Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella VIII

Quarta parte
Novella VIII

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Romilda, duchessa del Friuli, si innamora di Cancano


re de’ bavari che il marito ucciso le avea.


Si accorda seco di darli la cittá, se la piglia per moglie.


Il fine di lei, degno de la sua sfrenata lussuria.


Voi vi meravigliate, signori miei, di quello che ha fatto messer Gian Francesco in isposando per moglie Catarina da San Celso, con ciò sia che la meraviglia si soglia causare da cose insolite, e questa non è punto insolita. Ché chi volesse, non dico per Italia, ma discorrere solamente per questa nostra cittá, se ne troverebbero assai, e grandi e nobilissimi, a li quali troppo irregolato amore ha di maniera abbagliati gli occhi, che di mezzo il chiasso hanno preso le moglieri. Ma ora non vuo’ io discoprire gli altari, ché solamente il giovedí santo discoprire si sogliono. Mi occorre bene dirvi uno motto de la madre di esso messer Gian Francesco, la quale fu ne li tempi suoi generalmente tenuta la piú bella e onesta donna di Milano. Dimandatene a la signora Giacoma Macedonia, madre di questi nostri signori Attellani, se, quando ella da Napoli venne con la duchessa Isabella di Ragona a Milano, fu veduta la piú bella e aggraziata donna in luoco veruno di quella. Onde per tutto Milano si soleva andar da tutti cantando questo motto: – Tre belle cose sono in Milano: il domo e il castello e la mogliere del frate Ghiringhello. – Si dimandava il padre di messere Gian Francesco «frate», perciò che essendo fanciullino fu per voto vestito da frate. E veramente egli e la moglie erano benissimo insieme congiunti, perché furono due bellissime persone. Mi soviene adesso una breve istorietta a provare che in effetto lo irregolato e lascivo amore benda quasi e accieca coloro cui si appiglia. Ma non vi parrá per ventura cosí meraviglioso come il fatto del Ghiringhello, tenendosi communemente che le donne, per essere di temperamento piú delicato, amino assai piú focosamente che gli uomini. Vi dico adunque che, non molto dopo la morte di Foca imperadore, avenne ciò che narrarvi intendo. Cancano, re de li bavari, con grosso esercito tumultuosamente intrò ne la provincia del Friuli, con troncata e corrotta voce cosí chiamata dal Foro di Giulio, cittá nobilissima, de la quale era duca Gesolfo longobardo. Sentendo esso Gesolfo la venuta de li bavari, congregò quanti longobardi puoté avere, e animosamente col suo esercito andò contra Cancano. Fecesi una crudele e mortale battaglia, ove da ciascuna de le parti morirono molti e fu fatta effusione di sangue grandissima. I longobardi ebbero il piggiore e il duca Gesolfo nel sanguinoso fatto d’arme fu morto. Il bavaro, avuta la vittoria, ancor che gente molta nel conflitto perduta avesse, cominciò, per la provincia del Friuli discorrendo, roinare e abbrusciare tutti que’ luoghi, che pigliare poteva, barbaricamente, in ogni etá e in ogni sesso usando la sua ferina crudeltá. Romilda, moglie che fu di Gesolfo, si ritirò con Rodoaldo e Germoaldo, suoi e di Gesolfo figliuoli, dentro la cittá del Foro de Giulio, la quale era inespugnabile, e quivi aspettava il soccorso de li longobardi, che per tutta Italia faceano de le genti sue uno grossissimo esercito. Cancano con la piú parte de li suoi andò ad assediare quella cittá, con molto maggiore sforzo che speranza di poterla acquistare, sapendo come era di sito e da l’arte meravigliosamente fortificata, da numero conveniente di fortissimi commilitoni diligentissimamente guardata, e abondevolmente di vittovaglia fornita e proveduta, di modo che il bavaro si trovava in gran fastidio e desperato di potere il luoco espugnare. E tanto piú de la espugnazione dubitava quanto che intendeva, per diversi avisi, tutti del sangue longobardico essere in arme per venire ad assalirlo. Onde era per tornarsene indietro a li paesi suoi. Ora, ciò che nessuna forza poteva fare, il disordinato e libidinoso appetito de la scelerata crudel nova Scilla figliuola di Niso, dico Romilda, aperse le porte de la cittá inespugnabile al crudelissimo nemico. Cavalcava uno giorno Cancano attorno a le mura de la cittá e fu da Romilda visto. La quale, veggendolo giovane bellissimo nel fiore de la etá, con capelli crespi e barba rosseggiante, sí fieramente in uno subito di quello si innamorò, che una ora le parea mille e mille anni che ne le braccia sue amorosamente ritrovare si potesse. Onde, scordatasi che il barbaro gli aveva il suo marito anciso, e gettato doppo le spalle l’amore che a li figliuoli era da la natura spinta a portare, mandò uno suo fidato cameriero a Cancano, promettendoli dar quella fortissima cittá ne le sue mani, mentre egli le desse la fede di sposarla per moglie. Il barbaro, che altro al mondo allora non desiderava che impatronirsi di quello luoco, largamente con fortissimi giuramenti le promise e giurò prenderla per moglie. Non diede troppo indugio a la cosa la malvagia femina, ma la seguente notte introdusse il nemico dentro. Li figliuoli di Gesolfo, sentendo il nemico aver occupata la cittá, ebbero modo, fuggendo, di salvarsi. Cancano, impatronitosi de la cittá, acciò che in tutto non mancasse de la data fede, tenne per una notte seco in letto, come sua moglie, Romilda; la quale non si poteva saziare degli abbracciamenti del re e si istimava beatissima di cotale marito. Ma egli, conosciuta la insaziabile libidine di quella, levatosi la mattina, chiamò a sé dodici robustissimi de li suoi soldati e commandò che tutto quello dí e la vegnente notte prendessero carnalmente piacer di lei, non la permettendo mai riposare. Dapoi vituperosamente, al modo turchesco, la fece impalare e miseramente morire, acciò fosse in esempio che non debbiano le donne preponere la libidine a la ragione né uno piacer carnale a l’utile e a l’onesto. A la fine saccheggiò il luoco, e andò a ruba tutta la ricchezza, che giá gli eruli, li goti e ultimamente li longobardi de le spoglie e saccheggiamenti de l’Italia per piú di cento cinquanta anni colá dentro aveano, come in luoco sicurissimo, accumulate. Cacciò poi fora tutto il popolo, e la cittá arse e di modo roinò e distrusse, che non si sa chiaramente ove tanta cittá fosse edificata, scrivendo gli scrittori molto variamente. A cosí miserando fine condusse sí nobile e famosa cittá l’appetito disonestissimo di Romilda; né ella passò senza gastigo, come udito avete.


Il Bandello al magnifico ed eccellente dottore


di leggi pontificie e cesaree


messer Lodovico Dante Aligieri salute


Era il clarissimo signore Giovanni Delfino, podestá di questa inclita cittá, avendo in compagnia lo splendidissimo e valoroso signor Cesare Fregoso, generale de li cavalli de l’illustrissima Signoria di Venezia capitano, con molti altri gentiluomini, ito a diportarsi a le amene, chiarissime, fresche e piscose fontane del celebrato nel Filocolo da messer Giovanni Boccaccio, piacevole e facondo scrittore, il castello di Montorio. Quivi facendosi pescare e prendendosi molte trutelle, temoli, gambari e quei delicati pesciolini dal capo grosso, che in diversi luoghi hanno sortiti diversi nomi e voi veronesi chiamate «mangieroni», voi sovraveniste, che eravate fora de la cittá al vostro podere colá vicino. In quello, essendosi preso giá del pesce assai e facendo gran caldo, il signore podestá con la compagnia si retirò al giardino del palazzo, ove in diversi luoghi a le fresche ombre degli arbori e pergolati si assisero sopra la minuta e verde erbetta. E ragionandosi, ove era il signore podestá, di varie cose, fu chi mise in campo le molte moglieri del re de la Inghilterra, parte repudiate e parte ancise, essendo venuta la nova che poco avanti avea repudiata la sorella del duca di Clèves. Parve a tutti molto di strano che Enrico, ottavo di questo nome re inglese, che era stato sí grande e continovo difensore de la Chiesa, e che cosí catolicamente contra la perfidissima eresia di Lutero avea uno dottissimo libro composto, si fosse, perché papa Clemente non aveva voluto consentire né approvare lo illecitissimo repudio de la reina Catarina di Ragona sua legittima moglie, sí sceleratamente cambiato e scopertosi cosí acerrimo nemico de la catolica e romana Chiesa; di cui, oltra che era cristiano, era ancora giurato tributario per obligazioni autentiche de li precedenti regi. Si disse anco di alcuni uomini per dottrina e santitá di vita riguardevoli e eccellenti, che crudelissimamente avea come scelerati ladroni e assassini fatti decapitare. Né si tacque come fora de l’isola avea con impietá grandissima cacciati tutti li religiosi, frati mendicanti, monaci e altri servi di messer Domenedio, e roinati tanti monisteri e distribuite tutte le intrate de li luoghi sacri a chi piú de li suoi complici gli era ne l’animo caduto. Egli con sacrilegio inaudito si scriveva «pontefice» del suo regno; avea le sante reliquie e le ossa de li martiri e altri santi gettate a’ cani, e dirubati i sacri donarii per avanti da li regi e altre persone divote per voti a le chiese consecrati, e proibito sotto gravissime pene che messe e divini officii piú non si celebrassero. Donava a chi piú li piaceva li vescovati di sua propria autoritá, né piú si ricercava alcuna autoritá papale, non permettendo che a la corte romana piú per veruna cosa si avesse ricorso. Tutti questi sacrilegii, tanto spargimento di sangue umano, la diradicazione de la maggior parte de la nobilá de l’isola, e sí crudele e nefanda tirannide da altro procedute non sono che da la insaziabile libidine e disregolatissimo suo appetito di esso Enrico; il quale, gettatasi dopo le spalle la moderatrice de le azioni umane giusta ragione, a sciolte redini a lo sfrenato e concupiscibile senso si era totalemente dato in preda, di modo che, fieramente acciecato, correva ogni ora di male in peggio. Ora, di lui tutto questo e altre cose assai in detestazione sua dicendosi, il gentile e dotto messer Geronimo Veritá, quando vide che in altri ragionamenti si cominciava a travalicare, con mano accennò che si tacesse, e a proposito del repudiare de le moglieri narrò una breve istorietta, che molto a li circostanti piacque udire. E poi che egli si fu deliberato de la sua narrazione, il gentilissimo e costumato giovane messer Francesco da la Torre, che vicino a voi sedeva, a me rivolto, sorridendo disse: – Né questa, Bandello mio, stará male tra le novelle tue, che questi dí mi mostrasti, quando il nostro piacevolissimo messer Francesco Berna ed io col non mai a pieno lodato signor Cesare Fregoso disinassemo e poi si retirassemo ne la tua camera. – Voi allora diceste che io questa novelletta devea descrivere; il che io vi promisi. Onde, avendola descritta, mi è paruto convenevole al nome vostro dedicarla e farvene dono, ancora che sia picciolissimo e voi per le rare vostre doti di vie maggior degno siate, non tralignando punto da l’autore de la onorata vostra famiglia in Verona, che fu il dottissimo gran filosofo, teologo e poeta messer Dante Alighieri, del quale voi per diritta linea mascolina sète procriato, perciò che egli molti anni qui, sotto l’ombra de li signori Scaligeri, abitò, e vi lasciò uno legittimo figliuolo, dal quale è discesa la nobile vostra stirpe. E chi sará di cosí rintuzzato ingegno, che stato sia a Ravenna e abbia visto il sepolcro di esso Dante, dove è sculta la marmorea statua rappresentante la vera e nativa sua effigie, che, veggendo voi e il dotto in greco e latino messer Pietro vostro fratello, non dica che in viso portate la vera sembianza di esso Dante? Accettate dunque il mio picciolo dono, e in quello pigliate l’animo mio, che di molto maggior cosa desidera di onorarvi, acciò che in parte potesse sodisfare a le cortesi dimostrazioni vostre, che sempre verso me in molte cose mostrate avete. State sano.