Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella VIII

Seconda parte
Novella VIII

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Crisoforo innamorato d’Apatelea per inganno prende


di quella amoroso piacere, che sempre se gli era mostrata ritrosa.


Andai, non è molto, signore mie nobilissime, per alcuni miei affari a Milano, ove da persone degne di fede mi fu narrato quanto io ora intendo di raccontarvi. Milano, devete sapere, è oggidí la piú opulente e abbondante cittá d’Italia e quella ove piú s’attenda a fare che la tavola sia grassa e ben fornita. Ella oltra la grandezza sua che i popoli di molte cittá cape, ha copia di ricchissimi gentiluomini dei quali ciascuno per sé sarebbe sufficiente ad illustrare un’altra cittá. E s’un centinaio di gentiluomini milanesi i quali io conosco fossero nel reame di Napoli, tutti sarebbero baroni, marchesi e conti; ma i milanesi in ogni cosa attendeno piú a l’essere e al viver bene che al parere. Sono poi tutti molto piú vaghi de le belle donne, de le quali assai ce ne sono, e di star continovamente su le pratiche amorose, che in cittá che io mi conosca, e tutti per l’ordinario fanno a’ forestieri di molte carezze e gli vedeno molto volentieri. Stanno dunque tanto piú su l’amorose pratiche quanto che vi trovano la pastura piú grassa ed abbondante, essendo tutte le donne cosí vaghe degli uomini come essi sono di loro. Per questo si vedeno tutto il dí a belle schiere tutte le sorti d’uomini sovra le invellutate e superbamente guarnite mule, sovra correnti e snelli turchi, sovra velocissimi e leggeri barbari, sovra vivaci ed animosi giannetti, sovra feroci corsieri e sovra quietissimi ubini, con nuove fogge di vestimenti, or quinci or quindi passeggiare, che propriamente paiono pecchie o, come qui si dice, api che a torno a torno ai vaghi fiori vadano scegliendo il mele. Si veggiono altresí di molte indorate carrette con coperte carche di trapunti, che quattro schiumosi corsieri tirano, che par che si veggia trionfar un imperadore e dentro le carrette vi sono assise di bellissime donne, le quali sen vanno per la cittá diportando. Vi fu, non è guari, un giovine d’onorata ed antica famiglia, il cui padre è ricchissimo ed egli è nel vero d’ogni vertú che a giovine nobile si convenga compiutamente ornato, il cui nome per buoni rispetti mi piace tacere, ma non senza accomodato nome Crisoforo lo domanderemo. Egli con altri gentiluomini per la cittá cavalcando, vide una sera in porta una gentildonna molto bella e riccamente maritata, nel cui volto e presenza gli parve veder raccolta quanta mai beltá e vaghezza per a dietro egli avesse veduta. E in quel punto che la vide, si sentí cosí de l’amor di lei acceso che deliberò in modo farsele soggetto, che l’amor e grazia di lei n’acquistasse. Informatosi adunque chi ella fosse, cominciò due e tre volte il dí a passar per la contrada, e veggendola molto spesso in porta e a la finestra e talora in carretta a diporto per la cittá, se le inchinava facendole riverenza, e con gli occhi ingordi di modo la mirava che ella leggermente de l’amor del giovine s’accorse. E come tutte fanno, gli mostrava buon viso, né punto pareva che schifevol fosse d’esser vagheggiata anzi pareva che caro avesse che egli le fosse servidore. Del che il giovine prese buona speranza e non poteva saziar la vista di vederla. E quanto piú la vedeva, tanto piú gli pareva bella e leggiadra, e tanto piú si sentiva ne l’amorosa pania invescare. Onde passati giá molti giorni e desiderando egli venir a fine di questo suo amore trovò un messo di cui gli pareva che la donna si potesse fidare e le scrisse una lettera, ove narrandole la sua servitú e quanto de le vaghe bellezze, degli onesti e saggi modi di lei fosse acceso e quanto desiderava per lei spender la roba e la vita, la pregava affettuosamente che degnasse prestargli comoda audienza a ciò che meglio le facesse conoscere qual e quanto era l’amor che le portava. Prese la donna ed accettò l’amorosa lettera, e quella a la presenza del portatore letta e riletta, al messo impose che per i fatti suoi se n’andasse e che piú non le mettesse i piedi in casa per simil pratiche, perché ne riportarebbe cosí fatto guiderdone che eternamente gliene dorrebbe. Ultimamente gli disse: – Va e di’ a chi ti manda che piú noia non mi dia, e che d’altra donna si procacci, perciò che io non sono tale, quale egli forse ha pensato. Io, la Dio mercé, ho un buon marito, e a quello intendo, come si de’, servar la fede; sí che né tu piú mi porterai lettere né egli piú mi scriverá. – Con questa risposta ritornò il messo al giovine e il tutto puntualmente gli narrò. Ma perché ciascun animo gentile quanto piú vede difficultá in una impresa piú gagliardamente vi si mette, il giovine per questo non sentí punto intepidir le sue fiamme né da l’amorosa impresa si ritrasse, anzi piú s’inanimò, per altre vie tentò l’animo de la donna. Egli puoté mandar messi, scrivere e riscrivere, pregare, supplicare e far quanto gli piacque; nondimeno da lei risposta buona non ebbe giá mai, il che gli era di grandissimo ed infinito dispiacer cagione. Ora amando costui in questo modo e passando un giorno per la contrada a piede, ritrovò la donna che tutta sola era in porta, e facendo buon animo, le fece riverenza e la salutò. La donna gli rese le debite salutazioni molto cortesemente. Il giovine si fermò seco a parlare ed entrò su l’istoria del suo amore. Fu pazientemente ascoltato, e per risposta la donna gli disse: – Signore, io vi ringrazio de l’amore che dite portarmi e ve ne resto con obligo. Ma io sono debitrice ad amar piú il marito e l’onor mio che cosa che al mondo sia, e questo per sempre abbiate per detto. Io averò ben cara l’amicizia vostra e potrete, sempre che vorrete, parlarmi; ma non mi parlate d’amore. Altrimenti facendo, io non vi darò udienza, e se piú messo mi mandarete, io non ne udirò nessuno né piú vostre lettere riceverò. E piú di questo non si parli. – L’amante tutto sconsolato si partí e andava pur tra sé cose assai pensando sovra questo suo amore. A la fine, – egli punto non era melenso né teneva de l’ambrosiano, ma era avvisto e scaltrito,– veggendo la durezza di costei che era giovane e fresca, s’imaginò che una di due cose bisognava che fosse, cioè che ella fosse di quelle donne rarissime che degli abbracciamenti dei mariti si contentano, il che non poteva credere perciò che il marito di lei era un poco attempato e malsano, o veramente che ella avesse qualche amante del cui amor godesse e che pertanto ella fosse sí dura e rigida. Egli in questa openione fermato ed altro imaginar non potendo, cominciò con quanta mai seppe la maggiore sollecitudine a spiar tutte l’azioni de la donna per veder se poteva intender cosa alcuna, non lasciando perciò in questo mezzo la sua solita servitú. Ora la cosa andò di giorno in giorno cosí in lungo che egli vi s’affaticò piú d’un anno prima che mai potesse venir in cognizione chi fosse l’amante che tanto fosse da madonna Apatelea amato, ché tal era di questa gentildonna il nome. Ma poi che assai ebbe cercato e tutto Milano sossopra rivolto, intese a la fine come uno dei primi di Milano era di lei fieramente acceso ed ella di lui e che insieme si godevano. E ben che la pratica fosse segretissima, egli nondimeno che spendeva largamente e sempre portava l’oro in mano, venne per forza di danari in cognizione del tutto. Di questa cosa non poco Crisoforo dolendosi e giá geloso di quella divenuto che ancora non possedeva, menava una vita in grandissima amaritudine e tanto rincrescevole che a se stesso quasi veniva in fastidio. Volentieri da cotesta impresa si sarebbe egli ritratto, ma sí malagevole il ritirarsi gli era che quanto piú cercava la donna cacciarsi de la mente, ella piú se ne impadroniva ed egli piú fuocosamente l’amava. Combattuto adunque da amore e gelosia, da dolore e da mill’altri penaci martíri, cominciò con sagacissima industria, con nuovi modi, con sottilissime astuzie e con diverse maniere a spiar tutta la vita, tutte l’azioni ed il modo che Apatelea teneva a ritrovarsi col suo amante. E perché a l’oro ogni cosa ubidisce, corruppe per forza di danari un amico del suo rivale e fu certificato come la donna assai sovente andava per tempissimo ad una chiesa a la casa sua vicina e questo faceva ella ogni volta che il marito cavalcava. Avuto questo indizio e inteso che ella entrava poi in una casa che non molto lunge da la chiesa era, ritrovò la casa tenersi a nome del gentiluomo suo rivale; il che piú pensieri gli accrebbe, non sapendo a che modo governarsi. Ed ancora che la speranza di posseder la cosa amata si facesse di tempo in tempo minore, nondimeno il disio vie piú grande che prima si faceva, e gravissimo gli era a viver a questo modo. Il perché dopo che assai sovra i casi suoi ebbe pensato, si deliberò mettersi ad ogni rischio, pur che per qualche via potesse acquistar la sua donna. Fatta questa deliberazione, cominciò egli ogni matina innanzi il levar del sole andar a la chiesa che detta s’è, ove la donna soleva trovarsi. Egli ci andò piú e piú giorni indarno. Ora avendo inteso che il marito de la sua Apatelea era la sera cavalcato e ito in contado, la matina molto per tempo se n’andò a la chiesa mostrata, e trovò che il prete celebrava la prima messa che si dice innanzi il levar del sole. Arrivato quivi, s’inginocchiò dietro ad una colonna, involto in un tabarrone, perciò che il sacerdote voleva levar il santo sacramento de l’altare. Erano quivi molte donne, tra le quali una in quel tempo alzò il velo che su la fronte le pendeva ed alquanto discoverse il viso. Crisoforo che a costei non aveva messo fantasia perciò che era vestita di panno di lana assai grossamente, come vide levato il velo, subito conobbe che quella era Apatelea tanto da lui disiata. Né a pena conosciuta l’ebbe, che ella che di Crisoforo non s’era avvista si levò e con una sua vecchia uscí fuor de la chiesa. Egli non perdendo tempo l’andò dietro lentamente, e seco non aveva se non un solo servidore, che anco egli per non esser conosciuto aveva un tabarro e si copriva quasi tutto il volto. Apatelea che innanzi caminava, come fu a l’uscio de la casa giá detta e quello trovato aperto, con la vecchia entrò in casa e l’uscio fermò. Crisoforo che sentí la porta esser fermata, tra sé disse: – Or che farò io? Costei è intrata dentro, e senza dubio si deve credere che il suo amante ci sia, o non ci essendo, che in breve le verrá dietro. Se egli c’è, io sono espedito, come si dice, per lettere di cambio; se non c’è e venendo mi truovi qui in questo abito con un sol servidore, che potrá egli pensare? Se io picchio e che mi sia aperto ed il mio rivale sia dentro, che scusazione troverò io d’esser venuto a questa casa? Ma chi sa se egli c’è? chi sa che egli non stia ancor buona pezza a venire? E’ si suol dire che chi non s’arrischia non guadagna e che la fortuna aiuta gli audaci. Io vo’ pur provar mia ventura, ed avvengane ciò che si voglia. – Accostatosi adunque a l’uscio, col piede soavemente una fiata picchiò, avendo di giá pensata una apparente scusa se il rivale era in casa. Come egli ebbe la porta tócca, incontinente un servidore l’aprí; onde Crisoforo senza punto indugiare si mise di dentro, tenendo per fermo che l’amico non ci fosse. Come ei fu dentro, senza altra considerazione spinse fuor di casa colui che aperto gli aveva e fece entrar il suo servidore, e subito inchiavò la porta. Salito poi sovra una scala, sentí Apatelea che in una camera con la sua vecchia favoleggiava. Egli entrò dentro e disse: – Dio vi dia il bon giorno, signora mia. – La donna come sentí la voce e vide che il suo amante non era venuto, tutta si stordí e piangendo disse: – Oimè, chi v’ha qui condutto? – Signora e padrona mia unica, – rispose Crisoforo, – l’amore che io vi porto ed ho portato giá tanto tempo, è stato la mia guida a questo luogo. Il perché umilissimamente vi prego che oramai vogliate aver riguardo a la mia fedelissima servitú e darmi il guiderdone che un cosí sincero e fervente amore merita. – Apatelea alora certe sue favole tessendo, diceva che molto forte di lui e de la sua temeraria presunzione si meravigliava, e che ella non era mica tale, quale forse egli s’imaginava, ma che quivi per certe sue bisogne e non per mal alcuno era venuta. Crisoforo che non voleva perder tempo e lasciarsi la preda scappar di mano, chiamato su il suo servidore, gli comandò che ben fermasse la porta verso la strada e poi che fuor di camera ne portasse la maledetta vecchia, la quale a la padrona s’era piangendo appigliata e non se ne voleva levare. Il buon servidore fece quanto gli era stato imposto, e l’amante a la donna avvicinatosi, piacevolmente cosí le disse: – Che io qui venuto sia non vi deve, signora mia, parer strano con ciò sia che sapete quanto io v’amo e quante fiate v’ho supplicato che degnaste darmi la comoditá di poter essere insieme con voi. Ora che io ci sono, non crediate che cosí di leggero con le mani piene di mosche mi voglia partire. So che voi venuta qui sète per amor d’altri e so che egli questa casa per tale effetto ha condutta. Egli è gentiluomo e ricco, e questo e vie piú maggior bene merita; ma non fará egli giá mai ch’io non v’ami e che con ogni mio potere non cerchi goder il vostro amore. E in questo non credo esser di lui men degno. Io pur qui sono, né senza la grazia vostra intendo a modo alcuno partirmi. E nel vero io sarei ben pazzo se quello che tanto ho desiato, avendo a salva mano preso, scioccamente lasciassi fuggire. Sí che minor male è che voi di vostra voglia quello mi diate che negar non mi potete. E quanto piú tardate, voi fate il peggio, perciò che fra questo mezzo potrebbe venir colui a cui nome qui venuta sète, e venendo, altro che scandalo non ne potrá riuscire. Egli è cosí possibile che io ancida lui come egli me. Oltra questo voi rimarreste in bocca del volgo vituperata ed infame ed in perpetua disgrazia di vostro marito. Di me non sa persona che io qui sia, e non si sapendo, che temete voi? E se pur si sapesse che io qui fossi, qual sará cosí sciocco che pensi mai che io senza aver goduto questa vostra bellezza sia partito? Egli è pure nel vero una espressa pazzia a voler incorrere in infamia perpetua senza cagione. Il perché, signora mia unica da me molto piú amata che gli occhi miei proprii, non mi vogliate far piú languire. Oramai devereste pur esser certa del mio amore, de la mia fede e de la mia perseveranza. Sapete pure quanto è che io v’onoro, v’amo e che vi riverisco. Sapete quante fiate v’ho supplicato che di me vi piacesse aver compassione. Ora che la fortuna ci presta il modo, noi perdiamo, ché tutti dui poi ce ne potremo pentire. – Dette queste parole, egli la volle basciare gettandole le braccia al collo. Ma ella tutta piena di sdegno, quanto piú poteva lo ributtava e sospingeva da sé, piangendo e fieramente lamentandosi. Ora poi che Crisoforo gran pezza si fu pregandola affaticato ed ebbe con pazienza sopportato i fastidii de la donna, lasciato il pregare, con minaccevol voce e rigido viso le disse: – Io veggio ora chiaramente che voi bramate che tutto Milano sappia i fatti nostri i quali, poi che cosí volete, si saperanno. Io per viva forza quei piaceri di voi prendendo che piú m’aggradiranno, obligo nessuno mai non ve ne averò, anzi come disonesta e rea femina appo tutto il mondo v’anderò publicando e vituperando, e a tutti dirò che per danari a voi promessi, v’abbia fatta qui venire. Il che facilmente mi sará creduto, essendo per l’ordinario piú tosto oggidí in queste simil cose data fede a la bugia che a la veritá. E cosí voi mai piú non averete ardire di lasciarvi veder da persona; e peggio anco ve ne potrebbe avvenire, perciò che sapendolo vostro marito, troverá modo di farvi secretamente morire. – La donna udendo queste fiere minacce e dubitando che il giovine sdegnato come egli diceva e forse peggio poi non facesse, cominciò con dolci e mansuete parole a volerlo mitigare e, se possibil fosse stato, libera da le sue mani partirsi. Ma ella era forte ingannata e chi vide mai sparviero che la quaglia con gli artigli de l’ugne gremita tenesse, che cosí di leggero andar la lasciasse? Ella puoté dire e pregare, ma il tutto era invano; onde veggendo che nulla profittava, ne le braccia del giovine s’abbandonò. Cosí di comune consentimento, fatti prima egli ed il servidore mille sagramenti che questa cosa mai non direbbero, Crisoforo con Apatelea amorosamente si giacque tanto quanto volle. Dopo questo rimase la donna in grandissimo pensiero del servidore che Crisoforo aveva fuor de la porta gettato, dubitando forte ch’egli non avesse ogni cosa al padrone detta. Questo anco non poco premeva l’animo del giovine, conoscendo dever seguir con lui mortal nemicizia. Nondimeno fatto buon animo e lasciata la donna assai sconfortata, uscí di casa e per buona sorte riscontrò il servidore che senza aver potuto trovar il suo signore ritornava; onde presolo per la mano, tanto gli seppe dire che egli gli confessò come il padrone trovato non aveva. Di che Crisoforo oltra modo lieto al servidore empí la mano di scudi d’oro, a ciò che niente al padrone dicesse, e fece che con questa buona nuova andò a rallegrar la donna, a ciò che non stesse sospesa d’animo; il che fedelmente il servidore fece. Crisoforo poi meglio considerati i casi suoi, e tenendo per fermo, a la grande resistenza che ne la donna veduta aveva, che solamente il corpo e non l’animo di quella gli era in poter suo rimaso, temperò il suo amore ed Apatelea piú non seguitò, ma lasciò starsi in pace.


Il Bandello al molto magnifico ed eccellente


messer Girolamo Fracastoro poeta e medico dottissimo salute


Andò questa state il valoroso ed illustrissimo signore, il signor Cesare Fregoso vostro grandissimo amico e mio signore, a ber l’acque dei bagni di Caldero, ove alloggiò in una casa di messer Matteo Boldiero, persona gentilissima e d’ogni parte di castigata ed integerrima vita. Quivi, come assai meglio di me sapete, di tutta Lombardia e di Lamagna e d’altre parti vicine e lontane molta gente concorre per la salubritá di quell’acque, de le quali mirabilissimi effetti ogni volta che ordinatamente si beveno si sono veduti. Ed io tra gli altri ne posso render verissimo testimonio, che essendo dal noioso mal de le reni fieramente afflitto, voi me le faceste bere alcuni dí qui in Verona, l’un giorno per l’altro mandando a Caldero a prender essa acqua. Il giovamento che ella mi fece, fu tale quale voi ed io desideravamo, perciò che di modo mi liberò da quei dolori che piú non ho dapoi sentito pur una minima puntura, che prima non mi poteva chinar a terra né chinato senza gravi dolori levarmi. Stette il signor Cesare a’ detti bagni alquanti dí, usando de l’onesta libertá la quale a chi beve quell’acque si concede, ricreandosi di brigata con quelli che ai bagni si ritrovavano. Venivano anco da le cittati circonvicine gentiluomini assai a visitarlo, i quali tutti esso signore lietamente riceveva e con ricca e sontuosa mensa onorava, ché conoscete bene come egli sa onorar cui ne l’animo gli cape che il vaglia. Si facevano varii e piacevoli giuochi, e chiunque piú di trastullo pigliava in un giuoco che in un altro, in quello si dava piacere. Ora ragionandosi un giorno dei casi fortunevoli che ne le cose de l’amore avversi avvengono, il capitano Alessandro Peregrino narrò una pietosa istoria che in Verona al tempo del signor Bartolomeo Scala avvenne, la quale per il suo infelice fine quasi tutti ci fece piangere. E perché mi parve degna di compassione e d’esser consacrata a la posteritá, per ammonir i giovini che imparino moderatamente a governarsi e non correr a furia, la scrissi. Quella adunque da me scritta a voi mando e dono, conoscendo per esperienza le ciancie mie esservi grate e che volentieri quelle leggete; il che chiaramente dimostra il vostro colto e numeroso epigramma che sovra le mie Parche giá componeste. State sano.