di meno sul salario.
Ei condona finanche lo scialacquamento dei beni pubblici, se il colpevole sia ecclesiastico o ben pensante; chè le colpe degli amici si giudicano in famiglia. Un prelato si governa male? Si garrisce, si muta di luogo, gli si toglie l’impiego e glie se ne dà un altro migliore. Monsignor N.... ruina le finanze della santa Casa di Loreto: chiamato in Roma, ha la direzione dell’Ospedale di Santo Spirito, certo perchè questo stabilimento, assai più ricco, con maggior difficoltà può venire in ruina. Monsignor A.... era uditor di Rota, e mal giudicava: fu nominato delegato a Bologna: quivi amministrava le cose a dirotta, ed il governo non era contento di lui. Per rimediare a tutto, è nominato egli stesso ministro; e lo è tuttora.
Se talvolta sono puniti colpevoli di qualità ed usasi contro di essi tutto il rigor delle leggi, credete a me, il bene pubblico non v’entra un fico secco: cercate altrove le cagioni di sua condanna. E prova ne sia il processo Campana che ha levato sì gran rumore nel 1858.
Il povero marchese era, dopo suo padre e suo nonno, direttore del Monte di pietà, impiego che collocavalo immediatamente sotto il ministro delle finanze, cui spettava sopravvegliarne gli atti ed impedirne il male.
Egli impazza per mania di collezione, che ha rovinato di molta buona gente. Ponsi a comperar quadri, marmi, bronzi, vasi etruschi. Accumula gallerie a gallerie comperando checchè gli vien fra mani, buono o reo che sia. Nè mai erasi veduto in Roma si sfondolato compratore. Ma dalli e dalli; aumentando la collezione delle anticaglie, venne meno al marchese quella degli scudi. Si ricorse al prestito. La cassa del Monte era bella e pronta: il marchese presta a sè stesso, e pone la sua collezione in pegno. Che cosa dice il ministro? Il Galli, ministro delle finanze, acconsente. Campana era stimato in Corte, avuto in pregio dal Papa, in affetto dai cardinali; noti suoi principii, provata la divozione sua al potere, ed il Governo nulla ricusa a’ suoi amici. Si concede al marchese d’imprestare a sè stesso 100,000 lire, ed egli dà pegno che supera a pezza il prestito.
Ma l’ordine ministeriale che gli dava facoltà di prender danaro dalla cassa era si avviluppato e si contorto, che Campana potè prendere, senza nuova facoltà, la bagattella di 2,647,730 lire; e tanta moneta dal 12 aprile 1855 al 1. dicembre 1856, in diciannove mesi e mezzo!
Niuno ignoravalo: il prestito non era certo nelle regole, ma non clandestino. E Campana pagava a sè stesso, l’interesse del denaro che erasi prestato.
Fu, per vero, ammonito nel 1856 con paterna bontà: gli fu mostrata, ma non messa la briglia; era si riverito in Corte!
Lo sciagurato non s’arrestò nel precipizio: non avevano neppur pensato a chiudergli la cassa. Ed ei ne levò ancora 2,387,200 lire dal 1° dicembre 1856 al 7 novembre 1857. Ma feste sfolgorate si davano nelle sue case ed i cardinali amavanlo intimamente; d’ogni parte attestazioni di satisfazione. E di vero, che uopo ha la Chiesa del Monte di pietà? Serve solo alla popolazione. Campana avria potuto tôrre a prestito anche le mura del Monte, che la corte pontificia non avrebbe trovato cosa a ridire.
Per malanno, il cardinale Antonelli trovò suo tornaconto di spedirlo alla galera. Il grand’uomo di Stato ne tirava tre beni. Primo, chiudere la bocca alla diplomazia ed alla stampa forestiera che non rifinivano di accusare il Papa per si grave abuso tollerato. Secondo, raumiliare cotesti laici impertinenti, i quali, senza aver calze pavonazze, si argomentano diventar qualche cosa. Terzo, dare il Monte di pietà al già ciociaro messer Filippo Antonelli.
Il colpo preparò alla chetichella, e nell’ombra e nel silenzio rizzo le batterie: è cima di maestro in tali bisogne. Campana viveva in giòlito; iva, tornava, dava desinari, e comperava statue, come all’ordinario, mentrecchè il cardinale, negoziando un prestito con Rothschild, ponevasi in istato di calmar la voragine, insieme dettando al procurator fiscale un’accusa di peculato.
La giustizia, o almen la disgrazia piombò qual fulmine sul povero marchese. Dal palagio alla prigione non corse che un passo. Ed egli, stropicciandosi gli occhi, chiedeva a sè stesso, se non sognava. Avrebbe riso se avessergli detto che correva alcun periglio. «Delitto di peculato!» — Peculato è il delitto d’un impiegato che clandestinamente volge la pecunia pubblica a suo privato vantaggio. Ora, ei nulla preso aveva clandestinamente, ed era rovinato da cima a fondo. Perciò scriveva sonetti in prigione, e ogni quando un artista fosse andato a vederlo, davagli commissione di qualche lavoro.
Giovane avvocato difeselo con eloquenza, ed il tribunale l’ebbe dannato a vent’anni di lavori forzati. Per verità, il ministro, che avealo lasciato fare, meritava gli si mozzasse la testa. Ma lupo non mangia lupo.
L’avvocato del marchese fu a sua volta condannato per averne assunta la difesa; per tre mesi gli fu interdetto il foro.
Credete voi che Campana fosse accorato di si dura condanna? Il popolo, conscio di sue liberalità, lo ha in venerazione di martire; la borghesia lo dispregia assai meno di tale o tal altro impiegato impunito. Gli amici del celo nobile o del Sacro Collegio, all’occasione, gli stringerebbero la mano. Ho veduto il cardinal Tosti, suo carceriere e suo amico, prestargli la propria cucina. Le condannagioni disonorano solo nei paesi, ove onorati sono i giudicanti; ed ognuno sa che i magistrati pontificii non son istrumento di giustizia, ma utensili del potere.