Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella II
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Novella II
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Ariabarzane senescalco del re di Persia quello vuol vincer di cortesia;
ove varii accidenti intervengono.
Questionato s’è piú volte, amabilissima signora e voi cortesi signori, tra uomini dotti ed al servigio de le corti dedicati, se opera alcuna lodevole, o atto cortese e gentile che usi il cortegiano verso il suo signore, si deve chiamar liberalitá e cortesia, o vero se piú tosto dimanderassi ubligazione e debito. Né di questa cosa senza ragion si contrasta, imperciò che appo molti è assai chiaro che il servidore verso il suo padrone non può tanto mai ogni giorno fare, quanto egli deve di molto piú. Ché se per sorte non ha la grazia del suo re, e pur vorrá, come fa chiunque serve, averla, che cosa deve mai lasciar egli di far quantunque difficil sia, a ciò che la desiata grazia acquisti? Non veggiamo noi molti che, per gratificarsi il lor prencipe, hanno a mille rischi e spesso a mille morti messa la propria vita? Ora, se egli si ritrova in favore e si conosce d’esser amato dal suo padrone, quante fatiche e quanti strazii è necessario che sofferisca, a ciò che in riputazione si mantenga e possa l’acquistata grazia mantenere ed accrescere? Sapete bene esser divolgato proverbio e da l’ingegnoso poeta celebrato, non esser minor vertú le cose acquistate conservare, che acquistarle. Altri in contrario contendono, e con fortissimi argomenti si sforzano provare che tutto quel che il servidor fa oltra ’l debito e sovra l’ubligazione che ha di servire al suo signore, sia liberalitá e materia da ubligarsi il padrone e di provocarlo a nuovi beneficii, sapendosi che, qualunque volta l’uomo fa il suo ufficio al qual è deputato dal signore, e lo fa con tutta quella diligenza e modi che se gli ricercano, che egli ha sodisfatto al debito suo e che merita da lui esser, come è conveniente, guiderdonato. Ma perché qui ragunati non siamo per disputare, ma per novellare, lasciaremo le questioni da canto, e circa ciò quel che un valoroso re operasse intendo con una mia novella raccontarvi, la qual finita, se ci sará dapoi alcuno che voglia piú largamente parlarne, io penso che averá campo libero di correr a suo bell’agio uno o piú arrenghi, come piú gli aggradirá. Dicovi adunque che fu nel reame di Persia un re, chiamato Artaserse, uomo d’animo grandissimo, e molto ne l’armi essercitato. Questo fu quel che prima, come narrano gli annali persiani, essendo privato uomo d’arme, ché grado ancora militare non aveva ottenuto ne lo essercito, ammazzò Artabano, ultimo re degli Arsacidi, sotto cui militava, ed il dominio di Persia a’ persiani restituí, ch’era stato in mano de li macedoni e d’altre genti dopo la morte di Dario, che fu dal magno Alessandro vinto, per spazio d’anni circa CCCCCXXXVIII. Questi adunque, avendo tutta Persia liberata e da li popoli essendo fatto re, tenne corte di magnificenze e d’opere virtuose, ed egli splendidissimo in tutte l’azioni sue, oltre i titoli ne le sanguinolente battaglie valorosamente acquistati, era tenuto per tutto l’Oriente il piú liberale e magnanimo re che in quella etá regnasse. Nei conviti poi era un nuovo Locullo, onorando grandemente i forastieri che in corte gli capitavono. Aveva costui in corte un senescalco detto per nome Ariabarzane, il cui ufficio era, quando il re publicamente faceva un convito, salito sovra un bianco corsiero e con una mazza d’oro in mano, venirsene innanzi agli scudieri i quali il mangiar del re portavono in vasi d’oro di finissimi pannilini coperti, e i panni erano tutti trapunti e lavorati di seta e d’oro a bellissimi lavori. Questo ufficio di senescalco era sommamente stimato, e communemente a uno de’ primi baroni del reame soleva darsi. Il perché, detto Ariabarzane, oltre che era di nobilissimo legnaggio e tanto ricco che quasi nessuno uguale di ricchezze nel reame si trovava, era poi il piú cortese e liberal cavaliere che in quella corte praticasse, e tanto a le volte faceva il magnanimo e senza ritegno spendeva, che, lasciando il mezzo in cui ogni virtú consiste, molte fiate a gli estremi inchinando, cadeva nel vizio de la prodigalitá. Onde assai spesso parve che non solamente col suo re volesse ne l’opere di cortesia agguagliarsi, ma ch’egli cercasse con ogni sforzo d’avanzarlo o vincerlo. Un giorno adunque fattosi il re portar lo scacchiero, volle che Ariabarzane seco agli scacchi giocasse. Era in quei dí tra’ Persiani il giuoco degli scacchi in grandissimo prezzo, e di tal maniera un buon giocatore era stimato, come oggidí tra noi è lodato un eccellente disputatore in cose di lettere e materie filosofiche. Onde assisi l’uno a rimpetto de l’altro ad una tavola ne la sala reale, ove erano assai gran personaggi che il giuocar loro attenti e con silenzio miravano, cominciarono a la meglio che sapevano l’un l’altro con gli scacchi ad incalciarsi. Ariabarzane, o che meglio del re giocasse, o che il re dopo non molti tratti al giuoco non avesse l’animo, o che che se ne fosse cagione, ridusse il re a tale che non poteva fuggir che in due o tre tratti non fosse sforzato ricever scacco matto. Di questo il re avvedutosi, e considerato il periglio de lo scacco matto, divenne assai piú del solito colorito in faccia, e pensando se v’era modo di schifar lo scacco matto, oltre il rossore che in faccia gli si vedeva, con squassare il capo ed altri atti e sospiri, fece conoscer a chiunque il gioco guardava, che troppo gli rincresceva l’esser a simil passo giunto. Del che accorgendosi il senescalco e veggendo l’onesta vergogna del suo re, nol poté sofferire, ma fece un tratto, movendo un suo cavallo a posta per aprire la strada al re, di modo che non solamente lo liberò dal periglio ov’era, ma lasciò un suo rocco in perdita senza guardia alcuna. Onde il gioco restava uguale. A questo il re, che troppo ben conosceva la generositá e grandezza d’animo del suo servidore, che in altre cose assai esperimentato aveva, fingendo non aver visto di poter pigliare il rocco, diede de le mani ne gli scacchi, e levatosi in piede disse: – Non piú, Ariabarzane. Il gioco è vostro e io vinto mi confesso. – Cadde ne l’animo di Artaserse che Ariabarzane questo avesse fatto, non tanto per cortesia, quanto per ubligarsi il suo re, e gli ne parve male; e per ciò piú giocar non volle. Tuttavia, dopo questo, mai il re né in cenni né in atti né in parole dimostrò che questa cortesia del suo senescalco gli fosse dispiaciuta. Ben è vero che egli averebbe voluto che Ariabarzane da questi atti si fosse astenuto quando egli o giocava o altro faceva seco, e se pur voleva fare il cortese e il magnifico, lo facesse con i suoi minori od uguali, perciò che a lui non pareva ben fatto ch’un servidore devesse in cose di cortesia e liberalitá voler di pari giostrar col suo padrone. Non passarono molti dí dopo questo, ch’essendo il re in Persepoli, cittá principal de la Persia, ordinò una bellissima caccia d’animali che quella regione nodrisce, che sono da questi nostri assai diversi, e il tutto messo in punto, al luogo de la caccia con tutta la corte si condusse. Quivi essendo buona parte d’un bosco cinto di reti e di molti lacci tesi, il re, disposte le persone dei suoi cacciatori come piú gli parve convenevole, attese con cani e corni a far uscir le bestie fuor de le lor tane e covili. Ed ecco saltar fuori una bestia selvaggia molto feroce e snella, la quale, d’un salto le reti trapassate, si mise velocissimamente in fuga. Il re, veduto lo strano animale, deliberò di seguitarlo e farlo morire. Fatto adunque cenno ad alcuni dei suoi baroni che seco si mettessero di brigata dietro a la fiera, e lasciato le redine al suo cavallo, si pose dietro a seguitarla. Era Ariabarzane un di quei baroni, che col suo re dietro a l’animal correva. Avvenne che quel giorno il re aveva sotto un cavallo che per il velocissimo suo correre tanto gli era grato, che mille altri de li suoi per salvezza di quello averia dato, e tanto piú ch’oltra la velocitá del corso, era attissimo a le scaramucce e fatti d’arme. Cosí seguendo a sciolta briglia la volante non che corrente fiera, molto da la compagnia si dilungarono, e di modo affrettarono il corso, che il re seco non aveva se non Ariabarzane, dietro a cui seguiva un dei suoi, che sempre egli ne la caccia dietro si menava suso un buon cavallo. Medesimamente il cavallo d’Ariabarzane era tenuto dei megliori che in corte si trovassero. Avvenne in questo, che, tuttavia correndo questi tre a sciolta briglia, Ariabarzane s’avide che il cavallo del suo signor era dai piedi dinanzi sferrato e giá cominciavano i sassi a rodergli l’unghie. Il perché conveniva al re perder il trastullo che prendeva de la caccia, o che il cavallo si guastasse. Ma di queste due cose nessuna poteva avvenire che mirabilmente al re non dispiacesse, il qual non s’era avveduto che il cavallo avesse perduto i ferri. Il senescalco subito che se n’avide smontò a piedi, e fattosi dar da quello che lo seguiva, che per questi accidenti seco conduceva, il martello e le tenaglie, al suo buon cavallo cavò li duo ferri dinanzi per mettergli a quello del re, deliberando poi egli metter a la ventura il suo, seguendo la caccia. Gridato adunque al re che si fermasse, l’avvertí del pericolo ove il cavallo era. Smontato il re, e li duo ferri veggendo in mano al servidor del senescalco, né altrimente mettendovi cura, o forse imaginando che a simil casi Ariabarzane gli facesse portare o che pur fossero quelli che al cavallo erano caduti, attendeva che quello fosse acconcio per rimontare, Ma come vide il buon cavallo del senescalco senza ferri dinanzi, s’accorse molto bene che questa era una de le cortesie d’Ariabarzane, e deliberò con quel medesimo modo vincerlo ch’egli si sforzava vincer lui, e ferrato che fu il cavallo ne fece dono al senescalco. E cosí il re volle piú tosto perder il piacer de la caccia, ch’esser da un suo servidor vinto di cortesia, avendo riguardo a la grandezza de l’animo di quello, che seco pareva che volesse in fatti gloriosi e liberali contendere. Non parve al senescalco esser convenevol di rifiutar il dono del suo signore, ma quello accettò con quella altezza d’animo ch’egli il suo aveva fatto sferrare, aspettando tuttavia occasione di vincer il suo padrone di cortesia ed ubligarselo. Né guari dopo questo stettero, che arrivarono molti di quelli che dietro venivano, ed il re, preso un cavallo d’un de’ suoi, a la cittá se ne ritornò con tutta la compagnia. Indi a pochi dí, il re fece bandir una solenne e pomposa giostra per il giorno di calende di maggio. Il premio che al vincitore si darebbe era uno animoso e generosissimo corsiero, con la briglia che il freno avea di fino oro riccamente lavorata, con una sella di grandissimo prezzo, li cui fornimenti al freno e a la sella non erano punto diseguali, e le redine erano due catene d’oro molto artificiosamente fatte. Copriva poi il cavallo una coperta di broccato d’oro riccio sovra riccio, che a torno a torno aveva un bellissimo fregio di ricamo, a cui pendevano sonagli, nespole e campanelle d’oro; pendeva a l’arcione uno stocco finissimo con la guaina tutta tempestata di perle e pietre preciose, di grandissima valuta, e da l’altro canto si vedeva attaccata una bellissima e forte mazza, lavorata a la damaschina molto maestrevolmente. Erano altresí appresso al cavallo in forma di trofeo poste tutte l’arme che a uno combattente cavaliere convengano, cosí ricche e belle, che nulla piú. Lo scudo era meraviglioso e forte, che insieme con una dorata e vaga lancia vedere si poteva quel dí che la giostra si farebbe. E tutte queste cose devevano darsi al vincitore de la giostra. Convennero adunque molti stranieri a cosí solenne festa, chi per giostrare e chi per vedere la pomposa solennitá de la giostra. De li soggietti del re non restò né cavaliere né barone, che riccamente vestito non comparisse; e tra li primi che il nome loro diedero fu, il primo genito del re, giovine molto valoroso e nel mestier de l’armi di grandissima stima, che da fanciullo s’era in campo allevato e cresciuto. Il senescalco anco egli il nome suo diede. Il che fecero anco altri cavalieri, cosí persiani come stranieri, perciò che la festa era bandita generale, con salvocondutto a tutti i forastieri che venire o giostrar vi voleano, pur che fossero nobili e non altrimenti. Aveva il re eletto tre baroni vecchi per giudici de le botte, li quali nel suo tempo erano stati prodi de la persona, e in molte imprese essercitati, e uomini intieri e di saldo giudicio. Questi avevano il loro tribunale al mezzo de la giostra proprio per iscontro ove il piú de le volte i giostranti si solevano incontrare e far e colpi loro. Devete pensare che tutte le donne e figliuole del paese ci erano concorse, e tanta gente ragunata quanta cosí fatta festa meritava. E forse che cavaliero alcuno non giostrava, che la sua innamorata quivi non avesse, tenendo ciascuno di loro qualche dono de le lor donne, come in simili giostre è costume di farsi. Il giorno e l’ora deputata comparsero tutti i giostranti con grandissima pompa di ricchissime sopraveste cosí su l’armi come sopra i corsieri. Cominciata la giostra, ed essendosi giá rotte di molte lancie e fatti di bei colpi da molti, era general giudicio che il senescalco Ariabarzane sarebbe stato quello che averebbe portatone il premio, e se egli non ci fosse stato, che il figliuolo del re andava a lunghi passi innanzi a tutti gli altri, perciò che nessuno de li giostranti passava cinque botte, salvo il figliuolo del re, che ne aveva nove. Il senescalco mostrava undeci lancie rotte vigorosamente ed onoratamente, ed una sola botta che ancor facesse li dava il gioco vinto, ché dodici botte erano quel giorno a li giostranti per guadagnar il premio ordinate, e chi prima le faceva senza impedimento alcuno il premio ne portava. Il re, per dir il vero, quanto piacere aver poteva, era che quel dí l’onore fosse del figliuolo; ma egli vi vedeva mal il modo, perché chiaramente conosceva il senescalco aver troppo vantaggio, e pure come prudente il tutto in viso dissimulava. Da l’altra parte, il giovine figliuolo che dinanzi a la sua innamorata giostrava, si sentiva di doglia morire, veggiendosi fuor di speranza del primo onore, in modo che il padre ed il figliuolo uno medesimo disio ardeva. Ma la vertú e valore del senescalco e l’esser egli cosí propinquo al termine, ogni lor speranza, se ve n’era, in tutto troncava. Ora devendo il senescalco correr l’ultima lancia, ed essendo quel dí suso il buon corsiero che il re a la caccia gli aveva donato, e sapendo chiaramente che esso re era d’ardentissimo disio acceso che il figliuolo fosse vittorioso, e conoscendo altresí del giovine l’animo, che per l’onore e per la presenza de l’amata donna tutto di simil voglia ardeva, deliberò di tanto onore spogliarsi, e quello al figliuolo del suo re lasciare. Egli sapeva molto bene che queste sue cortesie non piacevano al re; nondimeno egli era pur disposto perseverando vincer la sua openione, non perché piú roba volesse che il re li donasse, ma solamente per onorarsi ed acquistar fama. E pareva al senescalco che il re li fosse ingrato, non volendo pigliar a grado questi atti generosi che egli usava. Ora avendo a tutti i modi proposto di far di sorte che l’onore restasse al figliuolo del re, posta la lancia in resta, come fu vicino ad incontrarlo, perciò che egli era che incontro gli veniva, si lasciò cascar la lancia di mano, e disse: – Vada questa mia cortesia a par de l’altre, ben che non sia apprezzata. – Il figliuolo del re toccò gentilmente lo scudo del senescalco, e rompendo in mille tronchi la sua lancia fece la decima botta. Molti udirono le parole del senescalco che egli nel gittar in terra la lancia disse, e tutti i circostanti generalmente s’avviddero che egli non aveva voluto colpire per non far l’ultima botta, a ciò che il figliuolo del re avesse l’onore de la giostra, che tanto disiava, onde se ne uscí de la lizza. Ed il giovine, fatte senza troppa fatica le due ultime botte, del premio e de l’onore rimase padrone. E cosí a suono di mille stormenti musici, con il premio de la giostra che dinanzi se li conduceva, fu per tutta la cittá pomposamente accompagnato, e tra gli altri il senescalco sempre con allegro viso lodando il valore del giovine l’accompagnò. Il re, che sagacissimo uomo era, e piú e piú volte giá del valore del suo senescalco in altri torniamenti, giostre, bagordi e battaglie aveva fatto esperienza, e sempre trovatolo prudente, avveduto e prode molto de la persona, conobbe troppo bene che il cader de la lancia non era stato fortunevole ma fatto per elezione, e riconfermò l’openione che aveva de la grandezza de l’animo e de la liberalitá del suo senescalco. E nel vero grandissima fu la cortesia di Ariabarzane senescalco, in modo che pochissimi, credo, si trovarebbero che volessero imitarlo. Veggiamo tutto il dí molti de li beni de la fortuna esser liberali donatori, e larghissimamente ora vesti, ora argento e oro, ora gemme e altre cose assai di valuta donare a questi e a quelli. Si vedeno li gran signori non solamente di queste cosí fatte cose esser a’ suoi servidori larghi e cortesi, ma anco castella, terre e cittá magnificamente donare. Che diremo di quelli che del proprio sangue e de la vita istessa molte fiate sono per altrui servirne prodighi? Di cotesti e simili essempi pieni ne sono tutti i libri de l’una e l’altra lingua; ma chi la gloria sprezzi e sia del proprio onor liberale, ancora non si trova. Il vittorioso capitano dopo il sanguinolento conflitto a’ suoi commilitoni le spoglie de li nemici dona, li dá prigioni, e di tutta la preda li fa partecipi; ma la gloria e l’onore de la battaglia per sé riserba. E, come divinamente scrive il vero padre de la romana eloquenza, quelli filosofi che del deversi sprezzare la gloria scrissero, con gli scritti libri la gloria ricercarono. Ora il re, a cui queste grandezze e cortesie del senescalco non piacevano, anzi erano a noia, perciò che giudicava non convenirsi né essere punto condecevole che uno suddito e servitore si volesse non solamente agguagliare al suo signore, ma quello con opere cortesi e liberali obligare, cominciò, come si suol dire, darli de l’ala, né li fare quel buon viso che soleva. E a la fine deliberò farli conoscere che egli viveva in grandissimo errore, se si persuadeva rendersi il suo padrone ubligato; e udite come. Era antico ed approvato costume in Persia, che li regi ogni anno, il giorno anniversario de la loro coronazione solennizzassero con gran festa e pompa; nel qual dí tutti i baroni del regno erano ubligati ritrovarsi a corte, ove il re per otto giorni continui con sontuosissimi conviti ed altre sorti di feste teneva corte bandita. Venuto adunque il giorno anniversario de la coronazione di Artaserse, ed essendo tutte le cose secondo gli ordini loro messe in assetto, volendo il re fare quanto ne l’animo caduto gli era, impose a uno de li suoi fidati camarieri, che subito se n’andasse a trovare Ariabarzane e sí li dicesse: – Ariabarzane, il re ti comanda che adesso adesso il corsiero bianco, la mazza d’oro e gli altri arnesi de la senescalcaria tu istesso porti a Dario tuo nemico, e per parte del re li dirai che egli è creato senescalco generale. – Andò il camariero, e fece quanto dal re gli era stato imposto. Ariabarzane, udendo questa fiera ambasciata, fu per morire di doglia, e tanto piú di dolor sentiva, quanto che Dario era il maggior nemico che egli avesse al mondo. Nondimeno, come colui ch’era di grand’animo, non sostenne in modo alcuno di mostrar la grandezza che di dentro aveva, ma con buon viso disse al camariero: – Ciò che piace al mio signor sia fatto; ecco che di presente vado a metter ad essecuzione quanto mi comanda. – E cosí alora diligentissimamente fece. E come venne l’ora del desinare, Dario serví di senescalco. Ed assiso che fu il re a tavola, Ariabarzane allegro in vista con gli altri baroni si pose a mensa. La meraviglia di ciascuno fu grandissima; e tra’ baroni, chi lodava il re e chi nel segreto lo chiamava ingrato, sí come è costume de’ cortegiani. Il re teneva tuttavia gli occhi addosso ad Ariabarzane, meravigliandosi pur assai che in sembianza si dimostrasse sí lieto, ed in effetto lo giudicava uomo d’animo generosissimo. E per venir al disegno che fatto giá aveva, incominciò con agri motti a mostrar a tutti i suoi baroni una cattiva contentezza ch’aveva d’Ariabarzane. Da l’altra parte, subornò alcuni che spiassero con diligenza ciò ch’egli diceva e operava. Ariabarzane, udendo le parole del suo signore, e stimolato dagli adulatori che a questo erano stati ammaestrati, poi che pur vide non li valer la pazienza che mostrava, né giovarli la modestia che nel parlare aveva usato, e rammentandosi de la lunga e fedel servitú che fatta al suo re aveva, de’ sofferti danni, de’ perigli de la vita ove per lui posto s’era tante fiate, de l’usate cortesie e d’altre cose assai che fatte aveva, lasciatosi vincer da lo sdegno, perse il freno de la sua pazienza e si lasciò trasportare da la grandezza de l’animo suo, parendoli che invece di dever ricever onore gli fosse biasimato e in luogo di meritar guiderdone gli era il suo ufficio levato, trascorse con agre rampogne a lamentarsi del re e a chiamarlo ingrato, cosa appo i persiani stimata come un delitto de l’offesa maiestá. Volentieri si sarebbe partito da la corte e ridutto a le sue castella; ma questo non gli era lecito senza saputa e congedo del re, e a lui di chieder la licenza non sofferiva il core. Al re da l’altro canto era il tutto apportato che Ariabarzane faceva, e quanto parlava; il perché fattoselo un giorno chiamare, come egli fu dinanzi al re, cosí Artaserse gli disse: – Ariabarzane, i tuoi lamenti sparsi, le tue amare querele or quinci or quindi volate, ed il tuo continuo rammarico, per le molte finestre del mio palazzo a l’orecchie mie sono penetrate e m’hanno fatto intender cosa di te ch’io con difficultá ho creduto. Vorrei mo’ saper da te ciò ch’a lamentarti t’ha indutto, che sai che in Persia il querelarsi del suo re, e massimamente il chiamarlo ingrato, non è minor fallo che biasimar i dèi immortali, perché gli antichi statuti hanno ordinato che i regi a par degli dèi siano riveriti; poi tra i peccati che le nostre leggi acerbamente puniscano, il peccato de l’ingratitudine è pur quello che acerbissimamente è vendicato. Or via, dimmi, in che cosa sei da me offeso? ché ancora ch’io sia re, non debbo senza ragione ad alcuno far offesa, perciò che non re, come sono, ma tiranno, ch’esser mai non voglio, sarei meritevolmente chiamato. – Ariabarzane, ch’era pieno di mal talento, seguendo pur tuttavia la grandezza de l’animo suo, tutto ciò che in diversi luoghi detto aveva molto del re querelandosi, disse. A cui il re cosí rispose: – Sai tu, Ariabarzane, la cagione che m’ha ragionevolmente mosso a levarti il grado de l’ufficio del senescalco? perciò che tu a me volevi levar il mio. A me appartiene in tutte l’opere mie esser liberale, cortese, magnifico, usar cortesia a ciascuna persona, ed ubligarmi i miei servidori dando lor del mio, e rimeritarli non puntalmente a la bilancia de l’opere da loro a mio servigio e profitto fatte, ma sempre donarli di piú di ciò ch’essi hanno meritato. Io non debbo mai ne l’opere virtuose di liberalitá tener chiuse le mani, né mai mostrarmi stracco di donar a’ miei ed agli stranieri secondo che l’opera ricerca, ché questo è proprio ufficio d’ogni re, e mio particolare. Ma tu che servo mio sei, con simil stile in mille modi cerchi con le tue opere di cortesia, non di servirmi e far ciò che tu dei in ver di me che tuo signor sono, ma t’affatichi di voler con l’opere tue a te di nodo indissolubil legarmi e far ch’io ti resti per sempre ubligatissimo. Il perché dimmi: qual guiderdone ti potrei io rendere, qual dono donare, qual mai premio dare ch’io poi liberal nomato ne fussi, se tu prima con le tue cortesie a te ubligato m’avessi? Gli alti e magnanimi signori alora cominciano ad amar un servidore, quando gli donano e quando li essaltano, avendo sempre rispetto che il dono avanzi il merito, ché altrimenti né liberalitá saria né cortesia. Il vincitor del mondo, il magno Alessandro, presa una cittá ricchissima e potente che da molti suoi baroni era desiderata d’averla, e a lui era stata richiesta da quelli stessi che in acquistarla s’erano ne l’armi onoratamente affaticati e v’avevano il proprio sangue sparso, non volle a quelli darla che per i lor meriti n’erano degni, ma chiamato un pover uomo che quivi a caso si trovò, a lui la diede, a ciò che l’usata munificenza e liberalitá in cosí vile ed abietta persona ricevesse maggior luce e piú chiaro nome. Ché in simil uomo il conferito beneficio non si può dir che da ubligazione alcuna proceda, ma chiaro si vede ch’è mera liberalitá, mera cortesia, mera magnificenza e mera generositá, che da altiero e magnanimo cor procede. Né per questo dico che non si debbia guiderdonar il fedel servidore, ché tuttavia si deve, ma voglio inferire che il premio sempre ecceda il merito di colui che serve. Ora a te dico che, meritando tu ogni dí tanto quanto meriti, e di continuo cercando infinitamente d’ubligarmi con le tue larghe cortesie come fai, impotente mi rendi a sodisfarti, di modo che tu tronchi la strada a la mia liberalitá. Non vedi ch’io sono da te prevenuto ed occupato nel mezzo del viaggio mio consueto, il quale è di rendermi i miei servidori amorevoli, grati ed ubligati con li doni, dando loro a la giornata il mio, e se uno per la servitú sua merita un talento, donargliene duo e tre? Non sai che quanto meno da loro s’aspetta il premio, ch’io piú tosto glielo dono e piú volentieri gli essalto e onoro? Attendi dunque, Ariabarzane, per l’avvenire a viver di sorte che tu sia per servo conosciuto, ed io reputato, come sono, signore. Tutti li prencipi, per mio giudicio, due cose ne li loro servidori ricercono, cioè fede e amore, le quali ritrovate piú oltre non curano. Onde chiunque vorrá, come tu fai, meco di cortesia contendere, troverá a la fine ch’io gliene averò poco grado. E di piú ti vo’ dire che, quando io vorrò, mi dá l’animo che togliendo ad un mio servidore de le sue cose e quelle facendo mie, io sarò e da lui e dagli altri che lo saperanno veramente detto cortese e magnanimo. Né questo sará da te negato, anzi volontariamente il confesserai ogni volta che ne l’animo mi caderá di farlo. – Qui si tacque il re, e Ariabarzane molto riverente, ma con grandezza d’animo, in questo modo gli rispose: – Io giá mai non ho cercato, invittissimo re, di voler l’infinita ed incomprensibil vostra cortesia con l’opere mie vincere od aguagliare, ma ben mi sono affaticato di far che voi, anzi che tutto il mondo, chiaramente conoscesse, che nessun’altra cosa tanto desidero quanto la grazia vostra, e cessi Iddio ch’io mai non caschi in tanto errore, ch’io presuma poter contendere con la grandezza vostra. E chi sará che voglia la luce levar al sole? Ben m’è parso e pare che sia debito mio, che non solamente di questi beni de la fortuna io per onor vostro e servigio debbia esser largo donatore, avendoli da voi avuti, ma che anco a profitto de la corona vostra convenga ch’io sia di questa mia vita non solo liberal, ma prodigo. E se v’è parso ch’io abbia cercato di par grandezza d’animo giostrar con voi, devevate pensare che io questo faceva per aver piú compitamente la grazia vostra e a fin che voi di giorno in giorno piú vi piegassi ad amarmi, parendomi che il fin d’ogni servidore sia di cercar con ogni sforzo l’amor e grazia del suo signore. Ora potrò io ben dire, invittissimo re, contra ogni credenza mia, se cosí vorrete confessare, che l’esser stato magnanimo, gentile e cortese meriti biasimo e gastigo e la disgrazia vostra, come in me quel che da voi è stato fatto fa assai chiara fede, quantunque io sia per vivere e morir nel mio, al giudicio mio, onorato e lodevol proposito; ma che togliendomi un mio signor il mio, il cui debito è di darmi de le cose sue, io dica ch’egli sia liberale o cortese, e che questo stia bene, io non dirò giá mai. – Il re, udite queste ultime parole, si levò e disse: – Ariabarzane, non è ora tempo di disputar teco, perciò che la discussione e giudicio di ciò che detto di me e fatto hai, rimetto io al grave consiglio dei miei consiglieri, i quali, quando il tempo sará oportuno, il tutto maturamente giudicheranno secondo le leggi e costumi di Persia. Bastimi per ora questo, che io sono disposto di mostrarti per effetto, che ciò che ora negato hai sará vero, e tu stesso di bocca tua il confesserai. Fra questo mezzo tu n’andarai fuori a le tue castella, né piú a la corte verrai se da me non sarai richiesto. – Avuta Ariabarzane questa ultima voluntá del suo signore, se ne tornò a casa, e vie piú che volentieri se ne andò in contado a le sue castella, lieto di non vedersi tutto il dí innanzi agli occhi de’ suoi nemici, ma pieno di mala contentezza per la remissione che il re diceva di far al suo conseglio de le cose da lui dette. Nondimeno, disposto di sofferir ogni fortuna, s’andava diportando con il piacer e trastullo de la caccia. Aveva egli due figliuole senza piú, che di sua moglie, che morta era, gli erano rimaste, le quali erano stimate bellissime tutte due, ma la prima era senza parangone piú bella de l’altra, ed era di lei d’un anno maggior di etá. Volava la fama de la lor beltá per tutta Persia, e non era in quella cosí gran barone che molto volentieri non si fosse con Ariabarzane imparentato. Era egli giá stato circa quattro mesi a un suo castello che piú degli altri gli piaceva per l’aria che v’era perfetta, e altresí perché v’erano bellissime caccie cosí da cani come da augelli, quando quivi comparse un araldo del re, che gli disse: – Ariabarzane, il re mio signor ti comanda che tu mandi meco a corte quella de le tue figliuole che è piú bella de l’altra. – A questo comandamento Ariabarzane, che non poteva indovinar il voler del re, varie cose per l’animo rivolgeva per questa dimanda, e fermatosi in un pensiero che nel capo gli era caduto, deliberò di mandar la minore, la quale, come giá s’è detto, non era di bellezza a la maggior eguale. Onde fatta questa deliberazione trovò la figliuola e sí le disse: – Figliuola, il mio re m’ha fatto far comandamento che io gli mandi una de le mie figliuole la piú bella, ma per qualche mio conveniente rispetto che ora non accade dirti, io vo’ che tu sia quella che ci vada. Ma avvertisci bene e fermati ne l’animo di non dirgli mai che tu sia la men bella, imperò che il tacere ti recherá profitto grandissimo, e il manifestarti a me sarebbe di danno irreparabile e forse causa di levarmi la vita. Ben è vero che, come sentirai che tu sia gravida, tu non dirai parola a persona, né segno alcuno farai di gravidezza, e come sarai ben certificata d’esser gravida e vederai di modo crescer il ventre che piú non si possa celare, alora con quel modo che piú ti parrá convenevole farai intender al re che la tua sorella è molto piú bella di te, e che tu sei la minore. – La giovane che intendente e avveduta era, udita la voluntá del padre e capace fatta del dissegno di lui, promise di far quanto le era imposto. E cosí, insieme con l’araldo, con onorevol compagnia fu condutta in corte. Fu facil cosa ad ingannar il re e gli altri, perciò che, ancor che la maggior fosse piú bella, non v’era però tanta diseguaglianza, che quando la minor era senza il parangon de l’altra, che ella a tutti non paresse bellissima; ed erano poi de le fattezze tanto simili, che di leggero chi non era piú che pratico con loro non si sarebbe avveduto qual fosse la maggiore. Avevale poi Ariabarzane tenute di modo che di rado si potevano vedere. Era al re morta la moglie giá qualch’anno avanti, il perché deliberò di prender per moglie la figliuola d’Ariabarzane, la quale, ancor che non fosse di sangue reale, era nondimeno nobilissima. Onde veduta che l’ebbe, e giudicatola vie piú bella di quel che aveva per fama inteso, a la presenza dei suoi baroni quella solennemente sposò, e mandò a dire ad Ariabarzane che li mandasse la dote de la figliuola che egli aveva sposata. Ariabarzane, avuta questa nuova, lietissimo di tal successo, mandò a la figliuola quella dote che giá si sapeva che egli aveva divolgato di dare cosí a l’una come a l’altra. Vi furono molti in corte che assai si meravigliarono che, essendo giá il re in etá, avesse una fanciulla presa per moglie, e massimamente figliuola d’un suo vassallo che egli di corte bandito aveva. Altri il lodarono, come sono diversi i costumi de’ cortegiani. Non vi fu però nessuno di loro che a la cagion s’apponesse che moveva il re a far questo parentado, il qual fatto aveva per far confessare ad Ariabarzane che egli togliendo de le cose sue si deveva chiamar umano e cortese. Ora fatte le nozze, che sontuose si fecero, mandò Ariabarzane al re un’altra dote come era stata la prima, dicendo che, se bene egli aveva statuito la dote a le figliuole, che fatto l’aveva pensando di maritarle a suoi eguali, ma veggendo che egli, il quale deve esser fuor d’ogni eccezione, giá era divenuto marito d’una, che gli pareva convenevol dargli piú dote che a chiunque altro che gli fosse diventato genero. Ma il re non volle questo accrescimento di dote, e tenevasi molto ben pagato de la beltá e maniere de la nuova sposa, e quella teneva ed onorava come reina. Fra questo mezzo ella ingravidò d’un figliuol maschio, come poi nel partorire apparve, onde avvedutasi de la gravidezza, quanto puoté meglio la celò. Ma veggendo poi per il crescer che il ventre faceva, che piú la gravidezza sua nasconder non si poteva, essendo seco il re e molto domesticamente con lei scherzando, ella che accortissima era e sagace, lo messe in varii ragionamenti, tra i quali le parve poter assai comodamente il fatto suo scoprire, di modo che venuto a proposito gli dichiarò come ella non era piú bella de la sorella. Il re, udito questo, si sdegnò forte che Ariabarzane non avesse ubidito al comandamento suo; e quantunque amasse molto la moglie, tuttavia per venir al suo dissegno chiamò l’araldo che a richieder la moglie aveva prima mandato, ed insieme con lui quella al padre rimandò, e sí gli fece dire: – Ariabarzane, poi che avvisto ti sei che l’umanitá del nostro re t’ha superato e vinto, hai voluto in luogo di cortesia con quello usar malignitá e disubidienza, e de le figliuole tue, non quella che io in nome suo ti richiesi, ma quella che ti parve, mandarli: cosa in vero degna d’acerbissimo castigo. Il perché egli del fatto non mezzanamente adirato, a casa te la rimanda, e vuole che la primiera per me se gli meni, e medesimamente la dote che gli desti intieramente t’ho recata; ecco il tutto. – Ariabarzane e la figliuola e la dote con buonissimo viso accettò, e a l’araldo cosí disse: – L’altra figliuola mia che il re mio signor ricerca, teco non poss’io ora mandare, perciò che ella è gravemente nel letto inferma, come tu potrai vedere venendo meco a la sua camera; ma io t’impegno la fede mia, che subito che sia guarita io la manderò a corte. – L’araldo, veduta la giovane che nel letto inferma giaceva, se ne tornò al re e il tutto gli disse; il qual sodisfatto restando, aspettava di questa cosa il fine. Ora non si sanando cosí tosto la giovane ammalata, il tempo venne del partorir de l’altra, la quale partorí un bel fanciullino con sanitá di tutte due le parti. Il che ad Ariabarzane fu di grandissima contentezza e d’infinito piacere, e vie piú il tutto s’accrebbe, che in pochi giorni il nasciuto bambino parve ne le sue fattezze al re suo padre tanto simile, che piú non potrebbe essere stato. Levatasi che fu la giovane di parto, giá la sorella sendo guarita e come prima bella divenuta, Ariabarzane tutte due riccamente vestite mandò al re con onorata compagnia, avendole prima ammaestrate di quanto dire e far devevano. Giunte che furono a la corte, uno di quelli d’Ariabarzane cosí al re disse: – Alto signore, eccovi non una sola figliuola ch’Ariabarzane vostro servo vi manda, ma tutte due, che sono quante egli ne ha. – Udita il re e veduta la liberal cortesia d’Ariabarzane, il tutto accettò, e disse fra sé: – Io mi delibero di far ch’Ariabarzane con sommissima contentezza d’animo resti da me vinto. – E prima che il messo che le giovinette aveva condutte si partisse, mandò a dimandar un suo figliuolo, che Cirro si chiamava, e sí gli disse: – Figliuolo, io vo’ che tu questa fanciulla sorella di mia moglie, la qual, come vedi, è bellissima, sposi per tua. – Il che il giovine fece molto volentieri. Da l’altra parte il re, ripresa la sua, cominciò una solenne festa, e volle che le nozze del figliuolo fossero celebrate con grandissimi trionfi e feste, e che durassero otto giorni. Avuta Ariabarzane questa buona nuova, né ancor chiamatosi vinto, e parendogli che il suo avviso gli riuscisse a pennello, deliberò mandar il figliuolino poco innanzi nasciuto al re, il quale, com’è detto, lo simigliava come mosca a mosca. Fece adunque far una culla d’avorio bellissima, tutta contrapassata di fin oro, ornata di preziosissime gemme; poi fattovi dentro porre il fanciullo in finissimi drappi di seta e di broccato d’oro, quello con la sua nutrice pomposamente accompagnato fece condurre al re in quel tempo che le solennissime nozze si celebravano. Era esso re in una ornatissima sala in compagnia di molti dei suoi baroni. Ove giunto colui che il carico aveva di presentar il fanciulletto al re, fece la culla innanzi a lui deporre ed inginocchiossi innanzi a quello. Il re e tutti i baroni di questa cosa meravigliati, attendevano ciò che il messo voleva dire. Il quale, tenendo la culla, disse: – Invittissimo re, io da parte d’Ariabarzane mio padrone e vostro vassallo inchinevolmente vi bascio le real mani, e, fatta la debita riverenza v’appresento questo dono. Ariabarzane infinitamente l’altezza vostra ringrazia di tanta umanitá, quanta con lui v’è piaciuto d’usare, degnandovi far seco parentado. Il perché non volendo a tanta cortesia esser ingrato, questo dono – e quivi discoperse la culla – per me vi manda. – Scoperta la culla, apparve il bellissimo figliuolino che era a veder la piú vezzosa cosa del mondo, e tanto si vedeva simil al re, come la mezza luna a l’altra metá appare. Alora ciascheduno, senz’altra cosa udire, disse: – Veramente questo figliuolo, sacro re, è vostro. – Il re non si saziava di mirarlo, e tanto era il piacer che da la vista di quello pigliava, che nulla diceva. Il fanciullo, facendo tali suoi movimenti vezzosi e con le pargolette mani scherzando, spesso al padre con soavissimi risi si avvolgeva. Il quale, poi che buona pezza intentamente l’ebbe rimirato, volle dal messo saper che cosa ciò fosse. Quivi il messo il tutto puntalmente al re disse. Udita egli questa istoria, e fatta chiamar la reina, e da quella altresí del tutto certificato, mostrò meravigliosa contentezza, e molto allegramente accettò il picciol figliuolo, e quasi fu per chiamarsi vinto. Tuttavia, parendogli d’esser giá tanto innanzi passato, che il ritrarne il piede sarebbe stato vergogna e biasimo, deliberò ancora usar con Ariabarzane una cortese magnanimitá, col cui mezzo od in tutto lo vincesse od avesse apparente ragione di venir seco a mortal nemicizia. Aveva il re una figliuola d’etá d’anni venti in vent’uno, molto bella e gentile, come quella che regalmente era allevata e nodrita, la quale ancor non aveva egli maritata, serbandola per far con qualche re o grandissimo prencipe parentado, ed era la sua dote il valor di mille pesi di finissim’oro, con rendita d’alcune castella, senza le preciosissime vesti ed infiniti gioielli che la reina sua madre, morendo, lasciate le aveva. Deliberando adunque il re superar Ariabarzane, fece pensiero col mezzo di questa figliuola farselo genero. Vero è che ad inchinarsi a questo li pareva non poco abbassarsi, perciò che grave incarco è a donna d’alto legnaggio prender per marito uomo d’inferior sangue. Il che a l’uomo non avviene, ché essendo nobilissimo, ancora che pigli per moglie donna di piú basso sangue di lui, egli per questo non casca di grado. Ché se l’uomo è di generosa e di nobilissima schiatta, egli nobilita e innalza la donna che prende a la grandezza di sé, ancor ch’ella fosse di mezzo la vil plebe pigliata, ed i figliuoli che nasceranno tutti saranno nobili a par del padre. Ma una donna, ancor che nobilissima, se ad un inferior di sé si marita e non sia il marito nobile, i figliuoli che nasceranno non a la stirpe de la madre, ma a quella del padre ritrarranno e resteranno ignobili, tanta è del sesso virile la riverenza e l’autoritá. Onde dicono molti savii che l’uomo si parangona al sole e la donna a la luna. Veggiamo bene che la luna per sé non luce, né potrebbe alcuno splendore o lume a le notturne tenebre dare, se dal sole non fosse illuminata, il quale con le sue vive fiamme a tempi e luoghi alluma le stelle e rischiara la luna: cosí avviene che la donna depende da l’uomo e da lui prende la sua nobiltá. Dico adunque che al re pareva di far male a dar la figliuola ad Ariabarzane, e temeva di non riportarne biasimo e riprensione. Ma ogni rispetto ed ogni tema di vergogna vinse e superò l’emulazione di volere in questo cortese contrasto restar vittorioso. Il perché mandò ad Ariabarzane che se ne venisse a la corte. Egli, avuto il comandamento del re, vi venne e smontò al suo palazzo che ne la cittá aveva; poi subito andò a far riverenza al suo signore, dal quale fu con assai allegra accoglienza raccolto. Né guari dopo stette che il re gli disse: – Ariabarzane, poi che tu sei senza moglie, noi vogliamo dartene una quale a noi piacerá, ma tale che tu te ne deverai benissimo contentare. – Rispose Ariabarzane che tanto era per fare quanto egli volesse. Fece alora il re venir la sua figliuola pomposamente vestita, ed ivi a la presenza di tutta la corte volle che Ariabarzane la sposasse. Il che con le convenevoli ceremonie fatto, Ariabarzane dimostrò poca allegrezza di questo parentado e fece in apparenza molte poche carezze a la sposa. Tutti i baroni e gentiluomini che in corte erano molto restarono stupidi, veggendo tanta umanitá del lor re che un suo vassallo s’avesse preso per suocero e genero; da l’altra parte veggendo la ruvidezza d’Ariabarzane, senza fine lo biasimavano. Stette tutto quel giorno Ariabarzane fuor di sé, e mentre che tutta la corte era in gioia ed altro non si faceva che danzare, e il re istesso menava gran festa per le nozze de la figliuola, egli sempre ai pensier suoi attese. La sera, dopo la sontuosissima cena, fece il re con solennissima pompa accompagnar la figliuola a l’albergo d’Ariabarzane e seco portar la ricchissima dote. Raccolse egli la moglie molto onoratamente ed in quell’ora medesima, a la presenza di tutti quei baroni e signori che accompagnata l’avevano, le fece altra tanta dote quant’era quella che recata aveva, e i mille pesi d’oro che per la dote gli erano dal re dati, al re rimandò. Questa cosí fatta liberalitá fu al re di tanta estrema meraviglia e tutto insieme di cosí fiero sdegno cagione, che in dubio era se deveva cedergli o condannarlo a perpetuo essilio. Pareva al re che la grandezza de l’animo d’Ariabarzane fosse invincibile, e non poteva con pazienza soffrire che un suo vassallo si volesse al suo re in cose di cortesia e liberalitá agguagliare. Si mostrò adunque fieramente sdegnato, tuttavia fra sé pensando quel che in questo caso devesse fare. Fu assai legger cosa ad avvedersi del corruccio e mal talento del re, imperò che egli, in vista turbato, a nessuno mostrava buon viso. E perché in Persia a quei tempi erano i regi a par dei loro dèi onorati e riveriti, era tra loro una legge, ch’ogni fiata che il re fuor di misura s’adirava, deveva la cagione de la sua ira ai suoi consiglieri manifestare, i quali poi con matura diligenza il tutto essaminavano, e ritrovando il re ingiustamente adirato, quello a rappacificarsi astrignevano. Ma ritrovando con veritá che egli giusta cagione avuta avesse di sdegnarsi e di montar in còlera, il causatore de lo sdegno, secondo la qualitá del diffetto, o piú o meno punivano, ora con essilio ora con pena capitale. Il giudicio di questi tali era senza appellazione alcuna accettato. Ben poteva il re, pronunziata la sentenza, od in tutto od in parte diminuir la pena ed assolver il reo. Onde chiaramente si comprendeva che la sentenza dai consiglieri pronunziata era pura giustizia, e la voluntá del re, se alcuno assolveva, era grazia e misericordia. Fu adunque astretto il re, per gli statuti del regno, nel suo conseglio la cagione de la sua mala contentezza dire. Il che puntalmente egli fece. I consiglieri, poi ch’ebbero le ragioni del re udite, mandarono per Ariabarzane, dal quale con maturo essamine volsero intender perché egli la tale e la tal cosa avesse fatto. Cominciarono dopoi li signori consiglieri sovra la proposta questione a disputare, ed insieme contrastando nel ricercar la veritá de la cosa, insomma dopo una lunga contesa fu da lor giudicato che Ariabarzane ne perdesse il capo, sí perché s’era voluto agguagliar al re, anzi avanzarlo, ed altresí perché non aveva mostrato allegrezza d’aver preso per moglie una figliuola del suo re, né rese a quello le debite grazie di tanta cortesia. Era appo i persiani per fermo tenuto che in qualunque atto od operazione che si sia, ogni volta che il servo cerca d’avanzare e di superar il suo signore, quantunque l’opera sia lodevole e degna, avendo riguardo al disprezzo che egli ha a la regia maiestá, che ne deve essere decapitato, perché troppo altamente offende il suo padrone. E per meglio confermar questa lor sentenza dicevano essi signori consiglieri esser altre volte dai regi persiani tal diffinizione stata essequita e registrata nei loro annali. Il caso era tale. Era ito il re di Persia a diportarsi con molti dei suoi baroni in campagna, ed avendo seco i falconi cominciò a farli volar dietro a varii augelli. Non dopo molto ritrovarono un aerone. Comandò il re ch’uno dei falconi che era tenuto per il meglior che ci fosse, perché era di gran lena e saliva fin a le stelle, fusse lasciato dietro a l’aerone. Il che fatto, l’aerone cominciò ad alzarsi ed il falcone a seguitarlo gagliardamente. Ed ecco in quel che il falcone dopo molti contrasti voleva gremir e legare, come dicano, l’aerone, che un’aquila comparve. L’animoso falcone, veduta l’aquila, non degnò piú di combatter il timido aerone, ma con rapido volo verso l’aquila si rivolse e quella cominciò fieramente ad incalciare. Si diffendeva l’aquila molto animosamente, ed il falcone d’atterrarla si sforzava. A la fine il buon falcone con i suoi fieri artigli quella nel collo afferrò e dal busto gli spiccò la testa, onde in terra, in mezzo a la compagnia che con il re era, cadde. Tutti li baroni e gentiluomini che col re erano lodarono questo atto infinitamente, e tennero il falcone per uno dei migliori del mondo, dandogli quelle lodi che a cosí magnanimo atto pareva loro che convenisse, di modo che non v’era persona che il falcone sommamente non commendasse. Il re, per cosa che nessuno dei baroni od altri dicesse, mai non disse parola; ma sovra di sé stando e tuttavia pensando, né lodava il falcone né lo biasimava. Era molto tardi quando il falcone uccise l’aquila, il perché il re comandò che ciascuno a la cittá ritornasse. Il dí seguente il re fece da un orefice far una bellissima corona d’oro, di tal forma che in capo al falcone si potesse porre. Quando poi gli parve il tempo convenevole, ordinò che sovra la piazza de la cittá fosse elevato un catafalco ornato di panni razzi e d’altri adornamenti, come è di costume simil palchi reali adornarsi. Quivi a suon di trombe fece il falcone condurre, ove per comandamento del re un gran barone gli pose in capo la corona de l’oro, in premio de l’eccellente preda che sovra l’aquila fatta aveva. Da l’altra banda ecco venire il manigoldo, che levata di capo al falcone la corona, quello con la scure gli spiccò dal collo. Restò di questi contrarii effetti ciascuno che a lo spettacolo era molto stupido, e si cominciò da tutti variamente a parlar sovra questo caso. Il re, che ad una de le finestre del palazzo stava il tutto a vedere, fece far silenzio, e tant’alto che dagli spettatori poteva esser udito, cosí disse: – Non sia chi presuma di quanto adesso circa il falcone s’è essequito mormorare, perciò che il tutto ragionevolmente s’è fatto. Io porto ferma openione che ufficio sia d’ogni magnanimo prencipe conoscer la vertú ed il vizio, a ciò che l’opere vertuose e lodevoli possa onorare e i vizii punire; altrimenti non re o prencipe, ma perfido tiranno si deverebbe chiamare. Il perché avendo io nel morto falcone conosciuta una generositá e grandezza d’animo accompagnata da fiera gagliardia, quella con corona di finissim’oro ho voluto onorar e guiderdonare, ché avendo egli cosí animosamente un’aquila uccisa, degno fu che tanta animositá e prodezza fosse premiata; ma considerato poi ch’audacemente, anzi pur con temeritá, la sua reina aveva assalita e morta, convenevol cosa m’è parso che la debita pena di tanta sceleratezza ne ricevesse, ché mai non è lecito al servidore le mani insanguinar nel sangue del suo signore. Avendo adunque il falcone la sua e di tutti gli augelli reina ammazzata, chi sará che ragionevolmente possa biasimarmi, se io il capo gli ho fatto troncare? Veramente, che io mi creda, nessuno. – Questo giudicio allegarono i signori giudici, quando diedero la sentenza ch’Ariabarzane fosse decapitato. E cosí conforme a quello ordinarono che prima Ariabarzane per la sua magnanimitá e liberal cortesia fosse coronato d’una corona d’alloro, a ciò che s’avesse riguardo al generoso animo di quello, ma che avendo egli con tanta emulazione, con tanto studio, con sí assidua industria e con ogni sforzo voluto contender col suo re e di par liberalitá anzi maggior seco giostrare e farseli superiore, e piú di lui farsi liberal e magnanimo conoscere, e di piú avendo egli contra quel mormorato, che per questo gli fosse tagliata la testa. Avvertito Ariabarzane de la severa sua condannazione, con quella grandezza d’animo questo velenoso stral di fortuna sostenne, che gli altri colpi di contraria e nemica fortuna aveva sopportati, e di maniera si diportava e conteneva, che segno in lui di malinconia o di disperazione non si vide. Solamente con allegro viso a la presenza di molti disse: – Questo solo ultimamente mi restava, che io al mio signore de la vita e proprio sangue liberal divenissi. Il che farò molto volentieri e di modo che il mondo conoscerá che prima posso morire che mancar de la mia solita liberalitá. – Fattosi dunque chiamar il notaio, fece il suo testamento, ché cosí permettevano le leggi di Persia, e a la moglie e a le figliuole accresciute le doti, e a’ suoi parenti ed amici lasciato quel che conveniente gli parve, al re lasciò gran somma di gioielli preciosissimi; a Cirro, figliuolo del re e suo genero, oltre buona quantitá di danari, legò tutte le sue armi cosí da offesa come da diffesa, con tutti gli stromenti bellici e quanti cavalli aveva. Ultimamente ordinò che, se la moglie che poteva esser gravida partoriva un maschio, il figliuolo che nascerebbe fosse suo erede universale; se femina partorisse, che fosse a par de l’altre due figliuole dotata, e il rimanente fra lor tre sorelle si dividesse con ugual parte. Provide anco che tutti i suoi servidori fossero secondo il grado loro guiderdonati. Il che, il giorno innanzi ch’egli devesse essere ucciso, publicato, secondo il costume di Persia, fu generalmente da tutti giudicato che il piú liberal uomo e magnanimo mai non era stato in quel paese, né forse nei circonvicini. E se non erano alcuni invidiosi che appo il re sempre avevano cercato di rovinarlo, tutti gli altri mostravano gran dispiacere che egli a tal modo devesse morire. Ora non era a chiunque si fosse lecito, quando simil giudicii si facevano, supplicar il re per la vita del condannato. Il perché, la moglie e le figliuole di Ariabarzane con li parenti ed amici vivevano in grandissimo cordoglio, ed altro, giorno e notte, non facevano che piagnere. Venuto l’ottavo giorno, ché tanto spazio di tempo ha il condannato a disporre le cose sue, fu fatto per comandamento del re nel mezzo de la piazza un tribunale coperto tutto di panni neri, e per riscontro a quello un altro che di porpora e di panni di seta si copre, ove il re, se vuole, in mezzo ai giudici sede, e, letto il processo del reo, di bocca sua comanda che la sentenza si essequisca, o, se gli pare, libera ed assolve il condannato. E non volendo il re esser presente al giudicio, il piú vecchio dei giudici, avuta la volontá del re, tosto essequisce il tutto. Il re, a cui nel vero doleva che cosí magnanimo uomo e tanto suo fidato, e suo suocero e genero, avesse cosí orribil fine, volle quella mattina esser presente al tutto, sí per veder la continenza d’Ariabarzane, come anco per trovar via al suo scampo. Fu adunque Ariabarzane dai sargenti de la giustizia condutto sovra il tribunale e quivi pomposamente vestito; poi la corona de l’alloro li fu posta sovra il capo. Né guari cosí stette, che de le ricche vestimenta e de la corona fu dispogliato, e de le sue solite vesti vestito. Stava il manigoldo aspettando l’ultimo comandamento per far l’ultimo suo ufficio, e giá aveva la tagliente spada levata in alto, quando il re fiso guardava nel volto ad Ariabarzane, il quale né piú né meno nel viso era di color cangiato, come se la cosa a lui non appartenesse, e pur poteva ragionevolmente credere che il manigoldo era in ordine per tagliarli la testa. Veggendo il re la fiera constanza e l’animo invitto d’Ariabarzane, ad alta voce che da tutti s’udiva, cosí disse: – Ariabarzane, come tu puoi sapere io non son quello che t’abbia a la morte condannato, ma l’opere tue mal regolate e gli statuti di questo regno t’hanno a questo passo condutto. E perciò che le nostre sante leggi mi danno libertá che io possa ogni reo condannato, come mi pare, od in parte od in tutto assolvere ed a la pristina grazia restituire, se tu vuoi chiamarti vinto e che degni la vita da me in dono prendere, io ti perdonerò la morte e ti restituirò a li tuoi ufficii e dignitá. – Udite queste parole, Ariabarzane ch’in ginocchione col capo chino stava attendendo che il capo gli fosse mozzo, levò la testa e verso il re si rivolse; pensando che a sí duro passo non tanto la malignitá del re, quanto l’altrui invidia e le lingue serpentine de’ suoi nemici l’avevano condutto, deliberò, usando de la pietosa liberalitá e grazia del suo signore col restar in vita, non dar a’ suoi nemici con sí fiera morte contentezza. Onde tutto in atto riverente, con ferma e sonora voce cosí al re disse: – Invittissimo signor mio, da me a par degl’immortali dèi riverito, poi che, la tua mercé, tu vuoi ch’io viva, io da te riverentemente la vita in dono accetto, che quando io credessi restar vivo in disgrazia tua, non l’accettarei, e in tutto vinto mi chiamo. Resterò dunque vivo per serbar la vita che mi dai ad ogni tuo servigio, a ciò che quella a beneficio de la tua sacra corona, come de la tua cortesia in presto presa, ti possa sempre che vorrai restituire. Il che farò io cosí volentieri come ora da buon core da te la prendo. E poi che tanta grazia t’è piaciuto di farmi, quando non ti fosse grave, volentieri qui in publico direi quanto ora mi sovviene. – Il re accennò che si levasse in piedi e che dicesse ciò che gli aggradava. Egli levato suso e ne la turba fatto silenzio, in questo modo a parlar cominciò: – Due cose sono, sacratissimo prencipe, che senza dubio veruno a le mobil onde del mare e a la instabilitá dei venti in tutto rassimigliano, e nondimeno infinita è la schiera degli sciocchi che quelle con ogni cura e diligenza ricercano. Io intendo dire che il piú de le volte cosí è. Dico adunque che queste due cose tanto da ciascuno bramate sono grazia di signore e amor di donna, e queste sí sovente il vero servidor ingannano, che a la fine altro che penitenza egli non ne riporta. E per cominciar dal caso de le donne, le quali, come communemente si dice, il piú de le volte al lor peggior s’appigliano, tu vedrai un giovine bello, nobile, ricco, vertuoso e di molte doti dotato, che prenderá per sua suprema donna una giovane, e quella, con l’istessa fede che a li dèi si deve, servirá e onorerá ed ogni voglia di lei fará sua; nondimeno amando, servendo e pregando, tanto non potrá fare che egli si veggia in grazia de la sua donna, e per il contrario amerá un altro d’ogni vertú privo, e quello di se stessa fará possessore, né guari in questo stará, che cacciato questo piglierá il primo, ma mobile e disdegnosa, quando l’averá a le stelle levato, mossa da naturale instabilitá quello lascierá tornare fin ne l’abisso. E chi di queste varietá a lei dimandasse la ragione, altro non saperebbe ella rispondere, se non che cosí le piace, di modo che rade volte avviene che un vero amante possa fermar il piede, anzi vede la sua vita esser quinci e quindi dal volubil vento donnesco agitata. Vedrai altresí ne le corti dei regi e prencipi uno in favor del suo signore, che parrá proprio che ’l padrone senza lui non sappia far né dir cosa alcuna, e nondimeno quando egli con ogni industria e fatica si sforzerá di mantenere od agumentar la grazia del suo signore, eccoti l’animo del signor cangiato e ad un altro rivolto; e questi che dianzi era il prim’uomo di corte, si trova esser in un momento l’ultimo. Vi sará poi un sollecito diligente ed assiduo al servire, pratico in tutti gli essercizii di corte, e che vie piú le cose del suo signor curerá che la vita propria, ma il tutto fa indarno, perciò che mai non è rimeritato, e servendo senza mai aver premio si vede invecchiare. Vedi un altro dottissimo in qual si voglia scienza, e nondimeno in corte ei muor di fame, ove un altro ignorante e senza vertú è dal suo signore per appetito e non per merito fatto ricchissimo. Ma ciò avviene non perché al signor non piacciono gli scienziati e i vertuosi, che tuttavia si vede che molti ne favorisce ed essalta, ma perché il genio di quello non convien col suo, e, come si dice, i sangui non si confanno insieme. Quante volte avverrá che a caso sará uno da te veduto, che mai piú non vedesti, e nondimeno subito che lo vedi ti dispiace come il morbo e non puoi a modo alcuno soffrir di vederlo, e quanto piú egli cercherá farti servigio e piacere piú ti dispiacerá? Per il contrario poi vedrai uno che piú non l’hai veduto, ed in quella prima vista cosí ti sodisfá, tanto t’aggrada ed in tal modo ti piace, che s’egli ti ricercasse la vita propria tu non saperesti negargliela, e senti un certo non so che, che ti sforza ad amarlo, e se ben egli facesse cosa che contra il tuo voler fosse, il tutto sta bene. Chi di queste varietá mo sia cagione, se non un certo temperamento di sangue tra sé conforme da interna vertú celeste commosso, chi lo sa? È ben vero che ne le cose de le corti si può trovare qualche fondamento di ragione di queste mutazioni, e questo è il pungente e velenoso stimolo de la pestifera invidia, il quale di continuo tien i favori del prencipe su la bilancia, ed in un momento alza chi era basso e abbassa chi in alto si trovava, di maniera che ne le corti non ci è peste piú nociva né piú dannosa del morbo de l’invidia. Tutti gli altri vizii molto agevolmente e con poca fatica in chi gli ha si curano e quasi si pacificano, di modo che non ti offendono; ma l’invidia con che via, con che arte e con qual medicina acqueterai? Veramente senza il proprio tuo danno non so come gli invidiosi acuti morsi potrai giá mai fuggire. Dammi in corte un superbo, gonfio, ambizioso e piú elato d’animo che la superbia istessa; se gli fai riverenza come lo vedi, se l’onori, se gli cedi, se lo levi lodando al cielo ed essalti e seco fai l’umile, subito t’è amico e ti predica per un cortese e gentil cortegiano. Dammi un lascivo e ai piacer de le donne dedito e ch’altro non brami che questo fuggitivo piacere; se non gli impedisci i suoi amori, se non biasimi i suoi piaceri, se innanzi a le donne quel loderai, egli sempre ti sará amico. Dammi un avaro o vero un goloso; se al primo fai bere una medicina di danari e il secondo spesso inviti a mangiar teco, l’uno e l’altro subito è guarito. Or dammi un invidioso; che medicina troverai che possa sí pestifero umor purgare? Se questa tu cerchi sanare, egli ti converrá con la propria vita rimediargli, altrimenti non pensar che rimedio alcuno se gli trovi giá mai. E chi non sa, se uno tòcco da questo pestifero morbo mi vede in corte, sacratissimo re, da te piú che lui favorire, e i servigi miei piú grati a te essere, o che io meglio di lui sappia l’armi essercitare, od in altro conto piú di lui valere, e di queste tal cose m’abbia invidia, chi non sa, dico, che cotestui mai non potrò sanare, s’egli non mi vede de la tua grazia privo, di corte cacciato e in estrema rovina messo? Se io gli donerò tutto ’l dí grandissimi doni, se li farò sempre onore, lodilo quanto sappia e gli faccia ogni servigio, il tutto è buttato via. Mai non cesserá di adoperarsi contra di me fin che non mi veda a l’ultima miseria condutto, ché tutti gli altri rimedii sono scarsi ed invalidi. Questo è quel velenoso morbo che tutte le corti ammorba, a tutte le vertuose operazioni nuoce, e a tutti i gentili spiriti cerca di far offesa. Questo è il tenebroso velo che spesso ad altrui adombra con tanta oscuritá gli occhi, che il vero non gli lascia vedere, e sí offosca il giudicio che malagevolmente discerne il giusto da l’ingiusto, essendo cagione apertissima che mille errori ne l’operazioni umane tutto il dí si fanno. E per dirne quel che al presente al proposito nostro appartiene, non è in somma vizio al mondo che piú le corti guasti, che piú dissolva il vincolo de le sante compagnie, né che piú rovini i signori, come è il veleno de l’invidia, perciò che chi dá orecchia a l’invidioso, chi le sue maligne chimere ascolta, non è possibil che faccia cosa buona. Ma per venir al fin omai del mio ragionare, l’invidioso non tanto del suo bene s’allegra, non tanto dei suoi comodi gioisce, quanto de l’altrui mal di continovo giubila e ride, e del profitto altrui piagne e s’attrista, e per veder cacciar dui occhi di capo al compagno, l’invidioso se ne trarebbe uno dei suoi. Queste parole, invittissimo prencipe, ho io voluto qui a la presenza tua e de li tuoi satrapi e del popolo dire, a ciò che ciascuno intenda che io appo la tua corona, non per malignitá tua o colpa mia, ma per le velenose lingue degli invidiosi era in disgrazia cascato. – Piacque al magnanimo re il verissimo parlar d’Ariabarzane, e quantunque si sentisse da le parole di lui trafitto, nondimeno conoscendole vere, e che per l’avvenire potevano esser a tutti di profitto, molto a la presenza di tutti le commendò. Il perché avendo giá esso Ariabarzane ricevuta in dono la vita dal suo re e chiamatosi vinto, e conoscendo il re il valor di quello e la fede, ed amandolo come in vero l’amava, umanamente facendolo dal nero catafalco discendere e sovra quello ov’egli era salire, quello raccolse e baciò, in segno ch’ogni ingiuria gli era rimessa e perdonata. Volle che tutti gli ufficii che soleva avere gli fossero restituiti, e per farlo maggior di quel che era donògli la cittá di Passagarda ov’era il sepolcro di Cirro, e comandò che fosse in tutti gli stati e dominii suoi suo luogotenente generale, e che ciascuno gli ubidisse come a la persona sua propria. E cosí restò il re onorato suocero ad Ariabarzane ed amorevol genero, e sempre in tutte le azioni sue seco si consegliò, e cosa che fosse d’importanza senza il parer di quello mai non faceva. Ritornato adunque Ariabarzane piú che prima in grazia del suo padrone, e con la propria vertú superati tutti li suoi nemici, e l’arme de l’invidia spezzate e rotte, se per innanzi era stato benigno e liberale, divenne dopo tante sue grandezze molto piú reale, e se giá una cortesia aveva fatta, ora due ne faceva, ma di modo la sua magnanimitá dimostrava e ne l’opere sue magnifiche con tal misura e temperamento procedeva, che tutto il mondo chiaramente discerner poteva che non per contendere col suo signore, ma per onorarlo e per meglio dimostrar la grandezza de la corte del suo re, li beni a lui dal re e da la fortuna dati largamente spendeva e ad altrui donava. Il che fin a l’ultimo suo fine in buona grazia del suo prencipe gloriosamente il mantenne, perciò che il re piú chiaro che il sole conobbe Ariabarzane esser da la natura formato per lucidissimo specchio di cortesia e liberalitá, e che prima si potrebbe levar la caldezza al fuoco e il lume al sole, che levar l’operar magnifico ad Ariabarzane. Onde non cessava tutto il dí piú onorarlo, essaltarlo e farlo piú ricco, a ciò che meglio avesse il modo di donar largamente. E nel vero, ancor che queste due vertú, cortesia e liberalitá, in tutte le persone stiano bene, e senza quelle un uomo non sia veramente uomo, nondimeno assai piú convengono a’ ricchi, a’ prencipi ed a’ gran signori, e in quelli son come in finissimo e ben brunito oro gemme orientali e come in bellissima e gentilissima donna duo begli occhi e due eburne e belle mani, come sono, gentilissima signora, i begli occhi vostri e le mani senza parangone bellissime.
Il Bandello a l’umanissimo signore
il signor Lucio Scipione Attellano
Sono alcune persone le quali meravigliosamente si dilettano di beffar il compagno, e quando segue lor l’effetto d’aver fatta alcuna beffa a chi si sia, se ne gloriano e si tengono da piú e molto avveduti ed accorti. A questi tali poi, se per sorte è reso il contracambio, che siano da altri beffati, avviene come ai buffoni, ai quali piú dispiace una sol volta esser beffati che non si allegrarono di cento truffe per il passato fatte ad altrui. Cosí fanno costoro non potendo sofferire che altri si gabbi di loro, quantunque essi altro mai far non vorrebbero che ingannar questi e quelli. Perciò mi par che molto bene stia se talora è reso lor focaccia per pane, a ciò che, qual asino dá in parete, tal riceva. Questo si vide questi dí passati il giorno che il signor conte Antonio Crivello fece recitar la comedia con l’apparato sí sontuoso, essendo stata fatta una beffa a Calcagnino giocolatore, de la quale egli entrò in tanta còlera, che poco piú che si fosse acceso, io credo che sarebbe morto. E nondimeno, come egli truffa alcuno, tanto ride, tanto proverbia, tanto ne parla, che de le gran risa spesso piagne. E questionando alcuni di questa materia e varie cose allegandosi per vedere se si poteva investigar la cagione di simiglianti nature, né v’essendo alcuno che al vero s’apponesse, e da questo in altri ragionamenti varcando, e de le beffe che sovente gli uomini e le donne usano l’uno a l’altro di fare ragionandosi, messer Ottonello Pasini, uomo dottrinato e piacevol compagno, narrò una novella che a tutti gli ascoltanti piacque assai. Ed avendola io scritta, e sapendo che voi conoscete le persone che ne la novella intervengono, ancor che per convenienti rispetti non siano nomate, ho tra me deliberato di farvene un dono, non mi essendo lecito con altro dimostrarvi quanto io desidero di farvi servigio, sí perché voi meritate per le vostre rare e buone qualitá esser da tutti riverito e onorato, ed anco per i molti piaceri che io da voi ho ricevuti. Vi dico bene che, se il marito de la donna che fu altamente ingannata fosse vivo, che io questa novella non darei fuori, perché potrei esser cagione di gran male, ponendo per ventura l’arme in mano a qualche nostro amico. Mi sará ben caro che ai signori Annibale e Carlo vostri fratelli ne facciate copia, sapendo che molto volentieri questa mia novella leggeranno. La mostrarete anco a le nostre due Muse, la signora Cecilia Gallerana contessa, e la signora Camilla Scarampa, le quali invero sono a questa nostra etá due gran lumi de la lingua italiana. State sano.