Il Corvo (Carlo Gozzi)/Atto primo
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ATTO PRIMO
Spiaggia con alberi, mare in burrasca da lontano, nembo, tuoni e saette.
SCENA PRIMA.
Pantalone, affaccendato sulla corsia d’una galera in procella, suonerà un zuffoletto, griderà colla ciurma, darà degli ordini con delle grida, che saranno confuse dallo strepito del nembo. La burrasca arderà cessando, la galera s’avvierà verso la spiaggia.
Pant. (bastonando i galeotti con una corda e gridando)
Ciurma. Terra, terra.
Pant. Terra, terra, sì sbasii; se non fusse mi su sta galera! (fischia) Allesti all’ancora, ammazzai.
Ciurma. Sier sì. (La galera s’avvicinerà alla spiaggia, si metterà la scala a terra).
Pant. A ringraziar el Cielo, cani. (fischierà tre volte; ad ogni fischiata la Ciurma risponderà con un urlo. Si farà vedere il Principe Jennaro vestito da mercante orientale, uscirà sulla spiaggia con Pantalone).
SCENA SECONDA.
Jennaro e Pantalone.
Jen. Pantalone, io mi credei perduto a così orribile burrasca.
Pant. Come! Sala da che paese sia mi?
Jen. Sì, dalla Giudeca di Venezia; me l’avrete detto mille volte.
Pant. Mo dassenazzo, che, dove ghe xe Zuechini, no pericola bastimenti. Ho imparà a mie spese. Do pieleghi e un trabaccolo ho rotto da Malamocco a Zara per imparar el mestier. Ancuo me tremava un poco le tavernelle, nol nego; no miga per mi, nè per el pericolo, che za nù, non fursi, semo usi a ste marendine; ma per ella. Oh Dio, l’ho vista a nascer; l’ho avuda su sti bracci, tanto longo. La bon’anima de mia muger Pandora l’ha lattà, l’ho arlevada facendola ballar su sti zenocchi; me par ancora de darghe de quei basetti, quando che ella me spenzeva el muso in là colle so manine, disendome: mo lasciatemi, che mi ruspitate con quella barba. In somma, che cade? me par che la sia mio fio, e temeva più per ella, che per mi. E pò gho el pan d’Armiragio dalla so famegia, ho abuo mille beneficenze, che xe trent’anni, sin sotto la felice memoria del Re so Pare, e po son un cuor della Zuecca, e tanto basta.
Jen. È vero; ho infinite caparre del vostro buon animo, e della vostra bravura nella navigazione, e in fatti l’aver oggi ridotta in porto, e in salvo questa galera da sì tremenda burrasca basta per immortalare un Ammiraglio. Quanto siamo lontani dal Regno nostro di Frattombrosa? Che farà questo tempo. Pantalone?
Pant. Questo se chiama porto Sportela. Dalla città de Frattombrosa semo lontani diese mia. El tempo va bonazzando; el vento se va zirando da ponente. Da qua do o tre ore, nu gavemo seren, e in tun’oretta e mezza al più semo a Frattombrosa a consolar el povero Re Millo, so fradello, al qual le recchie deve businar ogni momento, perchè ella non fa altro che nominarlo. El dièesser appassionà morto de no aver de ella nè niova, nè imbassada; che sia benedetto ai fradelli, che se vol ben. Possio dir ancora, che la xe fradello d’un Re?
Jen. Sì, ora lo potete dire (guardando verso la galera, da cui si vedranno uscire Armilla e Smeraldina, piangenti, assistite dai servi). Ma ecco la mia rapita Principessa, ch’esce dalla galera oppressa dalla mestizia. Partite, e fate dirizzare due padiglioni su questa spiaggia, onde si possa prendere un poco di riposo, e rinfrancarsi dalla passata burrasca. Spedite tosto un messo per terra al Re Millo, mio fratello, a dargli la notizia del nostro arrivo.
Pant. No perdo un’onza de tempo. Oh che gusto! Oh che allegrezza! Oh che nozze, che avemo da far a Frattombrosa! I me dirà che son matto a sentir allegrezza de nozze in età de settantacinqu’anni; ma co sento a dir nozze, me par anca de sentir quella solita ragazzada de rave in composta, de sorzi pelai, de gatti scortegai, e devento un putello. (Passando dinanzi alla Principessa che verrà piangendo). Eh cocola, cocola, co ti saverà, chi semo, no ghe sarà tante lagreme no. (Entra e fa poscia piantare un padiglione).
SCENA TERZA.
Jennaro, Armilla, Principessa vestita all’orientale, avvertendo, che dovrà aver le ciglia e le chiome, fatte ad arte nerissime. Smeraldina all’orientale. Le donne verranno condotte dai servii e piangendo. I servi si ritireranno.
Jen. Armilla, voi piangete, e il vostro pianto
M’è rimprovero acerbo. Eppure, Armilla,
Tanta cagion di pianto non avete,
Quanta credete aver.
Arm.Crudel pirato. (piange)
Smer. Iniquo, traditor. (piange)
Jen.È ver; crudele,
Iniquo, traditor. Ma, Principessa,
Io vi dirò...
Smer.Che le dirai, ladrone?
Jen. Io le dirò...
Smer.Boia, che le dirai?
Che ridur puossi una real donzella
In sul tuo legno con preghiere ed arte,
Per mostrarle merletti, e drappi, e gioie,
E nastri e gale non più viste al mondo,
Ond’ella possa comperar, e scegliere
Ciò, che le piace più, così incitando
La femminil vana fralezza, e poi
Mentre sta intenta l’innocente in mille
Merci diverse, le dirai, che puossi
Salpar il ferro, dar le vele a’ venti,
Ridursi in alto mare, e a questo modo
Dal sen paterno distaccar le figlie?
Rapir le Principesse? Ladro, infame,
Ben degno d’un capestro, e d’una forca,
D’una scure sul collo...
Jen.Olà, miei servi.
Levatemi di qua questa insolente,
Garrula femminella (vengono dei servi).
Arm.Oh Dio! Tiranno,
Solo con me vuoi rimaner? T’intendo.
Prima morrò...
Jen.No, Principessa illustre.
Sol di scolparmi intendo, e male io soffro
D’un’arrabbiata femmina parole
Ingiuriose troppo, e che interrotto
Il mio discorso sia, che non mi toglie
La colpa no, ma raddolcir la puote,
E in parte a voi calmar l’angoscia. Vada.
(ai servi, che la conducono via a forza).
Smer. Iniquo, scellerato. Ciel, puniscilo.
(a parte) Ah che del ratto i crudi vaticini
Che chiusi ho in sen, s’avveranno alfine.
(entra condotta dai servi).
SCENA QUARTA.
Armilla e Jennaro.
Arm. Barbaro, che dirai? Stammi discosto,
Corsale ardito, e, s’altra arma non temi,
Rispetta in me la figlia di Norando,
Principe di Damasco. Al suo potere
Pensando trema, e una vendetta attendi
La più feroce.
Jen.Avvenga pure. Intanto
Io dirò a voi, che vil corsal non sono,
Ma fratello di Re. Di Frattombrosa
È Millo Re; di Millo io son fratello;
Principe son. Jennaro è il nome mio.
Arm. Tu di Millo fratel? Di Re fratello
Di mercante in arnese, con inganno
Riduci in sul tuo legno le donzelle.
Principesse innocenti, e le rapisci!
Jen. Sì, Armilla. Quell’affetto, che mi strigne
A Millo, fratel mio; l’aver inteso
L’inaccessibil cor di vostro padre,
Barbaro per costume, il caso avverso,
L’imperscrutabil caso a forza volle,
Ch’io vi rapissi.
Arm.E qual imperscrutabile
Caso un fratel d’un Re sforza a lordarsi
D’azioni indegne?
Jen.Eccovi il caso, Armilla.
L’amato Millo, mio fratel, che adoro,
Primogenito e Re, sin da prim’anni
Nelle cacce allettossi. Altro non mai
Cercò diletto. Nella caccia sempre
Fu indefesso, ed intento a tal, che, fuori
Da’ destrier, da’ falconi, ed archi, e cani,
Poco uscia co’ discorsi. Or son tre anni,
(Terribile momento) che cacciando
Leprette e quaglie, in una selva giunse.
Sopra una quercia un nero Corvo mira,
Dà mano all’arco, l’arma di saetta,
Scocca e il trafigge. Sotto a quella pianta
Di bianchissimo marmo un bel sepolcro
Stava innalzato, e sopra quella candida
Lastra, ch’era coperchio al monumento,
Il nero Corvo cadde, e starnazzando
Sparse vermiglio sangue, e uscì di vita.
Tutto il bosco tremò; sentissi un tuono
Spaventevole, orrendo e d’una grotta,
Quindi vicina, uscir vedemmo un Orco,
A cui sacro era il Corvo. (Oh Dio, che vista!)
Era gigante; gli occhi avea di foco,
La fronte oscura, e fuor dall’ampia bocca
Di porco gli uscien denti, e schifa bava
Verde e sanguigna. O Millo, o Millo, disse,
Ti maledico; e con tremenda voce
Intuonò questi carmi. Ancor gli sento.
Se non ritrovi femmina, che sia,
Come quel marmo bianca,
Vermiglia come il sangue del mio Corvo,
Di ciglia e chiome ad eguaglianza nere
Del mio Corvo alle penne, io prego Pluto,
Di smania e d’inquietudine tu mora.
Così detto disparve, e il mio fratello,
(Mirabil caso!) in quell’augello fiso,
In quel sangue, in quel marmo, affascinato,
Inquieto, rabbioso, da quel loco
Più partir non volea. Di là con forza
Alla Reggia il ridussi. Da quel punto
Non argomenti, non riflessi, o prieghi,
O mille arti bastar. Sospiri e lagrime,
Mestizia insuperabile, il fratello,
Il caro fratel mio consuma e uccide;
E folle per la Reggia ogni momento
Va reiterando: Chi di voi mi reca
Donna di chiome e ciglia nere, come
Le penne del fatal Corvo, e vermiglia,
Come il suo sangue, e bianca al paragone
Della pietra, su cui l’augel morìo?
Arm. (a parte) Mirabil veramente è il caso, e nuovo!
Jen. Afflitto io mando ambasciatori e spie
Per tutte le città, di simil donna
In traccia, e indarno; che la candidezza
Di quella pietra, e del sangue il vermiglio
Di quel Corvo, ed il nero delle piume
Non si rinvenne in donna mai. Frattanto
Il mio caro fratel vedea perire.
Io disperato allora armo un naviglio,
Ed in persona immenso mar solcando
Dall’Indo al Mauro una tal donna cerco.
Vidi mille città, rare bellezze
Di donzelle infinite; e là nell’Adria
Vaghe beltà mirai candide, bionde,
Pallidette, gentili e maestose;
Ma la nerezza, ed il vermiglio, e il bianco
Della pietra, e del Corvo invan cercai
Per il corso d’un anno. Or son tre giorni,
Che in Damasco pervenni. Ad una spiaggia
Un picciol vecchiarel lacero e lordo
Indovinò l’angoscia mia. Di voi
Mi diè la traccia, e m’insegnò l’inganno,
Con cui potea rapirvi. Il genitore
Di lei (mi disse) fuggi. Alla finestra
Vi mirai, scorsi in voi le qualitadi
Sì desiate, ed in mentite spoglie
V’allettai colle merci, a tradimento
V’addussi sul naviglio, e traditore
Divenni poi rapendovi e fuggendo.
Arm. E perchè ne’ due giorni di viaggio
Ciò mi celaste?
Jen. Il mio rimorso, i pianti
Vostri, e l’abborrimento, che mostraste
Verso me, mi fer timido, e fur causa,
Ch’io non mi v’appressai, stimando meglio
Lasciarvi sola, ed aspettar il tempo
Con più quiete a palesarvi il vero
Della mia azion, che tuttavia m’affligge.
Ma se l’estremo amor d’un mio fratello,
Se la necessità, se il caso atroce
M’han ridotto a tal passo, e se nel petto,
Come negli occhi vostri, e nel sembiante
Dolcemente apparisce, avete il core,
Perdono Armilla, deh perdon!... (s’inginocchia).
Arm. Jennaro,
Sorgete. Dappoichè di Re consorte
Esser dovrò, del rigido mio padre,
Confesso a voi, che mal la schiavitude,
In cui barbaramente mi tenea,
Sofferiva. Perdono all’error vostro,
E lodo in voi, che d’un fratello amante,
Raro esempio a’ dì nostri, a sì gran segno
Siate, o Jennaro.
Jen.(alzandosi) O umana, o saggia, o illustre,
O generosa Principessa.
Arm. Ma,
Che vai, Jennaro, il mio perdon? Compiango
In voi, misero, in voi tra i più infelici
La miseria maggior.
Jen. Qual infortunio
La mia felicità scemar potrebbe?
Salvo un fralel, che più di me stesso amo:
Da voi dell’error mio perdono ottenni;
Chi può turbar?...
Arm. Norando, il padre mio,
Implacabile, fier, di regia stirpe,
Insuperabil negromante, a tale,
Che ferma il sol, rovescia i monti alpestri,
Cambia gli uomini in piante, e ciò che brama,
Tutto avvien, quando voglia, il ratto vostro
Non soffrirà. Del torto alta vendetta
Attendete, o Jennaro. Io vi compiango,
Sventurato garzone, e me compiango,
Che contro al rigoroso suo divieto
Di non uscir giammai dalle mie stanze,
Incauta, semplicetta e curiosa
Mi lasciai trar da voi. Millo compiango,
E quanti son del ratto mio cagione.
Forse quella burrasca oggi trascorsa
Opra fu di mio padre. Oh Dio! qual scempio
Attendo in breve, ed inaudito scempio!
Jen. Ciò, che il Ciel vuol, succeda. Il mio contento
Il mio giubilo è tal, che concepire
Di mestizia l’idea per or non posso.
Armilla, quello è un padiglion.
(mostra un padiglione di dentro) In quello
Le membra stanche dal naufragio andate
A ristorare; in questo io fo lo stesso.
(mostra l’altro padiglione sulla scena).
Dopo poche ore di riposo il tempo
Si calmerà. Breve viaggio a Millo,
Mio fratel, condurracci.
Arm. Io vado, io vado;
Ma lagrime, sospiri, e angosce estreme
In breve, e non riposo, e gioia avremo (entra).
SCENA QUINTA.
Pantalone e Jennaro
Pant. E viva! Le fortune corre drio, come le ceriese. Altezza, fio mio, ve vogio dar una niova; no digo, che la sia granda, ma savendo quanto sviscera che se per el vostro fradelletto, tanto delettante de cavalli, e de cazza, no la xe mo gnanca piccola lù.
Jen. Che c’è, il mio caro Pantalone?
Pant. Mo ghe xe, che intanto che ella parlava colla Prencipessa, me son retirà, come gera el mio dover, e spasizava per sta piazza. Xe comparso un cazzador a cavallo. Oh che cavallo! Son Zuecchin veramente, e doverla intendermene de battelli; ma ho visto anca dei cavalli a sto mondo. Oh che cavallo da retrazzer! Tigrà, ben quartà, petto largo, tanto de groppa, testa piccola, occhi grandi, una recchietta cusì, el galeggiava, el saltava, el ballava in tuna maniera, che, se el fusse sta una cavalla, dirla che la fusse la più brava ballarina del nostro secolo, che avesse fatto una trasmigrazion pitagorica, co’ dixe i matti.
Jen. Questa è una rarità, e bisogna acquistarla per mio fratello.
Pant. Adasio, sentì de più e stupì. Sto cazzador aveva un falcon in pugno bellissimo; e l’andava galeggiando su sto superbo cavallo. Bisogna che sta spiaza sia abondante de salvadego. Xe saltà su sie pernise, tre o quattro cotorni, non so quante galinazze, e dei francolini. El cazzador ha molà el falcon. Quel, che ho visto, par impossibile. Sto falcon, de volo vedè, de volo, co una zatta l’ha chiappà una pernise; coll’altra zatta un cotorno; col becco una galinazza; e colla coa... vu no mei crederè, Altezza, mo colla coa, varenta el ben, che ve vogio, colla coa l’ha copà un francolin.
Jen. (ridendo) S’usa alla Giudecca di narrare di queste fole, Pantalone?
Pant. El Cielo me castiga, se ghe conto panchiane. Co una pernise in tuna zatta, co un cotorno in tel’altra, co una galinazza in tel becco, quel maledetto ha coppa, sbasio un francolin colla coa.
Jen. Ma conviene acquistare questo cavallo, e questo falcone certamente. Unite queste due rarità alla Principessa, io fo mio fratello l’uomo più felice che viva.
Pant. No occor altro, son in possesso, adesso le xe mie.
Jen. Quanto vi costarono?
Pant. Quel che volesto; gnente; tre bezzi; sie milioni de zecchini. No ho mai da esser paron mi, dopo tante beneficenze, che ho recevesto, de mostrar una picciola gratitudine? Le xe vostre; vogio che le ricevè; no vogio che me le paghè; come ve comandava da piccolo, vogio poder comandarve anca da grando qualche volta. Via, andè un poco a repossar, che el tempo se va facendo bon per sto resto de viazo. Oe, digo, la Principessa, xe za in bonazza ah?
Jen. Sì, è calmata. Ma certamente di questo vostro acquisto dovete essere risarcito. Basta, ci penserò io.
Pant. Mo via, sier pissotto, andè a dormir, no me mortifichè. (a parte) Ho speso dusento zecchini, e se avesse anca speso un occhio, averia gusto, prima perchè sto putto xe le mie viscere, e pò per far veder, che anca alla Zuecca ghe xe dei Ceseri, dei Pompei, e dei Gofredi (entra).
Jen. (da se) Veramente buon vecchio, ottimo core,
Carattere invidiabile. Io dovrei
Esser felice; eppure quanto disse
A me quel prodigioso vecchiarello,
Che Armilla m’additò, della possanza
Di Norando, suo padre, e quanto anch’ella
Mi disse poi, nel core mi conturba.
Cerchiam qualche riposo; io n’ho bisogno.
(va, e si corca sotto un padiglione in vista, il qual padiglione sarà da una parte sotto un albero).
SCENA SESTA.
Due Colombe, che, fatto un giro volando, si porranno sull’albero sopra al padiglione; e Jennaro corcato.
Col. 1. Infelice Jennaro, Principe sfortunato!
Col. 2. Perchè, cara compagna? chi lo fa sventurato?
Jen. (da sè scuotendosi) Come! Dove son io? qual mai portento
È questo? Due colombe che favellano?
Che favellan di me? S’ascolti e taccia.
Col. 1. Quel falcon, che ha in potere, appena a suo fratello
Consegnerà, il falcone caverà gli occhi a quello;
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nulla mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. (spaventato da se) Ahi barbara sentenza! e fia ciò vero?
Col. 1. Infelice Jennaro, Principe sfortunato!
Col. 2. E per maggior disgrazia ei sarà sventurato?
Col. 1. Del caval, che ha in potere, appena fratello
Salirà sopr’al dorso, sarà morto da quello.
Se non glielo consegna, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nulla mancherà,
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. (da sè più spaventato) Sogno, o son desto? O inumano decreto!
Col. 1. Oh infelice Jennaro! Principe sfortunato!
Col. 2. E a più gravi sciagure, misero, è condannato?
Col. 1. Armilla, che ha in potere, se sposa suo fratello,
La notte un mostro orrendo trangugierassi quello.
Se non gli reca Armilla, o gli palesa il fatto,
O con nessun fa cenno con parola, o con atto;
Il decreto è infallibile; se in nulla mancherà.
Una statua di marmo Jennaro diverrà.
Jen. (agitato) Verso la mia persona saran Corvi
Sin le Colombe? Oh un arcobugio avessi,
Malnati augelli! Dentro al mio naviglio
Ritroverò... (si leva furioso, le colombe fuggono)
Ma se ne vanno...
SCENA SETTIMA.
Norando e Jennaro. Al fuggire delle colombe apparirà dal mare sopra un mostro marino Morando, vecchio venerabile e fiero in vista, con vesti ricche all’Orientale; smonterà sulla spiaggia, si farà incontro con maestà a Jennaro.
Nor. Ferma,
Scellerato, imprudente, ardito, iniquo
Rapitor di donzelle. Io son Norando.
Quelle colombe fur messaggi miei,
Veridici, infallibili. Va pure.
Quel falcon, quel destrier, per opra mia
Qui giunti in tuo poter; la bella Armilla,
Armilla, dolce mia figliuola, reca
A Millo, tuo fratel. Del torto indegno,
Che a me facesti, pagherai la pena,
E pagheralla il fratel tuo. Norando,
Principe di Damasco, non è vile
Da sofferir gli oltraggi. Se la fiera
Burrasca non bastò per farti chiaro
Del mio poter, s’avvereranno i detti
Delle colombe...
Jen. (supplichevole) Ma, Norando, ascolta...
Nor. No, non t’ascolto più. Dalla mia forza,
Che credi tu, che Armilla, ora tua preda,
Non si potesse tor? Vendetta io voglio,
Bramo vendetta sol, strage, rovina
Contro la stirpe tua, contro ad Armilla,
Disubbidiente a me. Norando offeso
Vendicato sarà. Conduci Armilla,
Quel destrier, quel falcone; a tuo fratello
Tutto consegna, o pietra rimarrai.
Se con un cenno solo farai noto
Ad altri, fuor di te, quel gran periglio,
Che sovrasta al fratello, un freddo sasso
Rimarrai tosto. Ti rimani, iniquo,
Nell’abisso crudel de’ tuoi spaventi,
De’ tuoi castighi. A rapir donne impara (sale di nuovo sul mostro marino, e velocemente sparisce).
Jen. (spaventato ed attonito) Misero me! che fo? Conduci Armilla,
Quel destrier, quel falcone; a tuo fratello
Tutto consegna, o pietra rimarrai!
Se con un cenno solo farai noto
Ad altri, fuor di te, quel gran periglio,
Che sovrasta al fratello, un freddo sasso
Rimarrai tosto! E s’io tutto consegno,
Gli occhi trarrà il falcone al fratel mio,
O morto fia dal rio destriere, o morto
Da un mostro fier, se sposo con Armilla
Si corcherà! Falcon, destriere, Armilla,
Orridi oggetti di spavento! O caro,
Amato mio fratel, qual gioia è questa,
Ch’io reco a te, dopo sì lunghe pene
E si lunghe fatiche, e pianti amari! (piange).
SCENA OTTAVA.
Pantalone e Jennaro, indi due servi, l’uno de’ quali avrà in pugno un grande e vago falcone, l’altro condurrà a mano un leggiadro cavallo, uniforme al ritratto fatto da Pantalone nella scena quinta, bardato e fornito riccamente.
Pant. Coss’è! no la dorme?
Jen. (scuotendosi) No, Pantalone.
Pant. La varda mo ste do zogiette. Oè putti, vegnì via con quel falcon e quel cavallo, fegheli goder (usciranno i servi col falcone e col cavallo passando dinanzi a Jennaro; il cavallo galleggerà con destrezza). O belli! o bravo, se no fusse vecchio, vorria farghe veder mi a far quattro capriole su quel cavallo.
Jen. Ah caro amico... (piange).
Pant. (sorpreso) Cossa vedio! la pianze? Jen. Quegli oggetti... (a parte spaventato) Ah troppo
Dissi, ed in freddo sasso già mi sembra
Ogni momento di cambiarmi...
Pant. Sì, questi xe i oggetti portentosi, che go dito. No xeli una bellezza? e, za che vedo el tempo fatto bon, vago a imbarcarli. Son sta insin adesso a far compagnia alla Principessa; gnanca ella no pol dormir, la xe smaniosa, afflitta. Cari putti, chi fifa de qua, chi fifa de là; me tolè el cuor. Me par che sia tempo de allegrezza, e no de malinconie. (Jennaro proromperà in pianto) Tolè: el pianze! Mo cossa gaveu?
Jen. (a parte smanioso) Oh Dio!
Parlar non posso. (a Pant.) Un sogno, amico, un sogno...
Un terribile sogno... Una fantasma...
Dov’è la Principessa?
Pant. Ah, no ghe altro, che sogni? E via, vergogneve. Sogni, fantasme... Vescighe, vescighe: allegri. La Principessa vien adesso, e mi vado a allestir tutto per sto resto de viazo. (a’ servi) Andemo. Va pian ti con quel puliero, che nol se fazza mal. (alla ciurma) Su porchi, su marmitoni, a salpar, a issar le vele, ai remi (fischia, entra nella galera coi servi e coi due animali).
Jen. (da sè agitato) Oh me infelice!
Che far degg’io? (pensa) Si lasci quel falcone,
E quel destriere in questa spiaggia. Armilla
Si riconduca al padre. (riflette) Ah no, ch’io deggio
Tutto al fratello consegnar, o in marmo
Cangiar deggio le membra. Ma il fratello
Dovrà morir? Del caro sangue mio
Carnefice sarò? Crudel sentenza!
Che far degg’io? (spav.) Ma troppo il truce arcano
Co’ miei gesti paleso. Ah Ciel, soccorri
Col tuo consiglio il mio barbaro caso (piange).
(scuotendosi) Sì, il Ciel m’assisterà. Raggio di luce
Par che la mente mia rischiari. Fa
SCENA NONA.
Armilla, Smeraldina, Jennaro, Pantalone dalla galera.
Jen. (coraggioso) Armilla, tutto è pronto.
Andiamo Principessa (la prende per la mano).
Arm. Io son con voi.
Smer. Principe, perdonate alle parole
Ingiuriose troppo. Io vi credea,
Non fratello di Re, ma reo corsale.
Jen. Sì, ti perdono, (a parte) Ciel, m’assisti. Andiamo.
Pant. (dalla galera) Via, a saludar i Prencipi, squartai. (fischia tre volte; la ciurma ad ogni fischio risponde con un urlo universale. Imbarcati i Principi, si danno le vele a’ venti, i remi all’acque, e colla galera tutti entrano).