Il Fiore delle Perle/28. Il passaggio del Bacat
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Capitolo XVIII
Il passaggio del Bacat
Onde non farsi ferire da qualche freccia avvelenata, Hong fece spegnere innanzi tutto la fiaccola, poi, dopo aver pregato Than-Kiù di non allontanarsi dal buco e di nascondersi dietro ad un grosso gruppo di stalagmiti che univano il suolo alla vôlta della caverna, cogli altri si spinse audacemente verso la galleria, risoluto a contrastare ostinatamente il passo agli invasori.
Un po’ di fumo entrava radendo la vôlta del passaggio, ma aveva ormai molto perduto della sua acrità e poi bastava abbassarsi contro il suolo per evitarlo completamente.
I quattro uomini, soffocando a grande stento qualche colpo di tosse, onde non tradire la loro presenza, giunsero ben presto all’ingresso della galleria, non ostante le tenebre che li avvolgevano.
— Tutti a terra, — disse Hong, sottovoce. — È il miglior mezzo per evitare le frecce.
Ciò detto accostò un orecchio al suolo, ascoltando con grande attenzione.
— Odo un lieve rumore, come di corpi che strisciano, — disse a Pram-Li.
Non aveva ancora terminato che all’opposta estremità della galleria si udirono dei colpi di tosse malamente soffocati.
— Il fumo li tradisce, — mormorò Hong. — Pare che morda anche le loro gole.
— Sono ancora lontani, — disse Pram-Li.
— Si vede che non osano avanzarsi rapidamente, — rispose Hong. — Ci temono; buon segno.
— Andiamo innanzi noi? — chiese il malese.
— È inutile, — rispose Hong. — Troveremmo del fumo e la nostra presenza verrebbe subito tradita. E poi questo è un buon posto per difendere la caverna, tanto più che presso di noi vi sono delle rocce che possono servirci da riparo.
— Zitto, — disse Tiguma. — Mi sembra che gli uomini del bagani siano più vicini a noi di quello che sospettiamo.
— Hai veduto qualche cosa? — chiese Pram-Li.
— Tacete, degli uomini parlano nella galleria. Aspettatemi qui. —
Il giovane selvaggio postosi fra i denti il coltello datogli da Hong si mise a strisciare entro la galleria.
Aveva percorso una quindicina di passi quando udì, a breve distanza, un bisbiglio sommesso. S’arrestò appoggiandosi contro la parete ed ascoltò.
— Li odi? — chiedeva una voce.
— No, — rispondeva un’altra.
— Che siano fuggiti?
— È impossibile. Questa galleria non deve avere alcuno sfogo.
— Pure non siamo ancora giunti in fondo. L’hai mai esplorata tu?
— Io no.
— Dove finirà?...
— È quello che mi chiedo.
— Ci seguono sempre gli altri?...
— Mi pare di udirli strisciare.
— Questo silenzio mi inquieta.
— E anche me.
— Che il fumo abbia soffocati i chinesi?...
— È quello che pensavo anch’io.
— O che siano andati a morire in qualche antro che noi non abbiamo veduto?...
— Allora andiamo a prendere qualche tizzone.
— E se i chinesi sono ancora vivi? Tu sai che hanno delle armi da fuoco.
— E che sanno adoperarle molto bene.
— Cosa si fa?
— Andiamo innanzi. Abbiamo giurato di vendicare il bagani e non ce ne andremo se non avremo le teste dei chinesi.
— Avanti. —
Tiguma aveva ascoltato quel dialogo senza perdere una sola sillaba. Sapendone abbastanza, stava per ritirarsi, quando si sentì urtare.
Istintivamente afferrò il coltello e menò un colpo deciso.
Un urlo ruppe il profondo silenzio che regnava nella galleria, un urlo di dolore che terminò in un rantolo strozzato.
Tiguma si era subito alzato, ma nel medesimo istante si sentì afferrare da quattro braccia vigorose, sollevare e trasportare velocemente attraverso la galleria.
Mandò un grido.
— Aiuto!... Mi rapiscono!... —
Hong ed i suoi compagni avevano subito riconosciuta la voce di Tiguma.
Immaginandosi quanto era avvenuto nella galleria, s’erano slanciati risolutamente innanzi, tenendo i fucili puntati.
Essi andarono a urtare contro degli uomini che si erano pure slanciati attraverso la galleria.
— Fuoco!... — tuonò Hong.
Tre lampi ruppero le tenebre seguìti da tre spari.
Al rapido bagliore della polvere, i due chinesi ed il malese videro fuggire dinanzi a loro degli uomini.
— Avanti! — tuonò Hong, il quale aveva impugnato il fucile per la canna.
Gli uomini del bagani, atterriti da quella improvvisa scarica e sorpresi dall’irruzione furiosa dei loro avversari, i quali picchiavano tremendamente coi calci dei fucili, rompendo teste e ammaccando dorsi, si erano dati ad una fuga precipitosa, senza pensare ad opporre resistenza.
Il panico ormai si era comunicato a tutti e non pensavano che a mettersi in salvo.
Giunti all’estremità della galleria, essi si precipitarono confusamente nel fiume, salvandosi in mezzo alle scogliere.
Hong, il malese e Sheu-Kin avevano ripreso animo. Vedendo i nemici fuggire, fecero alcune scariche, abbattendo ancora alcuni uomini.
— Approfittiamo della loro sconfitta per fuggire, — disse Hong. — Sheu-Kin, va’ a chiamare Than-Kiù.
— È inutile, — rispose la giovane chinese, comparendo col fucile in mano.
— Vieni, Fiore delle perle, — disse il chinese, afferrandola fra le poderose braccia. — Cerchiamo di giungere sull’opposta riva del fiume.
— E Tiguma?...
— Rapito.
— E lo abbandoniamo?
— Pel momento sì, ma poi... no, non lasceremo quel valoroso fra le mani di quei banditi. Aggrappati al mio collo, e voi due proteggete la ritirata. A te, amica mia, tieni le munizioni onde non si bagnino. Fra poco ne avremo bisogno. —
Ciò detto, si gettò risolutamente in acqua, nuotando vigorosamente. Than-Kiù, tenendosi al suo collo con una sola mano, coll’altra teneva in alto i due fucili e le fiaschette della polvere.
Mentre il chinese fendeva la corrente, Sheu-Kin ed il malese avevano raggiunto un banco di rocce, e di là avevano aperto il fuoco contro la riva.
Gli uomini del bagani, rimessisi un po’ dallo spavento, si erano radunati, immaginandosi che i loro avversari approfittassero di quel momento per andarsene.
Vedendo Hong in mezzo al fiume, cominciarono a scagliare frecce ed a sparare qualche colpo di fucile. Alcuni, più audaci, balzarono in acqua, risoluti a dare la caccia al nuotatore, ma Pram-Li e Sheu-Kin vegliavano attentamente.
— A me il primo ed a te il secondo!... — gridò il malese, saltando su una roccia.
Due colpi di fucile risuonarono e due uomini, i primi che si erano immersi, sparvero sott’acqua, lasciando alla superficie un cerchio sanguinoso.
Urla feroci scoppiarono fra i banditi a quel doppio colpo riuscito così bene, però nessuno si sentì il coraggio di affrontare i due esperti bersaglieri, anzi i più vicini credettero bene di ripararsi dietro agli alberi che crescevano lungo la riva.
Il malese si volse e vide che Hong aveva di già raggiunto felicemente un banco di sabbia e che aveva ormai deposta a terra la giovane chinese.
— In acqua, — gridò a Sheu-Kin. — Tieni il fucile e le munizioni nella mano sinistra e bada di non bagnare nè l’uno, nè le altre.
— Sono buon nuotatore, — rispose il chinese.
Gli uomini del bagani, vedendoli immergersi, uscirono dal bosco per dare loro la caccia o almeno per tentare di ucciderli a colpi di freccia.
Hong si era preparato a proteggere la ritirata dei suoi compagni. Nascostosi dietro ad un tronco d’albero, sparò due colpi contro la banda urlante, abbattendo il più vicino.
Than-Kiù si era affrettata ad imitarlo, facendo cadere un selvaggio che pareva fosse qualche personaggio importante, a giudicarlo dal turbantino che portava in testa.
Era troppo pel coraggio di quei furfanti.
Reputando ormai impossibile un inseguimento, ora che i loro avversari erano riusciti ad attraversare il Bacat, dopo d’aver urlato e minacciato e d’aver quasi esaurita la loro riserva di dardi, si sbandarono scomparendo sotto i grandi alberi che costeggiavano il fiume.
— Grazie, Hong, — disse Than-Kiù, stendendo la mano al valoroso chinese. — A te devo ancora la vita.
— Insieme alla tua c’erano anche le nostre da salvare, — rispose Hong, sorridendo.
— Ve n’è però ancora un’altra da strappare alla morte, Hong.
— Sì, quella del giovane Tiguma, — disse il chinese, — e questa sarà ben più difficile, Than-Kiù.
— Noi non possiamo abbandonare quel valoroso fra quei feroci banditi.
— E non lo abbandoneremo, Than-Kiù, dovessimo sfidare la morte, tanto più che quel giovane ci è necessario per condurre a termine la nostra impresa.
— E come faremo, Hong?... Chi di noi sa dove hanno il loro villaggio quei cacciatori di teste?...
— E poi forse a quest’ora l’avranno ucciso, — disse Pram-Li.
— Tiguma?... — chiese Hong.
— Sì, — rispose il malese.
— Se non l’hanno decapitato quando lo fecero prigioniero, suppongo che non l’avranno ucciso dopo. Tu hai udito raccontare che i cacciatori di teste talvolta risparmiano gli uomini che cadono nelle loro mani.
— Comunque sia, noi avremo molto da fare a liberarlo, Hong, — disse Than-Kiù.
— Forse meno di quello che tu credi, Fiore delle perle!... — esclamò il chinese, alzandosi precipitosamente.
— Cos’hai, Hong!...
— Vi è un uomo che sta attraversando il fiume.
— Ancora quei banditi? — gridò Pram-Li, armando il fucile.
— Questa volta si tratta invece d’un amico, — rispose Hong.
— Tiguma che ritorna?...
— No; è il nostro provveditore, e sono quasi certo di non ingannarmi. Venite!... —
Lasciarono gli alberi che li proteggevano e si diressero verso la riva. Proprio in quel momento un giovane selvaggio, quasi nudo, non avendo che un piccolo sottanino di pelle di pantera, giungeva sul banco di sabbia.
In una mano teneva un piccolo arco e alcune frecce ed alla cintura portava un coltellaccio dalla lama larghissima e molto lucente.
— Sì, è Vindhit, — disse Hong. — Ecco una fortuna che non speravo. —
Il giovane selvaggio erasi fermato all’estremità del banco, come se fosse dubbioso fra l’avanzarsi ed il retrocedere.
Hong e Pram-Li mossero incontro a lui, facendo dei gesti amichevoli.
— Non temere, — disse Hong. — Noi siamo gli amici di Tiguma.
Parve che il giovane selvaggio non lo avesse compreso. Certamente ignorava la lingua chinese.
— Non mi hai capito?... — chiese Hong.
Vindhit era rimasto immobile, guardando curiosamente i due uomini, poi alzò una mano e posò un dito sul petto del malese, pronunciando alcune parole.
— Sì, — rispose Pram-Li, sorridendo. — Io sono un malese. —
Il selvaggio sorrise, poi disse nella lingua che solo Pram-Li poteva comprendere:
— Voi siete gli amici di Tiguma.
— Ci voleva poco a saperlo, amico.
— Tiguma si trova nelle mani dei cacciatori di teste.
— Lo sappiamo.
— Lo abbandonerete al suo triste destino?...
— No, — disse Pram-Li. — Noi cercheremo di liberarlo. —
Un lampo di gioia balenò negli occhi nerissimi ed espressivi del selvaggio.
— Io vi aiuterò a salvare il mio compagno d’infanzia, — disse.
— Corre pericolo di venire ucciso, forse?...
— Sì, fra tre giorni Tiguma non sarà più vivo. Appena gli uomini del bagani saranno ritornati al loro villaggio, l’amico mio verrà immolato per placare l’anima irritata del capo.
— È molto lontano il villaggio?
— A due giornate di marcia, verso il lago di Linguasan, — rispose Vindhit.
— Credi tu che noi riusciremo a raggiungere i cacciatori di teste prima che possano giungervi? —
Il selvaggio fece un gesto negativo.
— Sono già lontani, — disse poi.
Pram-Li si volse verso i suoi compagni e li informò dell’esito di quel colloquio.
— La cosa è grave, — disse Hong. — Spingerci fino al villaggio dei cacciatori di teste mi sembra un’impresa eccessivamente ardua. Cosa dice il Fiore delle perle?
— Può darsi che sia pericolosissima; penso però, Hong, che noi commetteremmo una cattiva azione abbandonando quel bravo giovane.
— Dovremo affrontare mille gravi difficoltà, Fiore delle perle. Non siamo che in quattro e forse i cacciatori d’uomini sono parecchie centinaia.
— L’astuzia può talvolta vincere il numero e la forza.
— Non dico il contrario, — disse Hong, il quale esitava a gettarsi a capofitto in quell’impresa che trovava sommamente pericolosa.
Vindhit, che seguiva attentamente quello scambio di parole, forzandosi ad afferrarne il senso, fece un cenno colla destra, poi volgendosi verso Pram-Li, disse:
— I tuoi compagni dubitano della riuscita dell’impresa, è vero?
— Sì, — rispose il malese. — Noi siamo troppo pochi per assalire il villaggio dei cacciatori d’uomini.
— Forse non è necessario aspettare che giungano alla loro tribù.
— Cosa vuoi dire?
— Che potremo raggiungerli prima.
— Se sono già partiti!...
— Il fiume cammina più rapido di loro.
— Non ti comprendo.
— I boschi sono difficili ad attraversare, mentre il Bacat è facilmente navigabile. Io so dove lo guaderanno.
— E vorresti andarli ad attendere colà?
— Sì.
— Ed in qual modo giungeremo al guado prima di loro?... Pensa che abbiamo con noi una donna.
— Costruendo una zattera.
— L’idea non mi sembra cattiva, tanto più che il Bacat non pare di difficile navigazione. —
Comunicò la proposta fatta dal giovane selvaggio a Hong ed a Than-Kiù, e lì per lì fu subito deciso di costruire il galleggiante.
In tal modo essi avrebbero potuto risparmiare molto cammino quantunque fossero certi di allontanarsi dalla stazione che Tiguma conosceva.
— Bah!... — disse Hong. — Penseremo più tardi a raggiungerla. Tiguma ci condurrà. —
Non avendo scuri, decisero di costruire un leggero galleggiante coi bambù che crescevano in gran numero lungo le rive del fiume.
Ve n’era di quelli lunghi perfino quindici metri e di quelli anche grossi quanto la coscia d’un uomo, quantunque questi fossero ben più corti.
Preceduti da Pram-Li e dal giovane selvaggio, i tre chinesi si cacciarono in mezzo ad una gigantesca macchia di quelle piante, onde scegliere le più alte e le più grosse, che meglio si adattassero alla costruzione della zattera.
Si misero ben presto al lavoro, abbattendo coi coltelli, non senza fatica però, parecchi di quei vegetali.
Trasportati quindi quei bambù sulla riva del fiume, si posero tutti alacremente all’opera per costruire, più presto che era possibile, il galleggiante.
Il malese, che era stato marinaio e che se ne intendeva, diresse così bene la costruzione che due ore dopo la zattera si trovava pronta a prendere il largo.
Era un galleggiante lungo una diecina di metri e largo cinque o sei, a strati di canne sovrapposte le une alle altre, in modo da impedire all’acqua di bagnare quella specie di piattaforma.
Il malese aveva fatto innalzare al centro una specie di capannuccia, o meglio di tettoia, per riparare dal sole la giovane chinese.
— Partiamo, — disse Hong, aiutando il Fiore delle perle a salire sul galleggiante. — Ogni ora che perdiamo è una probabilità di meno che ci rimane.
— Lo salveremo, Hong? — disse la giovane.
— Speriamo, Than-Kiù. —
Salirono tutti, e munitisi di lunghi bastoni che dovevano servire da remi, spinsero la zattera al largo.
La corrente che in quel luogo era abbastanza forte, descrivendo il fiume una rapida curva, trascinò il galleggiante verso la riva opposta, facendolo girare per qualche po’ su sè stesso, poi lo spinse nel filo d’acqua con una velocità di sette od otto chilometri all’ora.
Hong, visto che ormai non vi era più bisogno del suo braccio, si ritrasse sotto la piccola tettoia dove già si era rifugiata Than-Kiù, mentre il malese, a poppa, guidava il galleggiante con un lungo remo.
Sheu-Kin e Vindhit, sdraiati a prora, sorvegliavano le due rive ed avvertivano il malese della presenza dei banchi di sabbia.
Il fiume pareva che scorresse attraverso una regione assolutamente deserta, poichè non si vedeva sorgere alcuna abitazione.
Esso però lambiva delle splendide foreste, antiche quanto la creazione del mondo, e ricche d’ogni sorta di piante preziosissime.
Di quando in quando in mezzo a quel caos di tronchi, di cespugli, di radici di calamus e di rotang intrecciantisi in mille modi, apparivano gruppi di lauri dalla scorza aromatica, macchie di noci moscate, di tamarindi, di mangifere, di cocchi, di sagu, di arecche e di alberi del pepe, coperti da miriadi di grappoletti rossi, ricchezze assolutamente perdute poichè, a quanto pareva, nessun abitante aveva rizzato la sua capanna sulle rive del fiume.
Numerosi volatili s’alzavano fra i canneti e le piante acquatiche che costeggiavano il corso d’acqua e volteggiavano fra i rami degli alberi.
Vi erano delle ardee dalle gambe lunghe e sottilissime, il becco pure molto lungo e le penne grigiastre sul dorso e bianco-sporche sotto il ventre; dei chionis, specie di colombe, un po’ più grosse delle nostre, colle penne biancastre; delle bellissime kakatoe candidissime, alcune col ciuffo rosso ed altre, più grandi, d’un rosso scarlatto.
Non mancavano gli uccelli rapaci, rappresentati da bruttissimi falchi, probabilmente dei podargus, colla testa grossa, il becco corto e largo quanto la bocca d’un fanciullo, ed il corpo irto di penne grigiastre di pessimo effetto.
Mancavano invece assolutamente i quadrumani e gli animali, con molto rincrescimento di Hong, il quale avrebbe voluto procurarsi una buona colazione, tanto più che nella loro precipitosa fuga avevano abbandonato nella galleria, non solo le frutta, ma anche l’argo e le due colombe.
A mezzodì, dopo d’aver percorso oltre trenta chilometri, la zattera giungeva ad una piccola cascata, la quale intercettava assolutamente il passaggio.
Con una barca non sarebbe stato difficile scendere; con un simile galleggiante non vi era da pensarci, essendo i passaggi aperti fra le rocce troppo stretti.
— Bisognerà smontare la zattera, — disse Hong, assai contrariato da quell’ostacolo imprevisto.
— Non è necessario, — disse Vindhit a cui Pram-Li aveva tradotto quelle parole.
— E perchè? — domandò il malese.
— Siamo già a buon punto.
— Cosa vuoi dire?
— Che è inutile continuare la navigazione. Marciando rapidamente attraverso ai boschi, noi potremo tagliare la via ai cacciatori di teste. Con questa corsa sul fiume abbiamo evitato le montagne, le quali costringono a fare un lungo giro per giungere al villaggio.
— Sei certo di quanto asserisci?
— Conosco il paese, — disse il giovane selvaggio.
— Allora sbarchiamo.
Spinsero la zattera verso la riva destra, ed il drappello prese terra sul margine d’un immenso bosco di tek.
— Prima di metterci in marcia, cerchiamo di procurarci la colazione, — disse Hong. — Siamo a digiuno da ieri.
— Sì, vengo, Hong, — disse Pram-Li.
— Condurremo con noi anche Vindhit. Ci sarà di grande aiuto. —
Mentre Than-Kiù si sdraiava all’ombra di un grand’albero per riposare qualche ora, e Sheu-Kin si metteva in sentinella presso la riva del fiume, i tre cacciatori si ponevano in marcia risoluti a non tornarsene senza aver ucciso qualche capo di selvaggina.
Quella foresta era una delle più splendide che Hong avesse veduto fino allora.
Era formata esclusivamente di tek, alberi di bellissimo aspetto e di proporzioni gigantesche, raggiungendo sovente un’altezza di cinquanta e perfino di sessanta metri con un diametro di un metro e mezzo.
Queste piante sono forse le più preziose fra quelle che producono legnami da costruzione, essendo infinitamente superiori alla querce in fatto di resistenza.
Le loro fibre compatte, non sono attaccabili dagli insetti, e quello che più importa non subiscono alcuna alterazione anche tenendole immerse nell’acqua marina, anzi acquistano una maggiore durezza.
Adoperate bene stagionate, sfidano per secoli interi le intemperie, senza subire alcuna alterazione apprezzabile.
Oggidì si fa un consumo enorme di questo legno, specialmente nei cantieri marittimi, essendo adoperato nelle costruzioni delle carene.
Per dare un’idea della resistenza di questo legname, basti il dire che ancora pochi anni or sono si poteva ammirare, nel porto di Marsiglia, una nave costruita in tek un secolo prima.
Malgrado tanti anni, quel vascello, sebbene non fosse più un buon veliero, poteva ancora tenere discretamente il mare, tanta era la robustezza della sua carena dopo una così lunga immersione.
Il grande uso che si fa in Europa di questo legno, ha innalzato prodigiosamente il suo prezzo ed oggi non si può avere un metro cubo di tek a meno di trecento lire.
— Quante ricchezze perdute, — disse Hong, il quale ammirava quei giganti della vegetazione. — Qui vi sono dei milioni che forse mai nessuno verrà a raccogliere.
— E vi sono anche delle fiere che non aspettano che il momento opportuno per divorare gli ammiratori di queste piante, — disse il malese, il quale si era bruscamente arrestato, armando precipitosamente il fucile.
— Cos’hai veduto Pram-Li?... — chiese Hong, imitandolo.
— Di quale specie d’animale si tratti, non lo saprei veramente dire; trovandoci però in un paese abitato da belve feroci, si ha il dovere di tenersi in guardia.
— Dove l’hai veduto quell’animale?
— Si è cacciato in mezzo a quel macchione di bambù.
— Era grosso?
— Mi parve voluminoso.
— Che si tratti di qualche cinghiale?... Mi hanno detto che ve ne sono in quest’isola.
— Andiamo ad assicurarcene.
— Adagio, malese mio, — disse Hong, arrestandolo. — Vi sono delle pantere e anche delle tigri in questo paese. —
Mentre si scambiavano quelle parole, il compatriota di Tiguma si era curvato al suolo ed esaminava attentamente le erbe.
— Cosa cerchi? — chiese Pram-Li, vedendolo osservare le erbe che crescevano sotto i giganteschi vegetali.
— Babirussa, — rispose Vindhit.
— Ah... È passato per di qua uno di quegli animali?
— Sì, padrone.
— Un capo di selvaggina che merita un colpo di fucile.
— Andiamo a scovarlo, — disse Hong, dopo che il malese gli ebbe tradotte le parole del giovane selvaggio.
A cinquanta passi da loro, si trovava un macchione di bambù spinosi, dal fusto grosso e alto una diecina di metri e che pareva si estendesse lungo i margini d’una palude o d’un serbatoio d’acqua formato forse dal Bacat.
Era di dimensioni vastissime e anche di non facile accesso in causa della fortezza dei vegetali e delle spine; nondimeno i tre cacciatori convinti che il babirussa si fosse rifugiato là dentro, decisero di cacciarsi in mezzo a quel caos di canne.
— Non facciamo rumore o l’animale prenderà il largo, — disse Hong.
Il chinese ed il malese, preceduti da Vindhit, il quale aveva incoccata una freccia nel suo arco, si diressero da quella parte e giunti presso i vegetali si arrestarono qualche istante per ascoltare.
Nessun rumore sospetto si udiva in mezzo alle canne, però non vi era da dubitare sulla presenza dell’animale, avendo scorto fra quei vegetali una larga traccia, una specie di solco che scompariva entro la grande macchia.
Parecchie canne erano state piegate dal passaggio del babirussa e qualcuna era stata perfino spezzata.
Tutti e tre si cacciarono entro quella specie di sentiero, muovendo adagio adagio i vegetali che tendevano di già a riprendere la loro posizione verticale e guardando attentamente dinanzi a loro.
— Hum!... — fece ad un tratto Hong, scuotendo il capo. — Mi pare che questo squarcio aperto nella macchia sia stato fatto da un animale ben diverso dal babirussa. Si direbbe che qui qualcuno è stato trascinato al suolo da un formidabile predone.
— Infatti questo solco non sembra aperto dal passaggio di un semplice babirussa, — disse il malese, il quale pareva inquieto.
— Toh! Guarda, Pram-Li: vi sono delle macchie di sangue su questi bambù.
— È vero, — disse il malese. — Che il babirussa sia stato ferito e che si sia trascinato qui? —
Interrogò Vindhit, il quale stava appunto osservando quelle macchie di sangue.
— Animale ferito, — rispose il selvaggio.
— E da chi ferito? — chiese Pram-Li.
— Forse da una pantera.
— Non ci mancherebbe altro che facessimo l’incontro d’una di quelle pericolose fiere. —
In quel momento sulla loro destra si fece udire un lieve sussurrìo. Pareva che qualcuno cercasse di allontanarsi cautamente, per guadagnare il centro della macchia.
— Hai udito? — chiese Hong al malese.
— Sì e vedo anche agitarsi le cime dei bambù.
— Che sia il babirussa?
— Di certo.
— Inseguiamolo, Pram-Li.
Si diressero da quella parte, scivolando attraverso le canne che in quel luogo erano un po’ meno fitte.
Il sussurrìo aumentava. L’animale, fiutata la presenza dei cacciatori, s’allontanava rapidamente, spostando le grandi canne con molto rumore. Pareva che avesse abbandonata ogni prudenza.
Hong ed i suoi due compagni cercavano di affrettarsi ma si trovavano imbarazzati ad aprirsi il passo fra quei vegetali che erano armati di spine le quali opponevano una resistenza incredibile.
Ad ogni istante Hong ed il malese erano costretti ad arrestarsi per liberare le loro vesti.
Tutto ad un tratto il rumore che si faceva udire dinanzi a loro, cessò.
— L’animale si è fermato — disse il malese.
— Sì, — confermò Hong. — Non vedo più agitarsi le canne.
— E vedo ancora delle macchie di sangue qui.
— Che il babirussa sia spirato? Avanziamoci con prudenza e... Pram-Li, non senti questo odore?
Il malese fiutò l’aria e fece un gesto di paura.
— È puzzo di selvatico, — disse, gettando all’intorno uno sguardo inquieto.
— Si direbbe che per di qua è passata qualche pantera.
— Qualche tigre, Hong. Io ho sentito molte volte questo odore nelle jungle della penisola malese.
— Interroga Vindhit.
— Grossa bestia feroce, — rispose il giovane selvaggio.
— Avanti con prudenza, — disse Hong. — Ormai è troppo tardi per retrocedere.
— Amerei meglio trovarmi ancora sulle rive del Bacat, — disse Pram-Li. — Le tigri mi hanno sempre fatto paura.
— Forse non si tratta d’uno di quegli animali.
— Ed il babirussa?
— Io spero di trovarlo ancora, Pram-Li. —
Si rimisero a strisciare, lentamente, con estrema prudenza, tenendo il dito sul grilletto dei fucili. Ogni dieci passi s’arrestavano per un momento onde osservare le cime delle canne, poi vedendole immobili proseguivano.
Erano però tutti e tre in preda ad una viva agitazione nervosa, ad un’ansietà che aumentava di minuto in minuto. La presenza di quel formidabile felino aveva scosso anche il coraggioso chinese.
Percorsi altri cinquanta passi, si trovarono improvvisamente dinanzi ad una massa sanguinosa che era adagiata in mezzo ad un piccolo spiazzo.
Era un animale grosso quanto un cervo e per la forma rassomigliante ad un maiale, avendo il muso sporgente, delle zanne lunghissime che gli salivano verso gli occhi, il collo grosso e la coda contorta; però le sue gambe erano molto più alte e più nervose, vere gambe da corsa.
— Il babirussa! — esclamò Hong.
— Ed in qual modo conciato, — disse il malese. — Ha un fianco squarciato da una terribile zampata.
— La tigre che lo ha ucciso, vedendosi inseguita, ha rinunciato alla preda.
— E noi ce la prenderemo.
— Sì, Pram-Li e poi ci affretteremo a lasciare questa macchia. Raggiunto il nostro scopo non ci rimane da far altro qui. Stacca le due cosce posteriori, poi prendiamo il largo. —
Mentre il chinese vegliava, il malese e Vindhit con pochi colpi di coltello staccarono le gambe deretane del babirussa.
— Alla tigre ne rimarrà ancora tanta della carne, da fare una indigestione, — disse il malese. — Noi siamo persone oneste che non amano defraudare i cacciatori.
— Hai finito? — chiese Hong.
— Sì, — rispose il malese.
— Preparati a ricevere il padrone della selvaggina.
— Quale padrone? — chiese Pram-Li, impallidendo.
— La tigre.
— Saccaroa!... Viene?...
— Odi?... —
A venti passi si erano vedute agitarsi le cime dei bambù, poi un grido pauroso erasi alzato, rompendo il silenzio che regnava nella macchia.
A-o-ung!... Era ben l’urlo del terribile mangiatore d’uomini; il malese lo aveva udito troppe volte echeggiare nelle jungle della Malacca per potersi ingannare.
— È una minaccia o che si prepari a darci addosso? — chiese il malese, il quale era impotente a frenare il tremito che lo aveva preso.
— Credo che abbia l’intenzione di punire i ladri, — disse Hong, con una calma meravigliosa. — Forse giungerà troppo tardi. Orsù, in ritirata con la fronte volta al nemico.