Il Fiore delle Perle/30. La liberazione di Tiguma
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Capitolo XXX
La liberazione di Tiguma
A quel comando tutti e tre si erano cacciati sotto un cespuglio, rimanendo immobili.
A poca distanza si udivano muoversi i rami, come se qualcuno cercasse di aprirsi il passo fra quei fitti vegetali.
Poteva essere un animale che sfuggiva l’accampamento, e poteva anche essere qualche sentinella dei cacciatori di teste in esplorazione.
Hong ed i suoi compagni, in preda ad un’ansietà che si può ben immaginare, ascoltavano trattenendo perfino il respiro. La paura di venire scoperti, quando già si credevano ormai in porto, li inchiodava al suolo.
I rami continuavano ad agitarsi e non solamente in un punto solo, bensì in due. Le persone o gli animali che scendevano la collina pareva che venissero precisamente dalla parte dell’accampamento.
Passarono alcuni minuti d’angosciosa aspettativa, poi, fra l’incerta luce proiettata dai fuochi che ardevano ancora sulla cima d’una delle due gobbe, apparve un’ombra umana.
Doveva essere un cacciatore di teste, non essendo probabile che in mezzo a quei boschi selvaggi potessero trovarsi degli abitanti.
Quell’uomo rimase qualche istante immobile, scrutando attentamente i cespugli, poi volgendosi indietro, disse in una lingua che solamente Vindhit poteva comprendere:
— È da questa parte che hai udito del rumore?...
— Sì, — rispose una voce che usciva da un cespuglio vicino.
— Non vedo e non odo nulla.
— Eppure non devo essermi ingannato.
— Sarà stato qualche animale.
— Io giurerei d’aver veduto anche delle ombre umane arrampicarsi sui fianchi del burrone.
— E tu sospetti che possano essere gli uomini gialli che ci sconfissero sul Bacat?...
— Abbiamo con noi l’uomo che serviva loro di guida.
— Bah!... Chi si cura di un selvaggio?... Tu devi aver sognato. Ritorniamo all’accampamento. —
I due cacciatori di teste rientrarono fra le macchie.
Hong ed i suoi compagni udirono muoversi i rami e scrosciare le foglie, poi il silenzio ritornò.
— Sospettano la nostra presenza, — disse Pram-Li, quando Vindhit ebbe tradotto il dialogo che aveva udito.
— Ciò vuol dire che quei furfanti veglieranno, — disse Hong, con stizza. — Che si siano allontanati, o che invece si siano nascosti più sopra?
— Restiamo qui per qualche tempo, — rispose il malese. — Non è prudente lasciare pel momento il nostro nascondiglio.
— Lo credo anch’io, Pram-Li. Cosa dice Vindhit?
— Divide il mio consiglio.
— Aspettiamo, — concluse Hong.
Si accomodarono alla meglio fra i rami del cespuglio e stettero in ascolto, sorvegliando attentamente le piante vicine.
Nessun altro rumore pervenne ai loro orecchi durante un’ora, che sembrò loro lunghissima. Anche dalla parte dell’accampamento il chiacchierìo era cessato e la luce dei fuochi si era affievolita.
Certi ormai di non essere più spiati, Hong ed i suoi compagni lasciarono il nascondiglio e ripresero la salita della collina, giungendo felicemente su una delle due gobbe.
L’accampamento dei cacciatori di teste si trovava sotto quel poggio, in uno spazio privo di cespugli.
Si componeva d’una trentina di piccole tettoie costruite frettolosamente con rami e foglie di banani e di arecche, per difendere gli accampati dall’umidità della notte, molto pericolosa in quei climi, sviluppando sovente la febbre dei boschi. Otto falò, ormai semispenti, ardevano intorno a quel gruppo di capanne, mandando di quando in quando dei bagliori sanguigni o giallastri.
Nessuna sentinella si vedeva agli angoli del campo, però alcuni uomini dormivano presso i fuochi, avendo le loro armi a portata di mano.
— Dove sarà Tiguma? — si chiese angosciosamente Hong.
— Non lo vedi?... — chiese il malese.
— No, Pram-Li.
— Là sotto quell’albero, legato al tronco. —
Ad una delle estremità dell’accampamento sorgeva isolato un arecche, le cui grandi foglie, disposte a ombrello, proiettavano una cupa ombra.
Attaccato all’esile tronco, si vedeva una forma confusa, che poteva essere un uomo.
— Non può essere che quello, — disse il malese. — Cosa dici, Vindhit?
— È Tiguma, — disse l’isolano, la cui vista sfidava quella del malese e del chinese.
— Non mi era ingannato, — disse Pram-Li, volgendosi verso Hong. — Anche Vindhit lo ha riconosciuto.
— Si tratta ora di poterlo avvicinare e di rapirlo, — disse Hong.
— Un progetto quanto mai ardito, — disse Pram-Li, scuotendo il capo.
— Ne hai uno migliore tu?...
— No, Hong, ma lo trovo troppo pericoloso. È impossibile attraversare questi fuochi senza che gli uomini che dormono fuori delle capanne non se n’accorgano.
— Prova ad interrogare Vindhit. Questi selvaggi talvolta hanno delle idee migliori delle nostre. —
Il malese espose al giovane isolano il progetto del chinese.
Vindhit lo ascoltò in silenzio, riflettè alcuni istanti, poi disse:
— Credo che sia il solo effettuabile.
— E potremo noi avvicinare il prigioniero senza attirare l’attenzione delle sentinelle?...
— Gli uomini del bagani dormono.
— Forse con un solo occhio.
— Allora noi li spaventeremo.
— In qual modo?
— Guarda: tutti questi cespugli sono secchi.
— E vuoi concludere?...
— Che noi li accenderemo. Il vento soffia dalla parte di Tiguma.
— Non ti comprendo ancora.
— Le fiamme invaderanno subito l’accampamento e metteranno fuoco alle capanne. I tagliatori di teste, spaventati, non si occuperanno di certo del prigioniero. Favoriti dal fumo ci sarà facile di rapirlo.
— Una simile idea non mi sarebbe mai venuta in testa, — disse il malese, guardando il giovane isolano con ammirazione. — Questi selvaggi valgono più di noi in fatto di furberia. —
Hong, informato della risposta data da Vindhit, non trovò nulla da ridire su quel progetto.
— Non perdiamo tempo, — si limitò a dire.
Abbandonarono il poggio, scesero lentamente attraverso i cespugli, muovendo i rami con infinite precauzioni, e fecero il giro dell’accampamento, portandosi dalla parte ove si trovava il prigioniero.
Colà ardevano due falò, già mezzo consunti, uno a destra ed uno a sinistra di Tiguma, e sdraiati al suolo, con le armi a portata della mano, si trovavano otto selvaggi.
Tanto il prigioniero quanto i suoi guardiani dormivano; non era però molto facile che questi ultimi si fossero abbandonati ad un sonno profondo.
Infatti mentre Hong ed i suoi compagni cercavano il mezzo di potersi avvicinare al prigioniero, fu veduto uno di quei selvaggi accostarsi ad una delle due cataste per riattizzare i rami che stavano per spegnersi.
Prima di tornare a coricarsi, si diresse verso l’arecche e dopo essersi assicurato che Tiguma russava tranquillamente, riprese il sonno, interrotto forse da qualche sospetto.
— Non fidiamoci, Hong, — disse Pram-Li, curvandosi sul chinese che si era sdraiato dietro ad un cespuglio. — Questi selvaggi hanno l’udito acuto e si accorgerebbero subito del nostro appressarsi.
— Lo temo anch’io, — rispose Hong. — Forse quell’uomo ha udito qualche rumore sospetto.
— Diamo fuoco ai cespugli?
— Sì, Pram-Li. Hai della canapa in tasca?...
— Non occorre, Hong. Questi cespugli sono tutti resinosi e bruceranno come zolfanelli.
— Diamo fuoco in tre parti, onde le fiamme invadano tutto l’accampamento. Ha il mezzo di accendere il fuoco il nostro compagno?
— Lo manderemo presso uno dei falò e si servirà d’un tizzone.
— Siamo d’accordo: ognuno a suo posto. —
I tre uomini si separarono, strisciando in diverse direzioni.
Non erano trascorsi due minuti, che dalla parte di Hong si vide sprigionare una fiamma. Quasi contemporaneamente altre due s’alzarono a breve distanza.
Nessun selvaggio s’era accorto dell’incendio.
I cespugli intanto avvampavano con rapidità incredibile. Essendo resinosi, bruciavano meglio degli zolfanelli, lanciando in aria fasci di scintille e nuvole di fumo che il vento spingeva verso l’accampamento.
Il crepitìo crescente delle piante, contorcentisi sotto i morsi del fuoco, fu finalmente udito dalle sentinelle che sonnecchiavano presso i due falò.
Un urlo di terrore scoppiò come un colpo di tuono, facendo balzare fuori dalle capanne gli altri guerrieri.
La barriera di fuoco aveva allora prese tali dimensioni da non poter più venire domata. Nembi di scintille e tizzoni ardenti cadevano ormai fra le tettoie mentre il fumo si rovesciava a ondate sull’accampamento.
I cacciatori di teste, spaventati da quell’improvvisa irruzione del terribile elemento, si erano slanciati a una fuga disordinata, senza darsi pensiero del prigioniero, ormai completamente scomparso fra le scintille.
Era il momento atteso da Hong.
Senza badare al pericolo, balza attraverso i cespugli fiammeggianti, si caccia fra i vortici di fumo e raggiunge l’albero.
Tiguma urlava disperatamente, facendo sforzi sovrumani per liberarsi dai legami che lo tenevano stretto al tronco.
Le scintille gli piovevano addosso da tutte le parti, arrosolandogli le spalle.
Hong recide rapidamente le corde col coltello, afferra il giovane fra le braccia e vedendo un luogo ove i cespugli si erano ormai consumati, si getta in mezzo ad alcune rocce, gridando:
— A me, Pram-Li!... —
In quel momento urla di furore echeggiano nell’accampamento.
Gli ultimi cacciatori di teste si sono accorti del rapimento del prigioniero e ritornano, vociferando spaventosamente.
Le fiamme che s’alzano fra le tettoie non bastano ad arrestare il loro slancio.
Corrono come demoni, balzando fra il fumo e la pioggia di scintille, insensibili alle scottature e si rovesciano verso la valanga di fuoco. Alcune frecce partono e cadono in mezzo al gruppo dei fuggiaschi.
Vindhit, che si trovava ultimo, cade mandando un urlo acuto.
— Chi è ferito? — gridò Pram-Li, arrestandosi.
— Sono morto, — rispose il povero Vindhit.
Era ormai caduto sulle ginocchia. Due frecce, senza dubbio avvelenate, lo avevano colpito nel dorso ed i cannelli si vedevano ancora sporgere d’un buon palmo.
— Mio povero amico!... — gridò Tiguma, scivolando prestamente dalle braccia di Hong e precipitandosi verso il disgraziato Vindhit, già boccheggiante.
— Salvatevi, — rispose l’isolano. — Io ormai sono perduto. —
Hong, furioso, si era voltato verso i tagliatori di teste, puntando il fucile.
— Fuoco!... — gridò.
Il malese lo aveva imitato.
Due spari risuonano e due selvaggi cadono.
Quel doppio colpo e soprattutto la barriera di fuoco, diventata ormai gigante, aveva arrestato lo slancio dei cacciatori di teste.
— Pram-Li, prendi fra le braccia Vindhit e scendiamo la montagna prima che le fiamme ci taglino la via, — gridò Hong.
— È inutile, — rispose il malese. — È morto!... —
Era vero. Il disgraziato isolano era allora spirato sotto la mortale influenza del veleno.
— Fuggiamo!... — gridò Hong.
L’incendio guadagnava rapidamente, estendendosi in alto e in basso. Pareva che la collina navigasse in mezzo ad un oceano di fiamme.
Le scintille, spinte dal vento, cadevano dappertutto provocando altri incendi.
I cespugli sparivano con rapidità prodigiosa sotto i morsi delle fiamme, come se si fondessero.
Protetti dai nuvoloni di fumo e dai turbini di cenere e di scintille, Hong ed il malese, seguìti da Tiguma, scendevano la collina a sbalzi, ansiosi di giungere là dove avevano lasciato Than-Kiù e Sheu-Kin.
Il chinese era inquieto, non avendo potuto vedere la direzione presa dai cacciatori di teste, nella loro fuga precipitosa.
Temeva, e forse non senza ragione, che il caso li avesse condotti verso il rifugio.
— Presto, presto, — diceva. — Forse Than-Kiù è in pericolo. —
Aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli e scendendo rapidamente fra i burroni, giunsero sotto i grandi alberi che coprivano i fianchi inferiori della collina.
Colà sostarono un momento per prendere fiato e per vedere se qualcuno li aveva seguìti.
L’intera collina fiammeggiava come un vulcano in piena eruzione. Immense lingue di fuoco s’alzavano dovunque, sormontate da nuvoloni di fumo che il venticello notturno abbatteva o contorceva.
Dall’alto cadevano miriadi di scintille le quali, spinte dall’aria, volteggiavano fra le tenebre sfilando al di sopra dei boschi.
I grandi alberi cominciavano già pure ad incendiarsi. I rami crepitavano, le gigantesche foglie dei banani, delle arenghe saccarifere, degli arecche e dei sagù si contorcevano.
Di quando in quando qualche gigantesco vegetale, minato alla base dal fuoco, rovinava con aumento di fracasso, trascinando nella caduta ammassi di rotang, di calamus e di nepentes. Fra i crepitìi dell’incendio e gli schianti delle piante, si udivano in lontananza delle grida umane che talora pareva provenissero dall’alto della collina ed ora dal basso.
— Quale direzione avranno preso quei furfanti? — si chiese Hong, con ansietà.
— Pare che si siano divisi, — disse il malese. — Alcuni devono essere fuggiti al piano ed altri sembra che si siano rifugiati sulla collina vicina.
— Non lasciatevi sorprendere da quegli uomini, — disse Tiguma a Pram-Li. — Sono molto vendicativi e se vi trovano vi uccideranno senza pietà.
— Ci guarderemo bene dal farci prendere, — rispose il malese. — Affrettiamoci a trovare Than-Kiù e Sheu-Kin. —
Il caso li aveva condotti in vicinanza del sentiero. Non udendo grida nè in alto nè in basso, ne approfittarono per attraversare più velocemente i boschi che coprivano i fianchi della collina.
Giunti presso il piano, piegarono a destra, cacciandosi in mezzo alle folte macchie. Il rifugio doveva trovarsi in quella direzione. Ed infatti non avevano ancora percorso cinquecento passi, quando udirono Sheu-Kin gridare:
— Chi vive?
— Siamo noi, — rispose Hong, slanciandosi innanzi.
Il giovane chinese ed il Fiore delle perle avevano attraversata la barriera di spine, servendosi d’una specie di ponte formato da grossi rami d’albero.
Appena che ebbe veduto il chinese, la giovane gli mosse sollecitamente incontro.
— Salvi tutti! — esclamò.
— Abbiamo liberato Tiguma.
— E Vindhit? Io non lo vedo con voi?
— È morto, Than-Kiù.
— Ah!... Povero giovane!...
— Le frecce avvelenate degli uomini del bagani lo hanno spento.
— E chi ha incendiato i boschi?
— Noi, Than-Kiù.
— Ed i cacciatori di teste? V’inseguono forse?
— Non sappiamo ove siano fuggiti. Non hai veduto alcuno tu?
— Nessuno, Hong. Quanta angoscia però dopo i vostri colpi di fucile! Credevo che quei selvaggi vi avessero scoperti.
— Ci hanno realmente veduti; sembra però che abbiano perdute le nostre tracce, — disse il chinese.
— Fuggiamo?
— No, Than-Kiù. Non sarebbe prudenza abbandonare per ora questo rifugio. Forse i cacciatori di teste si sono radunati presso la palude.
— E l’incendio che si propaga sempre?
— Non credo che si estenda fin qui. I grandi alberi della foresta non sono secchi come i cespugli. D’altronde la nostra fermata non sarà molto lunga. Domani, se non udremo più le grida dei nostri nemici, lasceremo questo ricovero e raggiungeremo le rive del Bacat.
— Sarà troppo presto, domani, — disse Tiguma, informato da Pram-Li. — I cacciatori di teste non se ne andranno subito.
— Che si fermino in questi dintorni? — chiese il malese.
— Sì. E ci cercheranno attivamente, — rispose il giovane selvaggio. — Quegli uomini hanno ancora da vendicare la morte del loro capo e quella di numerosi compagni.
— Non ne hanno abbastanza delle perdite subìte? — chiese Hong a Pram-Li, quando questi gli ebbe riferito tali parole.
— Non sembra.
— Bisognerà dunque distruggerli tutti per levarsi di dosso quelle sanguisughe?
— Sono vendicativi.
— E noi siamo pronti a esterminarli, — disse Hong con voce furiosa. — Cosa ci consiglia di fare Tiguma?
— Rimanere qui, per ora, — fece rispondere il giovane selvaggio. — Questo rifugio è ben nascosto e poi l’avevate già cintato. Questa barriera di spine che noi possiamo ancora ingrossare, è già un ostacolo terribile.
— Allora rimarremo qui finchè ogni pericolo sarà cessato, — disse Hong. — Non bisogna esporre Than-Kiù a nuove avventure che potrebbero costarle la vita.
— Tu t’inquieti troppo per me, — disse il Fiore delle perle. — Tu sai che sono vissuta fra il fumo delle battaglie.
— Ma se ti uccidessero? — disse Hong.
— Mi vendicheresti.
— E non mi consolerei più mai, Than-Kiù, d’averti perduta. Orsù cerchiamo di rendere questo rifugio inespugnabile. Forse tutto non è ancora finito fra noi ed i cacciatori di teste.
Prima di mettersi al lavoro, Hong e Pram-Li s’arrampicarono sull’albero che serviva d’appoggio alla capannuccia, per accertarsi della direzione dell’incendio. La vetta della collina fiammeggiava ancora violentemente, però l’incendio aveva trovato un ostacolo nella foresta. Dopo d’aver divorati i margini e di aver abbattuti numerosi alberi, s’era arrestato dinanzi ai banani selvatici, troppo ricchi di foglie verdi e di umori per prendere fuoco.
Ora le fiamme procedevano verso la collina vicina, divorando i cespugli resinosi che coprivano anche quella vetta.
— Non correremo il pericolo di venire abbruciati, — disse Hong. — Fra qualche ora le fiamme avranno terminato di distruggere i vegetali. Vorrei però sapere dove possono essersi rifugiati i cacciatori d’uomini. —
Ridiscesero e aiutati dal selvaggio e da Sheu-Kin, si misero alacremente all’opera per rinforzare il fortino, come diceva scherzando il Fiore delle perle.
Con nuovi rami e con grandi foglie di banani e di arecche, coprirono interamente la capannuccia, onde ripararla dalle frecce dei cacciatori di teste, poi andarono in cerca di piante spinose.
Ve n’erano in abbondanza nella foresta, quindi la raccolta fu presto fatta.
Ammassi enormi furono ammucchiati all’ingiro, formando una barriera larga parecchi metri e tanto alta da poter riparare un uomo in piedi. Numerosi rami, piantati dentro e fuori, dovevano impedire che quelle spine potessero venire strappate.
Quando quei lavori furono finiti, l’incendio erasi spento sulla prima collina. Sulla seconda i cespugli bruciavano ancora, e le fiamme, alimentate dal venticello notturno, procedevano in direzione di altre alture che trovavansi verso l’est.
Dappertutto però le foreste avevano opposto un argine insuperabile, sicchè quel fiume di fuoco si era limitato a distruggere i soli cespugli che coprivano le cime.
La pioggia di scintille aveva messo in allarme tutti gli abitanti delle boscaglie.
Ogni momento, anche in vicinanza della capanna, passavano fuggiaschi. Ora erano scimmie, ora babirusse, ora gatti selvatici. Qualche volta si vedevano passare delle pantere nere, ma erano così spaventate da non pensare ad assalire.
Hong ed i suoi compagni, dopo d’avere costretta Than-Kiù a prendere un po’ di riposo, si erano messi in sentinella dietro la barriera di spine.
Quantunque non si fossero più udite le grida dei feroci cacciatori di teste, tutti erano inquieti. Anzi era appunto quel silenzio che li preoccupava maggiormente, temendo sempre una improvvisa irruzione dei nemici.
La notte tuttavia passò senza che i cacciatori di teste si mostrassero.
— Forse se ne sono andati, — disse il malese, quando vide sorgere l’alba.
Tiguma crollò il capo.
— No, — disse. — Non fatevi soverchie illusioni. Io conosco troppo bene quegli uomini.
— A quest’ora sarebbero venuti qui, se avessero avuta l’intenzione di cercarci.
— Forse non avranno osato muoversi di notte. Ardono dal desiderio di vendicarsi, ma anche ci temono molto.
— Tu sei convinto che avremo da fare ancora con loro?
— Ho questo brutto presentimento.
— È lontana la stazione del Bacat?
— Almeno dieci ore di marcia.
— Se si potesse, con una rapida corsa, raggiungere il fiume e varcarlo!...
— Non abbandoniamo questo rifugio. Qui siamo in caso di poter resistere a lungo e di poter infliggere una tremenda lezione a quei miserabili. Nella foresta non potremmo resistere ad un assalto, essendo ancor numerosi i nostri avversari.
— Quanti sono?
— Sessanta o settanta.
— Sono troppi per noi, — mormorò Pram-Li. — Saliamo sull’albero, Tiguma. Di lassù possiamo dominare benissimo anche le rive della palude. —
Il sole erasi alzato allora dietro la collina ed i suoi raggi caldissimi si proiettavano sulla foresta e sulla pianura sottostante, rifrangendosi poi sulle acque della laguna.
Non essendovi al piano che poche piante, era facile scoprire un accampamento, tuttavia, nè Pram-Li nè Tiguma, riuscirono a scoprire quello dei cacciatori di teste.
— Se ne sono andati, — disse il malese, respirando.
— Non ancora, — rispose Tiguma, gli sguardi del quale si erano fissati sulle rive della laguna. — Vedo là due uomini che stanno attingendo acqua. —
Pram-Li guardò nella direzione che gl’indicava il giovane selvaggio e vide due indigeni curvi sulla riva della laguna.
— Sono cacciatori di teste, è vero Tiguma? — chiese.
— Sì, — rispose il selvaggio. — Li riconosco dal kampilang che portano alla cintura.
— E dove saranno i loro compagni?
— Forse si sono accampati alla base della collina.
— Se andassimo a esplorare i boschi che si estendono sotto di noi? Penso che rassicurati sulla loro posizione, noi potremmo forse sfuggire le loro ricerche guadagnando la cima dei colli.
— Si potrebbe tentare la sorte, — disse Tiguma.
— Vuoi accompagnarmi?
— Sì.
— Hai preso l’arco di Vindhit?
— Ed anche le sue frecce avvelenate. —
Il malese si preparava a scendere, quando il giovane selvaggio lo trattenne vivamente, dicendogli con voce soffocata:
— Troppo tardi.
— Perchè dici questo?
— I banditi s’avvicinano.
— Come lo sai tu? Io non vedo nulla.
— Dei pappagalli e delle kakatoe si sono alzati da quella macchia di arecche.
— E vuol dire?
— Che qualcuno deve aver spaventato quei volatili.
— Può essere stata una scimmia.
— Non credo. Nè i pappagalli nè le kakatoe hanno paura dei quadrumani.
— Vedi muovere qualche ramo?
— No, ma son certo che degli uomini strisciano sotto gli alberi. —
Pram-Li si curvò e fece cadere un ramoscello sulla testa di Hong. Questi alzò il viso.
— In guardia, — disse Pram-Li. — Sveglia Than-Kiù.
— Si avvicina qualcuno?
— Lo temo.
— Scendete?
— Al momento opportuno saremo dietro la trincea. —
Tiguma intanto non staccava gli sguardi dalla macchia di arecche, la quale si estendeva fino quasi presso il rifugio.
Più innanzi dal luogo ove si erano levati i pappagalli e le kakatoe, aveva veduto volar via un tucano, poi una colomba coronata, quindi una volpe volante aveva attraversata la macchia andandosi a posare fra i rami di un mango.
Se quello strano animale, che è di abitudini notturne, si era deciso ad abbandonare il suo nascondiglio, ciò significava che qualcuno lo aveva disturbato.
— Scendiamo, — disse Tiguma. — Io ne so abbastanza.
— Si dirigono verso di noi gli uomini che tu sospetti nascosti nella macchia?
— Sì, perchè tutti i volatili sono fuggiti nella stessa direzione, e si sono alzati nella medesima linea.
— Allora prepariamoci alla difesa. —
Lasciarono l’albero e raggiunsero Hong e Sheu-Kin i quali avevano allora svegliata Than-Kiù.
— È vero che s’avvicinano? — chiese la giovane chinese.
— Sì, Fiore delle perle — rispose Pram-Li senza tradire le sue apprensioni.
— Sono molti?
— Lo ignoriamo ancora. Forse si tratta di qualche spione.
— Cosa decidete di fare?
— Aspettare per ora, — disse Hong.
Poi volgendosi verso il malese, disse:
— Ordina a Tiguma di preparare l’arco.
— È pronto — rispose il selvaggio a Pram-Li.
— Sei un buon arciere? — domandò questi.
— Le mie frecce non vanno mai perdute.
— Inginocchiati accanto ad Hong e sii pronto a lanciare il dardo. Le nostre armi da fuoco sono inutili pel momento e non ci possono che tradire. —
Tutti si erano sdraiati dietro alla barriera di spine ed ascoltavano attentamente, tenendo gli sguardi fissi verso il macchione.
Una viva ansietà era dipinta su tutti i volti. Anche Hong pareva in preda ad una profonda inquietudine.
Già in mezzo alla macchia si era udito spezzarsi un ramo, poi una scimmia budeng era stata veduta balzare rapidamente fra le fronde d’un mango e fuggire in mezzo a dei calamus che pendevano da un pisang.
— È un esploratore di certo, — disse Hong, curvandosi verso Than-Kiù. — Se fosse solo non ci sarebbe da spaventarsi.
— Non possiamo far uso delle nostre armi; quindi dopo d’averci scoperti andrà a chiamare i compagni, — rispose la giovane.
— Non gli lasceremo il tempo.
— Come ucciderlo?
— A questo penserà Tiguma; le frecce non fanno rumore e danno egualmente la morte. Odi?
— Sì, un altro ramo spezzato.
— Lo spione ci è vicino.
— Sì, odo agitarsi le foglie.
— Guardalo, Than-Kiù. —
I rami d’un cespuglio si erano aperti ed una testa era comparsa.
L’uomo rimase immobile alcuni istanti, guardando attentamente la barriera di spine e la capannuccia, poi, soddisfatto senza dubbio da quell’esame, si ritirò con precauzione, non così presto però da salvare la vita.
Pram-Li si era rapidamente curvato verso Tiguma, dicendogli:
— Uccidilo! —
Un sibilo leggero attraversò l’aria ed il dardo mortale andò a piantarsi proprio fra le spalle dello spione.
Il selvaggio, sentendosi ferito, aveva mandato un urlo feroce. Con una mano si strappò il cannello, coll’altra afferrò il kampilang, e si scagliò verso la barriera.
Ormai aveva indovinato che i nemici si erano nascosti colà.
L’effetto del veleno si fece sentire quasi subito. Il selvaggio non era ancor giunto dinanzi alle spine, quando fu visto arrestarsi di colpo, poi vacillare, quindi cadere all’indietro colle braccia aperte.
— È morto, — disse Tiguma.
Ad un tratto impallidì. In mezzo alla foresta erasi udito un grido bizzarro che non doveva essere stato mandato nè da alcun animale nè da alcun volatile.
— Siamo perduti! — mormorò involontariamente.