Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella L
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Novella L
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Una donna cortegiana in Lione pensando compiacer
a chi a sua posta la teneva s’ammazza molto scioccamente.
Passando nel ritorno mio da la corte del re cristianissimo per Lione ove dimorai tre giorni, Girolamo Aieroldo gentiluomo milanese mi narrò un caso nuovamente in quella cittá avvenuto, il quale nel vero mi parve pure assai strano. E perché è di quei casi che rade volte avvengano, mi piace di racontarvelo. Lione, come devete sapere, è una de le mercantili terre d’Europa e quella ove forse sono piú ordinariamente italiani, e massimamente toscani, che in qual altro luoco fuor d’Italia si sappia. Poi per le guerre di Lombardia vi si sono milanesi assai e gente di questo ducato ridutti. Evvi tra gli altri il signor Teodoro Triulzo governatore de la cittá, che vi sta con una grossissima famiglia. Ha esso signor Teodoro per spenditore de la casa un Marco da Salò, il quale prima fu paggio di don Gasparo cappellano de la signora Buona Bevilacqua moglie del detto signor Triulzo, ed essendosi mostrato diligente e fedele è divenuto spenditore, comprando le cose che a la giornata bisognano cosí per il mangiare come per altri bisogni di casa. Era in Lione una assai bella donna che del suo corpo per picciolo prezzo serviva tutti quelli che la ricercavano, la quale si chiamava Malatesta; ed era donna a cui stava molto meglio in mano la spada e la rotella che la conocchia ed il fuso e per aventura l’ago. Ella di notte con la sua spada e la rotella partiva da l’albergo e passava il ponte che è sovra la Sonna, e andava tutta sola ora a casa di questi ed ora di quelli secondo che era richiesta; e sovente fu trovata dai sergenti de la corte e da altri, e sempre molto animosamente si diffese menando le mani come farebbe ogni prode uomo, di maniera che per tutto Lione da ciascuno era conosciuta. Tutte le donne poi da partito la temevano come il fuoco di santo Antonio e non ardivano in alcuna maniera trescar con lei, perciò che ella dava loro de le busse a buona derrata. I ruffiani medesimamente meno che potevano seco s’impacciavano. Di costei prese Marco da Salò domestichezza e spesso andava a giacersi con lei, cosí di notte come anco talora di giorno; e andò di tal maniera il fatto che egli di lei fieramente s’innamorò. Né meno di lui ardeva anco ella, ed essendo con tutti gli altri superba e fastidiosa, era con Marco piacevole e tanto umile che nulla piú. Ella senza lui non sapeva vivere, non volendo da lui prezzo alcuno, anzi largamente di quello che dagli altri guadagnava faceva parte a Marco. Egli che era molto giovine amava la Malatesta piú che la vita sua, e come aveva provisto ai bisogni di casa, andava a starsi qualche pezzo con lei e trastularsi. Ora avvenne che un giorno Marco s’aveva fatto far una camiscia assai ben lavorata e postasela indosso, e forse era la prima camiscia lavorata che egli mai piú avuta avesse. Con questa bella camiscia se n’andò a trovar la sua Malatesta, ed essendo l’ora dopo desinare si spogliarono tutti dui e se n’andarono scherzando al letto, ove amorosamente insieme piú volte presero piacere. Dapoi che buona pezza ebbero scherzato, parendo a Marco che fosse ora d’andar a la piazza e comprar qualche cosa e proveder a ciò che fosse bisogno, come era il solito suo, disse a la donna: – Anima mia, io vo’ levarmi, perciò che egli è ora ch’io vada a trovar il maestro di casa e veder se vuole che io proveda di cosa alcuna. Rimanti in pace fin a questa notte, ché io verrò a giacermi teco. – E detto questo la basciò, volendosi levar su e andar a far i fatti suoi. La donna l’abbracciò strettissimamente e basciandolo gli diceva: – Deh, vita mia, non ti partir cosí tosto. Non vedi che ancora non è tempo d’andar a far coteste tue provigioni? Ma tu, lassa me! mi vuoi poco bene e m’accorgo ch’io ti sono in fastidio. Restati ancora mezz’ora meco. – Marco le rispose che ella era errata, perché l’amava piú che gli occhi proprii e che tutto il suo piacere era starsi seco giorno e notte, ma che l’ora era tarda; e ribasciandola si levò per partirsi. La donna il prese per la camiscia e lo tirò sí ruvidamente che gliela stracciò indosso. Marco adirato le diede dui mostaccioni. Veggendolo la donna in còlera, cominciò fieramente a lagrimare e dirgli: – Certo io m’accorgo bene che tu punto non m’ami. Almeno sapessi io di farti piacere morendo, che non starei un’ora in vita. Vuoi tu ch’io ti contenti e ch’io mora? – Marco a cui ancora l’ira non era acquetata e si vestiva, le rispose che se voleva morire che morisse, ché poco dei fatti suoi si curava. La donna alora senza pensarvi piú: – Ecco, – rispose, – che per farti piacere io me ne morrò, – e col capo avanti si gettò in terra di letto il quale non era perciò molto alto. Nondimeno la sfortunata donna si fiaccò miseramente il collo e subito morí. Marco sbigottito di simil caso la prese e la messe sovra il letto, e veggendo che ella non moveva né piede né mano, dolente oltra modo ed amaramente piangendo domandò la fante de la Malatesta e le mostrò la sua donna morta. La fante gridando fu cagione che alcune donne sue vicine, che del corpo servivano ai bisognosi, vennero al romore e cominciarono a biasimar gli italiani. In questa Marco partí e trovato l’Aieroldo gli narrò la disgrazia de la donna. Egli v’andò e trovate le donne che cantavano degli italiani, le cacciò di casa e andò a trovar l’ufficiale de la giustizia, il quale veduto il corpo e non vi trovato né ferita né altro male, diede licenzia che fosse seppellito; il che l’Aieroldo fece fare. E Marco restò molti mesi di malissima voglia. E nel vero gran cosa mi pare che in donna di simil sorte si trovasse sí fervente amore che per compiacer al suo amante l’inducesse omicidiale di se stessa, se amore perciò si de’ chiamare e non piú tosto dissordinato appetito e pazzia.
Il Bandello al magnifico e molto vertuoso
messer Sigismondo Fanzino da la Torre salute
Mirabili nel vero son tutti quei casi che fuor de l’ordinario corso del nostro modo di vivere a la giornata accadeno, e spesso quando gli leggiamo ci inducono a meraviglia, ancora che talvolta molti uomini, non avendo riguardo a la santitá de l’istoria che deve esser con veritá scritta, come leggono una cosa che abbia del mirabile o che lor paia che non deverebbe esser di quel modo fatta, dicono: – Forse non avvenne cosí, ma chi questo fatto scrisse l’ha voluto a modo suo adornare. – Onde avendo scritto il pietoso e miserabil caso occorso in Mantova questi dí, ancora che il dotto e facondissimo messer Mario Equicola e il dotto e gentile messer Giovan Giacomo Calandra de l’avvenuto caso facciano indubitata fede, e che la gentilissima madonna Giovanna Trotta moglie di messer Carlo Ghisi, essendo io a Diporto a desinar con madama illustrissima, a quella puntalmente il narrasse, ho voluto mandarlo a voi che per commissione de l’illustrissimo e reverendissimo cardinale Sigismondo Gonzaga andaste a parlar con la donna prima che morisse, la quale è la maggior parte di questo caso. Vi piacerá adunque, essendo alcuno che dicesse non esser cosí, con l’autoritá vostra far a la mia scrittura scudo. Il che so, la vostra mercé, che farete. State sano.