Il Canzoniere (Bandello)/Alcuni Fragmenti delle Rime/CLXXI - Per non vedermi mille volte l'ora
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CLXXI.
Sazio di negozi, fugge la corte, la città e ripara in riva al Lambro, pago dell’amor dell’amico Attellano e della Mencia.
Per non vedermi mille volte l’ora
Morendo non morir, i’ son fuggito
Dal fiero albergo d’onde è già partito
4Chi abborre il vizio e la virtute onora:
E ’n ripa al Lambro come vien l’aurora,
M’assido, e meco il cor a star invito,
Ch’altrove alberga, e ’l fresco, e erboso sito
8Coi piedi calco di sospetto fora.
Che qui non freme Marte, n’Orione
Vibra la spada, n’a me di me cale,
11E men di quanto il mondo dona altrui.
Questo sol bramo, che mai sempre tale
Attellan mio tu resti, e chi dispone
14Del preso cor, da che legato fui.
Note
V. 2. Morendo non morir, nello stato quindi, ch’è peggior della morte, d’un moribondo che non muore mai.
V. 3. Fiero albergo, sentina d’ogni vizio, la corte dei principi.
V. 5. Lambro, fiume della Lombardia.
V. 6. A star, a restare poichè alberga là dov’è la Mencia.
V. 8. Di sospetto fora, fuor di sospetto.
V. 9. Orione, il terribile cacciatore notturno, emulo di Artemide (cfr. Virgilio, Eneid., III, 517) raffigurato in alcune stelle che hanno sembianza di spada. Così Petrarca, Canzoniere, XLI, vv. 10-11.
V. 13. Chi, la Mencia. Attellano è Lucio Scipione (non già Annibale nè Carlo suoi fratelli, del quale parla in novelle I-3; 37; II-31; III-29; 42) di cui fa frequente menzione nel Novelliere. Lo denomina «[mio] compagno e padrone» (I-35), che visita nelle sue case ove si banchetta spesso con «desinari e cene luculliane», in brigate di gentiluomini e di gentildonne (I-44), dove si discute e si narran novelle (I-46, 47, 57; II-1, 3; III-25, 39; IV-8) passeggiando nel suo amenissimo giardino (I-2), presenti cospicui personaggi, tra gli altri «messer Galasso Ariosto, fratello de l’ingenioso e divino poeta messer Ludovico» (IV-17). Con lui talvolta s’accompagna per render omaggio ad illustri, ad esempio alla poetessa Cecilia Gallarana (per la quale vedi son. CLXVII) a San Giovanni in Croce (I-22), a Rinuccio Farnese, che li invita a pranzo (I-41) essendo l’Attellano «ambasciatore del duca Francesco Sforza»; a Ginevra Bentivoglia (I-50); con lui insomma ha familiare intrinsichezza (I-49, III-48) e si intrattiene volentieri a ragionare, a filosofare (II-8); con lui ha corrispondenza epistolare (III-42); con lui, il Bandello col finto nome di Delio che usa pur nelle Rime, e l’Attellano col proprio, appare perfino tra i personaggi di una novella (I-26); e lui vanta «splendidissimo e saggio» (III-35), e a lui dedica una novella (I-3) e lui, infine, dichiara essere «quell’uno a cui la vita [debbo]» (I-28). A Lucio Scipione vedremo indirizzato altro sonetto, il V delle Rime estravaganti.