Il Fiore delle Perle/29. L'assalto della tigre

29. L'assalto della tigre

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Capitolo XXIX

L’assalto della tigre

La tigre si era fatta annunciare dal suo grido di guerra.

Tali animali sono ferocissimi, specialmente quando hanno cominciato ad assaggiare la carne umana, però sono nell’istesso tempo d’una prudenza estrema.

Non affrontano l’uomo di fronte, a viso aperto, come si suol dire; preferiscono l’agguato o la sorpresa, confidando nella propria elasticità la quale è veramente meravigliosa.

Non si creda però che avesse abbandonato l’inseguimento degli avversari. No, s’avanzava prudentemente, scivolando fra i bambù, adagio adagio, spiandoli attraverso le foglie, ma senza mostrarsi.

Probabilmente non aveva reputato buono il momento per slanciarsi sulle prede umane.

Hong ed i suoi due compagni si ritiravano pure adagio, con gli occhi in guardia, le armi pronte. Non ardivano volgere le spalle per paura che il terribile felino, con un gran salto, piombasse addosso a loro prima che avessero avuto il tempo di far fronte al pericolo.

Hong non aveva perduto il suo straordinario sangue freddo e si manteneva calmo; il malese ed il giovane selvaggio, al contrario, provavano dei tremiti che rassomigliavano ai brividi che produce la febbre.

— Coraggio, — ripeteva Hong. [p. 219 modifica]

— Ne ho, — rispondeva il malese. — Non è che un po’ d’impressione; passerà alla prima fucilata. —

Il selvaggio ad un tratto si fermò, facendo un gesto colla mano.

— Cos’hai? — chiese Pram-Li.

— La tigre non ci segue più.

— Sei certo!

— Non vedo più agitarsi le cime dei bambù.

— Che abbia rinunciato a seguirci?...

Il giovane selvaggio crollò il capo con un gesto dubitativo.

— Cosa dice? — chiese Hong.

— Pare che la tigre si sia fermata, — rispose il malese.

— Che abbia preso un’altra direzione per piombarci alle spalle? Simili animali sono traditori.

— Lo temo, Hong.

— Aspettiamo.

Si strinsero l’uno addosso all’altro, puntando le armi in tre diverse direzioni e stettero in ascolto.

Nessun rumore turbava il silenzio che regnava nella macchia. Gli alti bambù erano perfettamente immobili tutto intorno ai tre cacciatori.

— Nulla, — disse finalmente Hong. — Che la tigre sia tornata verso il babirussa?

— Vindhit, — disse il malese. — Prova a lanciare una freccia dinanzi a noi.

Il giovane selvaggio tese l’arco ed il sottile cannello, dalla punta di ferro avvelenata, partì sibilando piantandosi fra i bambù poco prima smossi dal felino.

Un hu-uau strepitoso fu la risposta.

— La tigre è imboscata, — disse Hong. — Va bene, la scoveremo.

— Non esponiamo inutilmente la nostra pelle, — disse Pram-Li.

— Se non ci decidiamo, questo dannato animale ci giuocherà qualche pessimo tiro: è meglio che diamo battaglia. Lascia sparare a me il primo colpo. —

Il chinese si chinò fino a terra guardando sotto il fogliame dei bambù. Come si sa, queste canne, verso terra non mettono rami. È a qualche metro dal suolo che le foglie si estendono, quindi abbassandosi si può vedere ciò che si nasconde sotto.

Appena curvatosi, gli sguardi del chinese s’incrociarono con due occhi color dell’acciaio, che mandavano lampi strani.

— La vedo, — disse. — Sta imboscata a cinquanta passi da noi. —

S’inginocchiò e puntò il fucile mirando con grande attenzione.

Il malese, in piedi dietro di lui, si teneva pronto a far fuoco [p. 220 modifica] appena il felino si fosse mostrato e presso gli stava il giovane selvaggio con l’arco teso e la freccia incoccata.

La tigre, accortasi di qualche cosa, mugolava sordamente e di tratto in tratto si vedeva muovere, in mezzo alle canne, la sua coda giallastra ad anella nere. Era inquieta, lo si capiva.

Hong mirò per qualche istante, poi premette il grilletto.

La detonazione fu seguìta da un urlo spaventoso. La tigre aveva fatto un salto in aria abbattendo i bambù che si trovavano a portata delle sue zampe, poi era ricaduta fra i vegetali.

— È morta! — gridò Pram-Li.

— Andiamo ad assicurarcene, — rispose Hong, lietissimo di quel colpo maestro.

Senza prendersi la briga di caricare l’arma, si slanciò verso il luogo ove era caduta la fiera, seguìto dal malese e dal giovane selvaggio.

Quando giunse presso i bambù spezzati, vide a terra la tigre. Giaceva sul fianco destro ed aveva lo splendido pelame macchiato di sangue.

— È finita, — disse.

Stava per curvarsi onde meglio esaminarla, quando la tigre d’un balzo fu in piedi, scagliandosi furiosamente addosso all’imprudente cacciatore.

Hong, urtato poderosamente, non resse e cadde fra i bambù. Quel capitombolo fu la sua salvezza, poichè se avesse cercato di resistere avrebbe certamente provato l’acutezza di quelle terribili unghie.

La fiera, trovandosi dinanzi al malese ed al giovane selvaggio, esitò un momento, sconcertata forse della mala riuscita dell’attacco.

Quel momento le fu fatale. Il malese, dinanzi al pericolo, aveva riacquistato prontamente il coraggio.

Con moto istintivo allungò il fucile, puntandolo sul petto della fiera e fece fuoco precipitosamente.

L’animale cadde di peso, fulminato da quella scarica. La palla doveva avergli attraversato il cuore.

— È morta!... — urlò il malese, mentre il giovane selvaggio, con un tremendo colpo di coltello le squarciava il collo.

Hong si era di già alzato, stringendo il fucile per la canna.

— Per Fo e Confucio! — esclamò. — Ecco un colpo che vale il mio!...

— E sparato a tempo, Hong. Credevo già di sentirmi lacerare vivo. —

Si curvarono sull’animale, osservandolo attentamente.

Era una tigre delle più grosse, non però tale da eguagliare quelle dell’India, che sono le più belle e le più sviluppate della specie. [p. imm18 modifica] [p. 221 modifica]

La prima palla sparata dal chinese l’aveva colpita al fianco destro uscendo poi da quello sinistro, però non era stata sufficiente a produrre la morte; la seconda invece doveva averle spaccato il cuore, a giudicare dalla direzione della ferita.

— Mi rincresce abbandonare questa superba pelle, — disse Pram-Li.

— Abbiamo perduto già perfino troppo tempo, — rispose Hong. — Than-Kiù sarà inquieta per la nostra prolungata assenza. E poi non dimentichiamo Tiguma. —

Ricaricarono le armi e s’affrettarono a uscire da quella macchia che per poco non era diventata la loro tomba.

A cinquecento passi dal fiume incontrarono la giovane chinese e Sheu-Kin. Avendo udito quei due colpi di fucile, erano accorsi credendo i loro compagni in pericolo.

— Prepariamo la colazione, poi rimettiamoci in marcia, — disse Pram-Li. — Vindhit ci prega di affrettarci, o non giungeremo in tempo a tagliare la via ai cacciatori d’uomini. —

Accesero un bel fuoco e misero ad arrostire uno zampone del babirussa, dopo d’averlo strofinato per bene con erbe aromatiche.

Mentre si cucinava, spandendo all’intorno un profumo squisito, il giovane selvaggio si era diretto verso il fiume per cercare qualche pianta fruttifera. Quando ritornò, carico di banani e di noci di cocco, l’arrosto era pronto.

Quella colazione, fatta in riva al fiume, all’ombra di quei grandi alberi, fu deliziosa. Perfino il Fiore delle perle fece molto onore all’arrosto.

Mezz’ora dopo il piccolo drappello, preceduto da Vindhit, riprendeva la marcia attraverso alla grande foresta, dirigendosi verso l’ovest.

Gli alberi giganti si succedevano senza interruzione, lontani però l’uno dall’altro parecchi metri, sicchè la marcia non riusciva difficile. Tutti quei tronchi, perfettamente diritti, davano l’illusione di un immenso colonnato sostenente una vôlta impenetrabile di verzura.

Quantunque vi fosse molto spazio sotto quei colossi della vegetazione, regnava tuttavia una temperatura di serra calda, assolutamente snervante.

Tutti, il giovane selvaggio compreso, sudavano copiosamente, e provavano molta difficoltà a far funzionare i loro polmoni.

Pochi volatili abitavano quella selva maestosa. Solamente, di quando in quando, si vedeva fuggire qualche splendido argo, o qualche coppia di colombe coronate, e molto di rado si udiva il cicaleccio di qualche pappagallo. Gli animali invece mancavano assolutamente, non essendovi macchie ove nascondersi od imboscarsi.

Dopo due ore di marcia faticosa, il drappello giungeva sulle rive [p. 222 modifica] d’un’ampia laguna, la quale si estendeva fino alla base d’una catena di colline boscose.

Su quelle rive non crescevano che pochi alberi isolati e d’aspetto triste. Intorno a loro non si vedeva spuntare il menomo filo d’erba, il più piccolo cespuglio. Pareva che il suolo fosse diventato assolutamente arido sotto l’ombra proiettata dal loro fogliame. Il giovane selvaggio scorgendoli aveva fatto un gesto di disgusto, e si era affrettato a piegare verso il nord, come se fosse premuroso di evitarli.

Hong e Than-Kiù si erano invece arrestati, guardandoli curiosamente.

Quei vegetali non erano brutti, anzi tutt’altro. Avevano il tronco liscio, snello, senza nodi, alto una trentina di metri, e portavano alla cima numerosi ramoscelli sostenenti delle larghe foglie di colore verde cupo.

— Cosa sono, e perchè li eviti? — fece chiedere Hong al selvaggio.

Fu Pram-Li che diede la risposta.

Bohon upas, — disse, col tono d’un uomo che vuol significare un segreto terrore.

— Gli alberi del veleno, — mormorò Hong. — Ora comprendo il motivo per cui vegetano isolati.

— Che alberi sono? — chiese Than-Kiù.

— Danno il veleno, — rispose Hong. — È col succo concentrato di quelle piante che gl’indigeni di quest’isola, al pari di quelli del Borneo e di parecchie terre della Malesia, avvelenano le loro frecce.

— È potente il veleno che producono?

— Non si è ancora trovato un antidoto, Fiore delle perle. Solamente in casi rarissimi l’ammoniaca è riuscita a guarire qualche colpito dalle frecce intinte nel succo di queste piante.

— E come si ottiene il veleno?...

— Pram-Li che è malese deve saperlo.

— Sì, — rispose questi. — Ho assistito parecchie volte alla raccolta ed alla preparazione del liquido. Si ottiene facendo sul tronco di quelle piante delle profonde incisioni entro le quali si cacciano a forza dei sottili bambù, spaccati a metà.

Dopo qualche po’ scola una materia lattiginosa che si raccoglie entro mastelli, e che poi si espone al sole perchè si condensi. Solo però, non basterebbe forse ad uccidere un uomo, perciò dopo d’averlo ridotto in una specie di pasta, vi si aggiunge del succo di tabacco o del tuba, pianta questa che dà una materia pure velenosa. Talvolta vi si unisce anche del succo di gambir, e allora il veleno riesce più potente e può conservare per un anno le sue proprietà letali.

— E le frecce basta intingerle in quella pasta? — chiese Hong. [p. 223 modifica]

— Sì, — rispose il malese. — Però si deve di quando in quando ripetere l’operazione, poichè l’umidità distrugge in breve tempo la virulenza dell’upas. Anche la pasta deve essere conservata in luogo asciutto, e si tiene ordinariamente presso il focolare.

— Deve essere pericolosa la raccolta del succo.

— Sì, quantunque il liquido, appena uscito dall’incisione, non abbia alcuna azione sulla pelle. È l’ombra proiettata da quelle maledette piante che dà molti disturbi ai raccoglitori. Produce violentissime emicranie e fa perdere perfino i denti.

— Infatti si vede la mala influenza di quelle piante. Intorno a loro non spunta un filo d’erba, — disse Than-Kiù.

— Perfino gli animali le evitano con gran cura, — disse Pram-Li. — Se un uccello si posasse inavvertentemente sui rami d’un upas cadrebbe fulminato. —

Mentre chiacchieravano erano giunti sulle rive della laguna.

L’acqua non era profonda ed il letto di quel grande bacino appariva melmoso e coperto in parte da piante acquatiche.

Qua e là si vedevano spuntare mazzi di canne palustri, le quali formavano tante isolette pittoresche, asilo sicuro di serpenti d’acqua.

Alcuni schifosi coccodrilli, sdraiati su dei banchi fangosi, si scaldavano al sole, sbadigliando beatamente, mentre in alto si vedevano volteggiare in gran numero parecchie specie di uccelli acquatici: delle ardee colle gambe lunghe, colle penne grigiastre ed un ciuffo sulla testa, molto somiglianti alle gru; delle bernicle, volatili grossi come colombe, molto brutti però, con un collo lunghissimo e secco, le penne biancastre arabescate in nero e le zampe palmate.

Anche qualche sula, di forme barocche, con le zampe corte ed il becco lunghissimo e molto acuto, volava di canneto in canneto, mandando di quando in quando una specie di fischio.

Il drappello s’avanzava rapidamente, non incontrando ostacoli. Poche piante crescevano sulle rive della laguna, sicchè non v’era bisogno di cercare dei passaggi.

Al di là però, ad una distanza di due o trecento metri, ricominciavano le foreste foltissime, composte per la maggior parte di banani selvatici, di pombo, di arenghe saccarifere, di borassi e di ammassi di gomuti e di rotang.

Verso il tramonto il piccolo drappello aveva oltrepassata anche la laguna, e si arrestava sui primi scaglioni della catena di colline.

— È per di qua che i cacciatori di teste passeranno, — disse Vindhit al malese.

— E se avessero preso invece un’altra via? — chiese Pram-Li.

— Non ve ne sono altre, poichè al di là di queste alture si [p. 224 modifica] estendono vaste paludi che non si possono attraversare senza imbarcazioni. Guarda lassù: non scorgi una specie di solco aperto fra le piante?

— Mi sembra di distinguerlo.

— È un sentiero, il solo che attraversa queste colline boscose.

— Scenderanno per quello?...

— Sì, di questo sono certo, — rispose il giovane selvaggio.

— Che siano già passati per di qui?...

— È impossibile; tuttavia non devono essere molto lontani.

— Allora domani noi potremo raggiungerli.

— O meglio incontrarli, e chissà, forse questa notte istessa. Accampiamoci qui e aspettiamo. Vi consiglio di non accendere alcun fuoco.

— Temi che possano scorgerlo?...

— Ti ho detto che non devono essere lontani. Anzi faremo bene a costruirci un riparo che possa servirci anche di difesa. —

Hong e Than-Kiù, informati di quanto aveva detto il selvaggio, approvarono l’idea di costruire un solido riparo.

Mentre la giovane chinese si riposava, essendo stanchissima, i suoi compagni si misero alacremente all’opera.

Con rami e foglie di banano improvvisarono una capannuccia, capace di ripararli dalle frecce dei cacciatori di teste, poi all’intorno innalzarono una specie di trincea adoperando di preferenza piante spinose e bambù.

Ne tagliarono tanti da formare una barriera di tre o quattro metri, ostacolo insuperabile pei piedi nudi dei selvaggi.

Avevano appena terminato di mangiare un pezzo d’arrosto avanzato dal mattino, quando Vindhit, il quale si era arrampicato su di un pombo, presso cui avevano costruita la capanna, fu veduto scendere a precipizio.

— Cosa c’è di nuovo? — chiese Pram-Li.

— Dei fuochi che ardono sulla vetta della collina, — rispose il giovane selvaggio.

— Molti?...

— Una ventina.

— Che sia il campo dei cacciatori di teste?...

— Non vi è da dubitarne. —

Il malese s’affrettò ad informare i suoi compagni.

— Ecco una buona notizia, — disse Hong. — Temevo che gli uomini del bagani avessero già attraversate queste colline.

— Cosa fare ora? — chiese Than-Kiù.

— Innanzi a tutto andremo ad accertarci se abbiamo da fare veramente coi cacciatori di teste. [p. 225 modifica]

— Vuoi recarti sulla cima della collina?...

— Sì, Than-Kiù: è necessario. Chissà!... Si può tentare un colpo di mano questa notte stessa.

— Ed io non verrò con te, Hong?

— No, Fiore delle perle. Io non voglio esporti a dei pericoli di questo genere, e poi tu sei stanca e devi rimanere a guardia della nostra fortezza. Sheu-Kin ti farà compagnia.

— Mi rincresce dover rimanere inoperosa, mentre voi andate a battervi.

— Avrai tempo per prenderti delle rivincite, mia valorosa Than-Kiù — disse Hong, con dolcezza. — La nostra missione non è ancora terminata.

— È vero, Hong, e forse molti pericoli ancora dovremo affrontare.

— E tutto per lui, — disse il chinese, coi denti stretti.

— Taci, Hong. Io saprò ricompensarti di tanta abnegazione e di tanto valore. Parti subito?...

— Voglio assicurarmi della posizione del campo nemico. —

S’aggrappò ai rami inferiori del pombo e issandosi a forza di braccia, raggiunse facilmente quelli superiori.

Di lassù potè scorgere distintamente numerosi fuochi i quali ardevano proprio sulla vetta della collina.

Attorno a quelle fiammate, le quali proiettavano una viva luce sui boschi vicini, egli potè scorgere parecchie forme umane.

— Sì, devono certamente essere i cacciatori di teste, — mormorò il chinese. — Dove avranno messo Tiguma? Nel centro dell’accampamento o agli angoli? Se potessi rapirlo senza che se ne accorgessero? Speriamo. —

Discese lentamente, e appena a terra chiamò il malese e Vindhit, dicendo loro:

— Partiamo, amici.

— Andiamo a sorprendere quei bricconi? — chiese Pram-Li.

— A tentare di rapir loro Tiguma, — rispose Hong. — Siete decisi a tutto?

— Anche a impegnare battaglia, — disse il malese.

— Tu non lascerai questo rifugio, Than-Kiù — disse Hong volgendosi verso la giovane chinese.

— Sii prudente, mio valoroso, — disse la giovane.

— Non temere, fanciulla. Useremo più l’astuzia che la forza. —

Le strinse la mano, guardandola appassionatamente per qualche istante, poi superò la barriera di spini e raggiunse il malese già sotto le piante.

— Sai guidarci? — fece chiedere al giovane selvaggio. [p. 226 modifica]

— Vi condurrò proprio dinanzi al campo, — rispose Vindhit, a cui Pram-Li aveva tradotta la domanda. — Vi è un sentiero che conduce sulla vetta della collina. —

Dopo avere attraversati alcuni fitti cespugli, essi giunsero in breve su di un sentiero aperto fra le boscaglie che coprivano i fianchi della collina.

Era un passaggio appena visibile, che pareva più fatto dagli animali che dagli uomini, ingombro già di sterpi, di radici che s’intrecciavano da ogni parte come enormi serpenti, e fiancheggiato da tronchi contorti.

Saliva a zig-zag, attraverso a quel caos di piante d’ogni specie, ora scendendo ed ora salendo burroni e burroncelli.

Vindhit innanzi a tutti, s’avanzava senza esitare, scostando i rami che potevano imbarazzare la marcia dei suoi compagni. Procedeva però con prudenza fermandosi di quando in quando per ascoltare, non essendo improbabile che fra quelle fitte macchie si celasse qualche animale pericoloso.

Non ostante quelle precauzioni, la marcia dei tre uomini non passava inosservata.

Di tratto in tratto qualche notturno predatore, vedendoli avvicinare, si levava fra i cespugli e fuggiva dinanzi a loro facendo scrosciare le foglie secche e muovendo i rami; oppure delle scimmie, che dormivano sugli alberi, mandavano qualche grido d’allarme, costringendo il minuscolo drappello a fermarsi.

Dopo un quarto d’ora di marcia silenziosa e prudente, il giovane selvaggio si arrestò in fondo ad un burrone. Guardando in alto aveva veduto un chiarore proiettato certamente dai fuochi che ardevano nell’accampamento.

In mezzo a quella luce, alcuni grossi pipistrelli volteggiavano disordinatamente. Erano dei kalong, o meglio delle volpi volanti, brutti volatili che raggiungono delle dimensioni straordinarie e che hanno un muso che somiglia a quello dei cani.

— Siamo vicini, — disse Vindhit, volgendosi verso il malese. — L’accampamento si trova sopra questo burrone.

— Che ci siano delle sentinelle?...

— Ordinariamente s’accontentano di tenere solamente dei fuochi accesi. I cacciatori di teste non hanno nemici in questi dintorni ed i fuochi bastano a tener lontane le fiere.

— Cosa dice? — chiese Hong.

— Che siamo vicini e che forse non ci saranno sentinelle.

— Gli uomini del bagani saranno ancora svegli?

— Certo, Hong. [p. 227 modifica]

— Ci converrà attendere che s’addormentino. Si potrebbe intanto raggiungere qualche altura dominante l’accampamento. —

Il malese avvertì il giovane selvaggio del desiderio espresso dal chinese.

— Seguitemi, — disse Vindhit.

Invece di salire il burrone di fronte, piegò a sinistra, cacciandosi fra i cespugli che coprivano la china.

Il passaggio era tutt’altro che facile, essendo costretti a tracciarsi una via, pure raggiunsero felicemente l’orlo superiore del burrone.

Vindhit si preparava a cacciarsi in mezzo alle alte piante della boscaglia, quando fu veduto retrocedere vivamente, come se si fosse trovato dinanzi a qualche grave pericolo.

— Cosa c’è? — chiese il malese, che gli veniva dietro.

Un sibilo acuto, che gli fece gelare il sangue nelle vene, fu la risposta.

— Un serpente? — esclamò.

— E dei più pericolosi, — rispose l’isolano, con voce soffocata.

— L’hai veduto?

— No, però deve esserci vicino. —

Hong aveva pure udito il sibilo del rettile e, non ostante il suo coraggio, era diventato pallido.

— Non far uso del fucile, Pram-Li, — disse precipitosamente. — Uno sparo sarebbe la nostra perdita!...

— Ci assalirà, Hong.

— Mano ai coltelli.

Il sibilo si fece udire nuovamente e questa volta più vicino. Il malese fece un passo indietro, esclamando con voce terrorizzata:

— Un ular-burong!... In guardia, Hong!... È velenosissimo!...

— L’hai scorto?...

— Sì.

— Dove si trova?

— In mezzo a questo cespuglio che ci sbarra la via.

— Ridiscendiamo il burrone? — chiese Vindhit. — Possiamo trovare un altro passaggio.

— Troppo tardi!... — esclamò Pram-Li. — Eccolo!... —

Il rettile si era slanciato fuori dal cespuglio, rizzandosi minacciosamente dinanzi ai tre uomini.

Il malese non s’era ingannato. Si trattava di un vero ular-burong, grosso rettile che raggiunge una lunghezza di quasi due metri e che ha la pelle azzurro-cupa rigata di giallo dorato.

Vedendosi dinanzi il giovane selvaggio, gli si slanciò contro, [p. 228 modifica] cercando di piantargli in una gamba i suoi denti velenosi; ma Hong lo aveva prevenuto.

Con una spinta poderosa allontanò l’isolano a cui la paura aveva paralizzato le gambe, poi stese rapidamente il braccio armato di coltello.

Il rettile vi si era gettato sopra per mordere. La lama, abbassata bruscamente dal chinese, lo colpì di traverso, recidendolo in due.

— Muori, — disse Hong con disgusto, calpestando il corpo che si contorceva disperatamente. — Preferirei affrontare una tigre piuttosto d’aver a fare con questi ributtanti rettili. —

Scavalcò i due pezzi che non avevano ancora cessato di dibattersi e si cacciò sotto le piante. Vindhit, rimessosi dal terrore, lo aveva raggiunto subito assieme al malese.

— Quale via prendiamo? — chiese Pram-Li.

— Saliamo, — rispose il giovane selvaggio, indicando la vetta della collina, la quale formava come due gobbe molto pronunciate.

Il bosco diventava sempre più folto di passo in passo che i tre uomini si approssimavano alla cima. Ai grandi alberi si succedevano cespugli foltissimi, che non permettevano quasi alcun passaggio.

Vindhit ed i suoi due compagni furono costretti a gettarsi carponi ed avanzare strisciando come i rettili, non osando scostare le cime di quelle piante.

Il campo dei cacciatori di teste doveva essere vicinissimo. Ad intervalli si udivano delle voci umane.

— Deviamo un po’, — disse l’isolano. — Vi può essere qualche sentinella in questi dintorni.

— Fermi, — disse in quel momento Hong. — Vi è qualcuno che si avanza!...