I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento/Della chiesa Cattedrale di Benevento/Della forma primitiva e delle successive trasformazioni del tempio

2. Della forma primitiva e delle successive trasformazioni del tempio. Del suo stile.

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2. Della forma primitiva e delle successive trasformazioni del tempio. Del suo stile.
Della chiesa Cattedrale di Benevento - Sunto storico delle sue vicende Della chiesa Cattedrale di Benevento - Delle porte di bronzo
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2. della forma primitiva e delle successive
trasformazioni del tempio. del suo stile.


Sarebbe opera vana voler rintracciare con sicurezza la primitiva forma del tempio, dopo che i tremuoti e le molteplici trasformazioni ne han cancellato ogni vestigio. Forse con una dispendiosa serie di saggi delle murature e delle fondazioni si potrebbe pervenire a qualche risultato approssimativo, ma la soma sarebbe superiore ai miei omeri. Non per tanto vi sarà da dire non poco intorno alle trasformazioni e alla forma probabile del secondo periodo, e meglio intorno alla forma del terzo e del quarto, il quale ultimo precedette poi la forma attuale.

Abbiamo visto che con molta probabilità, se non con sicurezza addirittura, la chiesa basilicale primitiva abbia dovuto [p. 402 modifica]occupare una parte del tempio attuale. Forse essa dovette sorgere in vicinanza dell’attuale Archiepiscopio, dove si sarebbe trovata in maggior sicurezza, dominando la città antica. Colà, come vedemmo, presso all’Arco del Sagramento sono i vestigii di antiche costruzioni di fortilizii, ed ivi la sede del Vescovo, in momenti barbari, dovè sembrare più sicura. Sotto il braccio sinistro o occidentale della nave traversa attuale esiste ancora al presente una specie di cripta1. Vi si scende dalla seconda corte scoverta dell’Archiepiscopio, traversando due anditi bui; nel secondo dei quali, a destra, si ravvisano eziandio le tracce di uno scalone che un tempo vi dovea far discendere. In questa cripta non si scorge nulla che abbia speciale importanza; in due nicchi si vedono ancora, sebbene maltrattate dalle ingiurie del tempo, pitture bizantine, tra cui una Madonna in trono. Le volte a crociera e lunette son sostenute da pilastri, sopra uno dei quali vedesi un capitello dorico con astragalo formato da ovolo intagliato, simile affatto a quelli che sono sulle colonne a lato alla Porta delle Calcare2, i quali io stimo siensi appartenuti all’antico teatro, o ad altra costruzione romana. Due finestre ad arco a pieno centro, con schiancio, vi danno luce. Potea appartenere questa costruzione al primissimo tempio? O fece parte di quello di Davide del 600? Non sembra facile definirlo. La esistenza dell’accennato scalone presso di essa fa vedere che doveva essere collegata all’Episcopio. Nè vi è difficoltà dei livelli, imperocchè a quel tempo il pavimento di questa cripta, che già si trova quasi a livello della via del SS. Sagramento, era quello della città in quel punto, mentre nei tempi posteriori si è sollevato assai verso la Piazza del Duomo e più verso la Piazza Orsini. Per la qual cosa questa che oggi è una cripta un tempo potè essere proprio parte della chiesa. E la si deve riferire ad epoca anteriore a Sicone, non avendo potuto ai tempi di costui nè essere cripta, nè far parte del suo tempio; imperocchè egli avrebbe fatta opera ben più decorosa, [p. 403 modifica]sapendosi quanto profusero i Duchi e i Principi longobardi in opere di questo genere. Questa rozza costruzione frammentaria ricorda troppo le miserie della chiesa dei primi tempi. Per la qual cosa io stimo che essa debba appartenersi o alla chiesa primitiva o a quella consacrata dal Vescovo Davide nel 600.

Come abbiam veduto3, Sicone, tra gli anni 820 e 839, ampliò e mutò di forma la chiesa. La qual cosa pare che concordi con quanto ho già detto, imperocchè egli avrebbe trasformata e ampliata la molto modesta basilica di Davide. E abbiamo pur visto che per consiglio di Landolfo della Greca la chiesa fu allungata. Ora, pria di scendere allo esame dell’opera che debba riferirsi all’uno e all’altro di quest’ultimi, è necessario far conoscere lo stato presente del tempio e le trasformazioni subite nelle varie epoche.

Il tempio attuale (Tav. LV) ha cinque navi, non tre come per errore asserisce il Salazaro4, la maggiore A e quattro minori B, C, D, E, due per ogni lato della prima; ma un tempo avea soltanto le tre navi A, B, C. La dimostrazione è facile. Al presente sull’alto delle pareti longitudinali della nave maggiore, come apparisce dalla veduta dell’interno (Tav. LVI) in corrispondenza di ciascuna arcata esistono i quadri ovali e tondi avvicendatamente, messivi, come vedemmo5, sotto l’Arcivescovo Landi. Essi nascondono le antiche finestre della nave maggiore, secondo è rappresentato nella Tav. LVII, le quali, osservate alle spalle dai soffitti delle navi laterali, vedonsi ancora intatte. Guardando lo spaccato trasversale della chiesa attuale (Tav. LVIII), si vede che queste finestre e hanno il davanzale f h così basso, che immaginando discendere da esso l’inclinata h i del piovente del tetto, questo non potrebbe coprire che una sola nave per lato, cioè le sole navi B, C, restando l’orlo i della grondaia sottoposto al soffitto delle navi attuali. Per la qual cosa, allorchè furono aggiunte le altre due navi estreme D, E, si ebbe bisogno di murare quelle finestre per portare i tetti p q, r s al di sopra di esse. [p. 404 modifica]Allora fu che ai muri i k furono sostituite le colonne g, mentre prima vi erano soltanto le colonne l. E poichè il numero delle colonne antiche disponibili era forse deficiente, così le prime furono spaziate a distanza doppia delle antiche; per tal guisa che mentre le arcate della nave centrale sono a pieno centro, rialzato alquanto sui capitelli delle colonne, quelle delle navi laterali son formate da segmento circolare, e quindi a sesto scemo.

Quando il tempio era a tre navi, era eziandio più lungo: di fatti (Tav. LVII) vedesi ancor oggi che l’ultima finestra i presso l’attuale muro di facciata a b c fu da esso tagliata insieme all’arcata inferiore m. Per conseguenza volendo ritenere che sia stato più lungo di una sola arcata, cioè di questa tagliata, il muro di facciata (Tav. LV) che ora è al posto e f, doveva stare al posto c d. E dinanzi doveva esservi il portico F, come nelle antiche basiliche, preceduto dalla scala z.

Allora il tempio era a croce latina, della quale esiste ancora il braccio G (Tav. LV) verso la via del SS. Sagramento, conservato integralmente nel tratto k n o p. Sulla facciata esterna n o vedonsi ancora le antiche finestre strette ed alte a sesto intero con schiancio all’esterno le quali illuminano il vuoto G alle spalle del nuovo organo. L’altro braccio H esistette forse sino al tremuoto del 1688, imperocchè lo si vede chiaramente rappresentato sull’antica pianta anteriore a quel tremuoto, da me rinvenuta (Tav. LIX) in pergamena nell’Archivio della R. Mensa Arcivescovile.6 Disparve dopo le trasformazioni operatevi da Orsini. Di lato alla nave E (Tav. LV) vi sono due muri (m l ed m n Tav. LV, e m e n Tav. LVIII), il primo dei quali dovette essere costruito con la nave stessa ed il secondo da Orsini poco prima del sudetto tremuoto, facendoci conoscere Sarnelli7 che allora le cinque navi non caddero per essere le due mura laterali nuove e ben fatte.

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Tav LVII.


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Il muro che circonda l’abside M attualmente è continuo, ma vi fu tempo in cui esso era formato di pilastri e di archi come vedesi rappresentato in disegno (Tav. LV). Un caso fortuito mi ha menato a questa scoverta: nell’anno decorso, 1894, facendosi eseguire dal R.do Capitolo un passaggio tra il vestibolo che precede il Sacello e la Sagrestia alle spalle dell’abside, apparve il pilastro s t decorato di antiche pitture a fresco sul fronte t e sui fianchi. Sovra di esso vedevasi un avanzo di arco, egualmente decorato nell’intradosso e sui fianchi, girante verso la periferia nel senso del raggio M s t. Questa scoverta lasciò subito scorgere che l’abside avesse avuto anticamente dei passaggi arcuati, e che alle sue spalle, a partire da I, si fossero svolte due gallerie concentriche K ed L; difatti le pitture su ambo i fianchi del pilastro s t già annunziarono che esso si fosse trovato un tempo tra due passaggi; e la porzione superstite dell’arco, annunziante che l’arco intero avesse avuto il diametro di appena due metri, lasciò scorgere che esso si fosse dovuto scaricare su di un altro pilastro centrale, piuttosto che sul muro r q p di precinsione. Questa disposizione di due gallerie concentriche non è nuova nelle basiliche, avendosene un esempio nella pianta dell’antica basilica di S. Giovanni in Laterano8.

Con questi elementi di fatto ho tracciata l’antica pianta del tempio, come dovè essere sino al XII° secolo. In essa ho disegnato le scalee x e y per montare all’abside e per discendere alla cripta, l’altare maggiore v col baldacchino, il coro s con la cattedra u del Vescovo. A quale epoca deve riferirsi questa forma? Escluso che ne sia srato autore il Vescovo Davide, e sapendosi che Sicone abbia trasformato ed ingrandito il tempio, sembra non potersi dubitare che egli sia stato l’autore di questa forma a croce latina con le gallerie concentriche all’abside, e che ai tempi di Landolfo della Greca, dal 1114 al 1124, sieno state soltanto prolungate le tre navi. Però siccome le finestre del braccio di croce verso la via del SS. Sagramento hanno diversa forma (son più snelle e hanno lo schiancio) di quelle della nave maggiore nascoste dietro i quadri, pare che ai tempi di Landolfo [p. 408 modifica]della Greca, non solo le tre navi sieno state prolungate, ma benanche restaurate nella porzione dell’epoca di Sicone. La struttura murale tanto delle prime che delle seconde è simigliante, a corsi alternati di alti tufi e di mattoni (Tav. LVII, lettere f e h); ma questo fu un genere di muratura che cominciò in Benevento sotto i longobardi e fu mantenuto sino al XIII° secolo, e forse anche sino al XIV.°

Non faccia meraviglia che Sicone abbia adottata la forma a croce latina con tre navi divise da colonnati aventi gli archi impostati direttamente sulle colonne, la qual forma ebbero le basiliche del secondo periodo, imperocchè nei paesi come Benevento, rimasti cattolici ortodossi l’elemento latino trasportò le sue tradizioni fin nel medio evo proprio con questa forma9.

Nella rappresentazione icnografica a croce latina con tre navi (Tav. LV) ho omesso l’atrio che per due lati si congiungeva al tempio, siccome in quasi tutte le antiche basiliche. Che vi sia stato l’atrio dinanzi è dimostrato non solo dalla tradizione non mai interrotta, ma ben anche dal fatto che le sepolture che esistevano nel mezzo di esso furono distrutte appena da pochi anni, quando con niuno accorgimento si demolì il recinto che precedeva la Cattedrale, per sostituirvi la sconcia ed incomoda scala che vi è al presente. Sotto i portici di quest’atrio esistettero le tombe di alcuni principi e principesse longobardi, e ne fu fatto scempio allorchè fu costruita la facciata attuale, della quale entrarono a far parte i materiali ad esse strappati, non escluse le iscrizioni epigrafiche che tuttora vi si vedono. Queste, descritte da Pellegrini, si appartengono a Sicone IV° il munificente e pio Principe del quale abbiamo discorso, a Radelchi, a Caretrude moglie di lui e madre di Aione Vescovo di Benevento, ad Urso figlio di Radelchi II°.

Chi fu l’artefice o l’autore della facciata attuale? Sul fronte dell’architrave della porta sinistra si legge:

Haec studio sculpsit Rogerius, et bene iunxit
Marmora, quae portis tribus cernuntur in istis,
Et quae per purum spectantur lucida murum.

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Tutti gli scrittori beneventani hanno interpretato e ritenuto sempre che questo Ruggiero sia stato nè più nè meno che l’Arcivescovo di tal nome, venuto a reggere questa chiesa nel 1179; ma i critici di arte lo hanno ritenuto invece un semplice artista. Barbier de Montault10 tra gli altri, dichiarando che quì in Benevento siasi troppo digiuni di conoscenze archeologiche, afferma che i nostri scrittori abbiano preso equivoco sul nome di Ruggiero. Veramente le ragioni che egli contrappone non sono così valide da distruggere la opinione di quelli, la quale credo alquanto fondata anche sulla tradizione. Egli dice che essi abbiano preso in senso figurato le espressioni tecniche studio sculpsit, bene iunxit marmora, piuttosto che attribuir loro il senso letterale. E questo egli dice (me lo perdoni) per un tal quale preconcetto, cioè per attribuire a questa facciata una trentina di anni di maggiore antichità, onde presentarcela coeva delle porte di bronzo; mentre, come dimostrerò, i due fatti sono indipendenti. Con ciò non intendo punto di condannar lui e assolvere i nostri scrittori, ma di lasciare libero il campo alla critica storico artistica.

Forse si affacciò alla mente di Barbier de Montault che quello sculpsit fosse una parola decisiva, la quale non avesse potuto avere relazione che soltanto con un artista mestierante, marmoraio scalpellino, autore secondo lui delle sculture delle tre porte della facciata intorno all’anno 1157. Ora, come dimostrerò con dati di fatto, questa sua supposizione è completamente erronea. Esaminiamo ponderatamente le diverse parti della intera facciata. I due stipiti e l’architrave della porta destra, presso il campanile, sono affatto lisci, e quindi opera del più modesto scalpellino. L’arcotrave della porta sinistra, sul cui fronte è scolpita la riportata iscrizione, è egualmente liscio. I due stipiti di questa stessa porta sono due architravi di porte di stile romano della decadenza; sono perfettamente intatti e completi, tanto della scorniciatura anteriore ornata ad intagli che dei festoni nell’incasso del lacunare; e per di più sono dissimili. Le basi della porta centrale ricordano troppo le sculture dell’epoca longobarda; sul fronte e sui laterali interni (Tav. LXI) di esse sono scolpite due scimmie [p. 410 modifica]che con gli omeri si sforzano di reggere il grave pondo, ricordanti i versi di Dante

Come per sostentar solaio o tetto
Per mensola talvolta una figura
Si vede giunger le ginocchia al petto11.

Gli stipiti e l’arcotrave di questa porta maggiore, scolpiti sul fronte e nei laterali, non sono opera dell’epoca della facciata,Fig. 12. ma anteriore, sebbene vi si noti una grande eleganza di disegno ed una squisita perizia nella tecnica. Sul fronte degli stipiti, incorniciato ai quattro lati (Tav. LXI) da un listello e da una gola intagliata alla maniera romana, si svolge (fig. 12) un ricco viticcio intermezzato da animali, leoni, pantere, draghi alati, uccelli. Lo stelo dei viticci, lavorato a strie, e la foglia quasi simile a quella di accanto hanno un sapore affatto greco, alla maniera istessa dei viticci con grappoli (fig. 13) scolpiti nei laterali interni. Così pure dicasi dell’arcotrave, sul cui fronte vedesi scolpito nel mezzo il simbolico agnello con la croce. Per la qual cosa sembra non doversi dubitare che essi debbansi attribuire alio scalpello di un artista bizantino, o che per lo meno [p. 411 modifica]

Tav. LVIII.


[p. 413 modifica]abbia avuto molto contatto con l’Oriente. I capitelli di questa stessa porta (Tav. LXI), arieggianti i capitelli corintii, non son lavoroFig. 13. della stessa mano: in quello di sinistra, che è alquanto più tozzo, le foglie sono più basse, più rilevate e più rovesciate, e ve ne sono tre per ciascuno dei due filari; e la foglia d’angolo vedesi al secondo filare, i caulicoli sono semplici, il lavoro di trapano è limitato agli steli dei caulicoli; mentre nell’altro, che è più snello, i caulicoli son doppii e più delicati, le foglie più svelte, meno sporgenti, meno rovesciate, e quella d’angolo trovasi al primo filare, il lavoro di trapano è esteso anche alle nervature delle foglie. Però tanto nell’uno che nell’altro capitello la foglia è di ulivo, la qual cosa già dimostra, oltre alla tecnica più rozza, che essi sieno di diverso stile degli stipiti e dell’arcotrave. Di più questi capitelli non solo son dissimili, ma non sembrano lavorati proprio per quel posto, imperocchè appaiono come troncati dalla lesina, che vi si accosta, delle arcate contigue. L’archivolto interno su di questa porta, in giro alla corona della lunetta, costituito di listello, di piccoli dentelli allo stesso piano, di grossa gola rovescia ornata di grandi foglie di acanto e di fusarolo intagliato, è di diverso stile dei sudetti capitelli. Le mensole di sostegno dell’arcovolto esterno, al numero di dodici, di cui una al centro, non solamente sono spaziate in modo difforme, cinque a sinistra e sei a destra, oltre quella al mezzo, ma sono anche diverse per forma, ornato e dimensione, sei avendo un ornato sul fronte, altre sei avendovi scolpito un animale: un toro, un cane, un gufo, un leone, un’aquila, un’upupa. I rosoni che ornano il lacunare tra le dette mensole sono anche varii, e non corrispondono tutti al centro fra due mensole successive; laonde scorgesi [p. 414 modifica]subito che sieno frammenti di altro monumento. Questo stesso archivolto con due rivolte orizzontali, a mò di mensole, si appoggia agli estremi sopra due animali sporgenti dal vivo della facciata; quello di sinistra è un goffo leone, l’altro sembra un orso avente in bocca qualche cosa che non bene si può determinare, di scultura assai più rozza del primo. Le fasce di divisione tra i corsi nei fondati delle arcate del pianterreno son tutte dissimili: alcune hanno doppia fascetta o listello lateralmente ad un nastro elicoidale, od un fusarolo intagliato, od una treccia; altre hanno dei dentelli in basso rilievo; per cui è a ritenersi che provengano da differenti monumenti. Le cornici d’imposta delle dette arcate sono anche varie per forma e per stile. La cornice di finimento del pianterreno o primo ordine, formata di listello, fusarolo intagliato, mensolette con foglia corintia, e di grossa gola rovescia intagliata, con una treccia fra mensola e mensola, si vede chiaramente che provvenga da altri monumenti, giacchè le mensole non vi si vedono spaziate regolarmente: qualche volta due di esse, o una intera od una mozza combaciano. Le grandi mensole poggiate su di quest’ultima cornice, in corrispondenza delle colonne del secondo ordine, sono anche più antiche della facciata e difformi: tre sono bestiarie con scimie scolpite sul fronte, e due su di queste hanno scolpita una foglia. I tronchi di colonne che si poggiano su di esse sono romani. E dei sette capitelli sei sono corintii romani, ed uno, quello accosto al campanile, è bizantino. Delle mensole che sporgono da sopra questi capitelli, dello stesso stile di quelle sottoposte alle colonne, due hanno scolpita sul fronte una scimmia, tre una foglia e due un’aquila. Tutte queste mensole provengono da disfatti monumenti longobardi. La grande cornice di coronamento del secondo ordine, composta di doppio listello (uno dei quali finge da gocciolatoio), di grandi mensole con foglia corintia, di piccoli dentelli, di altro listello e di gola rovescia intagliata a tratti alternati con trecciolina e rosetta, è composta pur essa di frammenti di altro monumento, giacchè, come nell’altra dell’ordine inferiore, le mensole non vi si vedono esattamente al loro posto. I quattro grossi animali, due leoni e due tori, sporgenti dall’alto di quest’ultima cornice, anch’essi di rozza fattura sono longobardi. I pezzi che compongono il rosone di [p. 415 modifica]

Tav. LIX.


Pianta della Cattedrale di Benevento,
dell’Archiepiscopio e della distrutta Basilica di S. Bartolomeo dell’anno 1599

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Tav. LX.


Veduta prospettica dell’Archiepiscopio di Benevento
e della distrutta Basilica di S. Bartolomeo secondo il disegno dell’anno 1599

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mezzo del secondo ordine sono di stile bizantino. Da quest’esame apparisce che tutto il materiale, liscio ed ornato, di questa facciata non sia stato lavorato proprio per essa, ma provvenga da altri monumenti distrutti. Dopo ciò, che resta dell’opera di quel vanitoso Ruggiero, di quel suo sculpsit? Resta la conclusione che egli non abbia scolpito nulla, e soltanto che bene iunxit marmora, etc. con studio. Per fare tanto non si richiedeva proprio l’opera di uno scultore, ma quella di un diligente disegnatore o di un uomo appassionato dell’arte e perito nello stile di quell’epoca. E non poteano tanto sostenere gli omeri dell’Arcivescovo Ruggiero? Egli, pria di venire a questa sede Arcivescovile, fu monaco e abate di Monte Cassino; e si sa che i monaci a quell’epoca furono non solo i benemeriti depositarii degli avanzi delle distrutte civiltà, ma anche i più provetti artisti e costruttori di templii12. [p. 420 modifica]L’Arcivescovo Ruggiero poi fu uno spirito bizzarro, per cui subì processi, e poco mancò non avesse perduto anche il Vescovato13 e amantissimo di costruire, tanto che contrasse enormi debiti, che ancora dopo la sua morte si pagarono per un pezzo14. Egli tra l’altro dispose con una bolla nell’anno 1217 che morendo i chierici beneficiati della chiesa di Benevento, il terzo dei frutti beneficiarii dal dì della loro morte a quello dell’anniversario fosse destinato alla fabbrica della metropolitana15. con queste parole: «.... Secunda pars erogetur operi maioris Ecclesiae nostrae, vel refectioni ipsius16. Ora, se l’opera di cui si fa menzione in questo documento non avesse riguardato principalmente la facciata, non saprebbesi intendere a che fosse rivolta. Pria di ogni altro, quell’espressione operi maioris Ecclesiae nostrae già fa intravedere la importanza dell’opera che Ruggiero intendeva compiere, e che di essa abbia fatto parte la facciata, parte del tempio per sè stessa importante, e per lui assai più, a causa del nuovo stile che ad essa egli imprimeva. E poi quale importanza avrebbe avuta quest’opera senza la facciata, considerando che la nave maggiore, le due laterali, le due braccia della croce latina esistevano già da tempo, come vedemmo? Siccome l’opera della facciata non venne compiuta, si argomenta quale sia stato il [p. 421 modifica]fervore di Ruggiero Arcivescovo a volerla compiere. Ma non gli bastò il tempo, essendo egli morto quattro anni dopo, nel 122117.

Quale difficoltà adunque che quest’uomo così appassionato delle fabbriche, per le quali tanto profuse e fece profondere, abbia disegnato e fatto eseguire sotto la sua direzione questa facciata? Ma, secondo Barbier de Montault, chi sculpsit? Nessuno; e l’ho dimostrato, facendo toccare con mano che questa parola fu una solenne menzogna incisa sul marmo, giacchè le sculture tutte sono di epoca anteriore. Rimossa questa difficoltà, può liberamente interpretarsi che quel Ruggiero sia stato o un artista a noi ignoto di tal nome o l’Arcivescovo, senza che possa addirittura dirsi errata l’una piuttosto che l’altra opinione.

E l’epoca non sarebbe un elemento atto a sciogliere tale quistione? Ma ho già accennato che non vi sia alcuna ragione storica o artistica per affermare la data sicura di questa facciata, quando sventuratamente non la si trova segnata.

Chiunque sia stato questo Ruggiero, non potè menare a compimento il suo disegno, e lasciò la facciata monca del suo coronamento; tanto meno potè iniziare il lavoro delle facciate laterali. La esistenza dei due grossi e rozzi leoni e dei due vitelli, sporgenti dall’ultimo cornicione in corrispondenza delle colonne del secondo ordine, accenna alla intenzione che si avea di proseguire la costruzione per completare il fronte. Il barocco frontone che s’innalza oggi al di sopra del secondo ordine fu costruito dopo il tremuoto del 1688. Prima di quell’epoca ve ne era un altro, decorato di pitture, e fatto costruire dall’Arcivescovo Arigonio18, quando, come vedremo, rialzò la nave di mezzo, che era stata ribassata sotto l’Arcivescovo Alessandro Farnese. E così pure è accennata alla cantonata verso la via del SS. Sagramento la idea di proseguire di là la stessa decorazione del fronte principale. Forse allora il tempio fu trasformato a cinque navi, corrispondendo la somma delle loro larghezze a tutto il fronte attuale. E si aveva intenzione anche di rialzarle di molto, giacchè a ciascuna delle due navi contigue alla nave maggiore [p. 422 modifica]corrisponde una finestra a pieno centro, molto allungata con schiancio entro e fuori (Tav. LVII, lettera d). Queste finestre, che si aprono nell’arcate dell’ordine superiore, ora sporgono in parte sul tetto e in parte sul soffitto delle navi contigue alla maggiore.

Un’altra osservazione importante mi resta a fare sulla espressione bene iunxit, a proposito della quale De Vita19 esclama a torto: male iunxit. Essa esprime un concetto esatto, quello di aver saputo creare, con elementi disparati, un assieme più o meno artistico secondo il gusto dell’epoca; non che l’altro di aver saputo ben commettere questi elementi stessi. La struttura murale in vero di questa facciata è così esatta da far vedere che infine poi, secondo osservò anche Hubsch20, sia erroneo che l’arte del costruire sia stata in quei tempi tanto ignorata.

Lenormant21, rendendo a noi giustizia, asserisce che percorrendo queste regioni meridionali si trovi una Italia sconosciuta; e ben dice, imperocchè sino a pochi anni addietro queste regioni, lontane dalle grandi vie percorse dagli amatori dell’arte e dagli artisti, non poterono lor mostrare tutti i tesori d’arte che posseggono. Vi contribuì pure la mancanza di esatte monografie di scrittori locali, ed una certa indifferenza dei cittadini, la quale ha fatto esclamare più di un viaggiatore sul poco amore che noi abbiamo per i nostri monumenti. Barbier de Montault, parlando delle porte di bronzo del nostro Duomo22, dice: «Les Anglais, qui sont des gens pratiques, auront fait connaître les portes de Bénévent en vulgarisant leur photographie, à qui cette dissertation vaut un réclame. Je termine par ce conseil: qu’ils aient maintenant le courage, pour leur superbe musée industriel de South-Kensington, de faire mouler cette grande page d’iconographie chrétienne, que les archéologues viendront certainement étudier et que les artistes ne tarderont pas à reproduire et à copier.

«Si ces pages devaient amener un pareil résultat, je serais [p. 423 modifica]heureux de l’avoir provoqué par une publication dont le but premier était de payer mon tribut d’admiration à une oeuvre pas assez connue du XIIe siecle».

L’archeologo francese Emile Guimet, Direttore del museo omonimo, detto delle religioni, a Parigi, venuto quì quest’anno, ammirando la importanza dei nostri monumenti, mi manifestava la sua meraviglia che in nessun albergo di Napoli vi fossero grandi e buone fotografie di essi esposte ai viaggiatori per ispirarli a visitare questa città. Le stesse cose e la stessa ammirazione mi manifestò l’altro archeologo inglese Thomas Hodgkin, il quale si sta occupando ora di alcuni argomenti storici intorno a questa città.

Tornando al Lenormant, egli non ritiene che questo genere di costruzione della nostra facciata e segnatamente quella del Duomo di Troia, ci sia pervenuto dalla Toscana23, bensì direttamente dall’Oriente; e della stessa opinione sembra sia il Chirtani, continuatore del Selvatico24. Egli però non ha visitati i nostri monumenti, per la qual cosa, parlando del nostro Duomo, incorre in varie inesattezze. Tra l’altro asserisce: «Di carattere moresco ci è nella cattedrale di Benevento una finestra a quattro vani bellissima, veramente, e vaga quanto mai. È inclusa in un campo sul quale imposta una specie di arco scemo determinato da un breve segmento di circolo a grandissimo raggio; tre colonne dividono il campo in quattro aperture foggiate ad archi a ferro di cavallo, impostati coi peducci delle estremità al muro e con gli altri tre peducci sulle tre colonne che portano il doppio capitello alla bizantina, di proporzioni e forme assai semplici, ma vagamente adorni di figure e foglie ornamentali25». Ora tutto ciò si appartiene nientedimeno che alle quadrifore del Chiostro di S. Sofia, del quale ho già parlato, rappresentate nelle Tav. LI e LII di quest’opera. Chirtani ha preso questo equivoco tenendo forse presente l’opera dello Schulz, nella Tav. LXXIX della quale la figura 1.a rappresenta [p. 424 modifica]la facciata della nostra cattedrale, e la figura 2.a rappresenta le quadrifore del Chiostro di S. Sofia.

Egli dice bene però quando definisce ecclettica questa composizione della facciata del nostro Duomo, essendovi rimembranze degli stili toscano, lombardo, bizantino e moresco. Soltanto non so trovare il moresco, come egli vorrebbe, nel giro interno degli archi dell’ordine superiore, sembrandomi che questa scorniciatura sia troppo lontana dall’archivolto sospeso delle arcate del chiostro di Monreale. Questa scorniciatura nel nostro monumento, anzichè rimaner sospesa, poggia sui pilastri proprii, che sono alle spalle delle colonne, e non forma con gli archi su di quest’ultime un organismo solo. Di guisa che, se nel nostro monumento si togliessero le arcate anteriori del secondo ordine, insieme alle colonne che le sorreggono, quelle scorniciature di cui parla Chirtani con i pilastri che le sostengono formerebbero di per sè soli un partito organico e decorativo quasi identico a quello dell’ordine inferiore. Ma, pur essendo ecclettica questa composizione della nostra facciata, a quali monumenti più si inspirò l’autore di essa? Quest’arte è nostra, dell’Italia Meridionale, o della Toscana? Se si tengono presenti le facciate delle chiese della Toscana del XI.° secolo, si nota in esse nell’ordine inferiore una successione di arcate sorrette da lesine, o pilastri molto esili ed alti, alquanto sporgenti dal vivo della facciata; della quale ordinanza, che Hubsch26 ritiene con ragione una imitazione delle antiche chiese di Ravenna, colà si ha l’esempio più antico in S. Paolo a Pisa27. Il Duomo di Troia presenta spiccatamente questa ordinanza nell’ordine inferiore; ed esso, se è di poco posteriore a S. Paolo di Pisa, è però coevo del Duomo della stessa città, essendo stati iniziati il primo nel 1093 e quest’ultimo nel 1092. Secondo i critici, che vogliono derivati i nostri monumenti di questo genere da quelli simiglianti della Toscana, il Duomo di Troia dovrebbe essere una copia di S. Paolo di Pisa. E pure, se ne togli la porta centrale, con la sua lunetta e con

l’arcata al di sopra di essa ricorrente a livello dell’intera [p. 426 modifica]

Tav. LXI.


Porta maggiore della Cattedrale di Benevento

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ordinanza inferiore, nel rimanente non so trovarvi tanta analogia. Di vero, mentre l’ordinanza inferiore di S. Paolo di Pisa si compone di cinque arcate piuttosto ampie, alcune a pieno centro ed altre a sesto acuto, quella del Duomo di Troia si compone invece di sette arcate molto più strette, tranne quella centrale, e tutte a pieno centro. Queste hanno più stretta analogia con quelle di Ravenna, giustamente ricordate da Hubsch. Ora io, non per tirar l’acqua al proprio mulino, e cadere nel solito errore più volte rimproverato agli scrittori di cose d’arte, nè per creare preconcetti, ma solo per la verità e con la intenzione di aprire un campo di ricerche più vasto alla storia dell’arte, tengo ad affermare che piuttosto che riferire le nostre ispirazioni artistiche di questo genere alla Toscana, convenga riconoscere onestamente, come accennò fugacemente il Lenormant, che la nostra arte procedette parallelemente a quella toscana, traendo le comuni ispirazioni dall’Oriente, noi per ragione di vicinanza, essa per via dei commerci. Dimostrato che il Duomo di Troia sia coevo di quello di Pisa, e non abbia poi tanta affinità con quello di S. Paolo di Pisa istessa, non può dirsi che a questi due monumenti l’autore del primo si sia ispirato. Come non può dirsi neppure che l’autore della nostra facciata si sia ispirato a quella del Duomo di Troia. Di fatti, dove in quest’ultimo sono le lesine, nel nostro, eccettuate le due che fiancheggiano la porta maggiore, sono per contrario dei larghi pilastri; mentre nel primo l’arcovolto in giro alla lunetta sulla porta maggiore è ben distinto dall’arco superiore dell’ordinanza, nel secondo questo arcovolto fa parte esso stesso dell’ordinanza.

Le nove arcate (quante erano prima della costruzione del campanile) del secondo ordine della nostra facciata, larghe, sostenute da grossi tronchi di colonne con capitelli corintii, hanno anch’esse la strettissima analogia che si dice con l’architettura toscana? Questa ordinanza è essa addirittura una galleria dalle reminiscenze lombarde28, o non è invece un motivo alquanto diverso, che poi più tardi vedesi allo stesso posto nella basilica di S. Marco a Venezia? Le gallerie lombarde innestate al secondo [p. 428 modifica]ordine nelle facciate delle chiese toscane sono composte di archetti assai snelli, ricorrenti in maggior numero sopra colonnine assai esili. La fisonomia della facciata del nostro Duomo è tutta propria, con la sua massa vasta e grandiosa, riconosciuta pure dallo Schulz29. E alla imponenza della massa corrispondono le larghe paraste o pilastrate dell’ordine inferiore e le grevi arcuazioni dell’ordine superiore.

V’ha di più: mentre nelle altre facciate di simil genere, secondo l’appunto che ad esse fa Hubsch30, le arcate dell’ordinanza inferiore non corrispondono all’organismo interno, nella nostra facciata, per contrario, esse vi corrispondono perfettamente, le tre di mezzo alla nave maggiore e le laterali singolarmente a ciascuna delle navi minori.

Fig. 14.Dopo ciò, si può convenire che la derivazione di questi generi di facciate sia unica, procedente da unica fonte, l’Oriente, ma che ciascun artista vi abbia portate libere le sue ispirazioni. Allorchè, come da noi, egli ebbe vista tanta copia di avanzi artistici dell’età precedenti, pensò giovarsene, e ne trasse il partito organico della nostra facciata. Il quale per conseguenza non è il prodotto della libera fantasia soltanto, ma di questa e della esigenza dei materiali disponibili. E questa è per sè sola una potente ragione per distruggere le opinioni a priori in siffatti generi di costruzione. Se altrove l’artista adattò i materiali al disegno, qui egli dovette piegare la sua fantasia, e disposarla ai materiali che gli si offrivano. [p. 429 modifica]

Poche altre parole intorno alla descrizione della facciata del nostro Duomo. I fondati delle arcate dell’ordine inferiore in cui non son le porte sono divisi sino all’imposta a corsi orizzontali eguali con fascette, già da me descritte, ornate variamente. Nel centro dell’arco di due di queste stesse arcate laterali alla porta maggiore vedonsi le solite formelle a piani rientranti, come nel Duomo di Troia e nei monumenti simiglianti della Toscana. Gli archivolti delle lunette sulle porte laterali sono a ferro di cavallo. Il rosone centrale dell’ordine superiore (fig. 14) è assai caratteristico: dodici colonnine di forma piramidale molto allungata, senza base e con capitello con foglia d’acqua, sui quali al centro girano degli archetti a pieno centro, formano la raggiera; nei campi fra di esse, invece dei vetri, evvi un elegantissimo musaico in campo d’oro con graziosissimi viticci con grappoli ed uccelli policromi; il circolo di mezzo, anche a musaico, porta il solito agnello mistico. Questo rosone, di spiccato stile bizantino, non par dubbio che provvenga da altri monumenti di epoca anteriore. Meno alcuni elementi bestiarii assai rozzi, tutti gli altri ornati medievali che entrano nella composizione di questa facciata, sono eleganti e lavorati con una tecnica superiore di molto al periodo artistico cui si appartengono. Mi dispiace non poterne dare quei particolari che vorrei, avendo trovato qualche ostacolo di rilevarli all’altezza a cui son messi.

Ed ora qualche cosa intorno al campanile. Esso, come vedemmo, fu fabbricato nel secolo appresso a quello in cui surse la facciata, e la deturpò, occupandone un’arcata dell’ordine inferiore; come pure deturpò la pianta del tempio (Tav. LV, lettera N). Esso sopra di un basamento s’innalza quasi tutto liscio come un prisma quadrato sino al piano delle campane; solo alcuni cippi sepolcrali scolpiti e altri frammenti romani vi si vedono incastrati. Questo prisma è coronato da un cornicione molto sporgente, sostenuto da robuste mensole. Su di esso si aprono quattro finestroni bifori, uno per facciata, a sesto acuto con occhio trilobate nel mezzo del timpano. Una colonna di granito con capitello corintio romano sostiene i due archi, che con l’altro estremo si scaricano contro il grosso della muraglia. Un capitello dorico, rovesciato, identico a quelli dell’interno del Duomo, fa [p. 430 modifica]da base alle colonne. All’esterno uno stretto archivolto a sesto acuto accenna la bifora. In due facciate queste bifore sono state distrutte per dar posto alle campane. Questo campanile non fu mai menato a compimento. Come dissi, parlando del teatro antico31, la maggior parte dei massi che lo compongono furono tolti barbaramente al teatro stesso; quindi la sua costruzione fu cagione di due mali, della deturpazione della facciata del tempio e della distruzione di buona parte di quel grandioso monumento romano.

Sulla facciata orientale di questo campanile vedesi, a pochi metri di altezza, incastrato un marmo romano portante in bassorilievo di squisito lavoro un maiale infulato e laureato. Esso non è che un ricordo del sacrifizio a Cerere, ma gli scrittori beneventani vi hanno voluto, con libera fantasia, scorgere il favoloso cignale di Caledonia; per cui De Vita, riportandone una incisione sul frontespizio del suo Thesaurus antiquitatum Beneventanarum, vi mette sotto questi versi:

Aetoli Diomedis opus felix Beneventana
Quis neget? Aetolus stemmata fecit aper.

E su di questa poesia si credette doveroso dalle Autorità cittadine incastonare questa bestia nello stemma della città, il quale da prima era rappresentato da uno scudo quadripartito. Ma pare che ci si tenga ancora molto a questo animale, considerando che da poco uno stemma simile si è fatto lavorare a nuovo e lo si è rizzato sul portone del palazzo di città.

Torniamo di nuovo nell’interno del tempio. La Tav. LIX, come dissi, rappresenta lo stato della cattedrale prima del tremuoto del 1688. A questa vedonsi innestati la basilica di S. Bartolomeo e l’Archiepiscopio. Senza occuparci delle variazioni apportate da quell’epoca alla distribuzione del palazzo arcivescovile ed ai locali annessi, noto che le cinque navi attuali del Duomo esistevano allora come oggi, e che dietro al campanile esisteva un′altra specie di nave destinata allora per cappellone del SS. Sagramento. Le colonne delle navi minori vi si vedono [p. 431 modifica]spaziate il doppio di quello della nave maggiore, come al presente. Però è da osservare che delle colonne delle navi minori cinque soltanto sono antiche, tre nella nave sinistra con i rispettivi capitelli, e due nella destra con un sol capitello, mentre l’altro è moderno. Avendo molto sofferto queste due navi con i tremuoti del 1688 e del 1702, l’Arcivescovo Orsini le ricostruì quasi a nuovo, sostituendovi quattordici colonne di due pezzi ciascuna, che egli comprò a Napoli nel 171232. Le antiche colonne coi capitelli dorici della nave maggiore e le cinque che avanzano delle minori provvengono certo da un sol monumento romano. Qualche scrittore beneventano33 con alquanta poesia le ha messe a decorare un tempo nientemeno che l’arco Traiano, quasicchè i monumenti simiglianti abbiano mai avuto altra decorazione oltre la propria; altri34 ha ritenuto che esse abbiano fatto parte del tempio di Giove Capitolino, il quale, secondo lui, sarebbe stato proprio nel sito della cattedrale; altri35 che abbiano fatto parte della scena dell’antico teatro. Ma anche egli erra, perchè quelle colonne son troppe, e perchè l’ordine dorico non sarebbe stato confacente alla scena del teatro. Io, nella incertezza, lascio le cose impregiudicate. Queste colonne, insieme con i loro capitelli, furono maltrattate sconciamente a causa di un voluto restauro, per effetto del quale ora le si vede tutte rappezzate, con i capitelli deturpati. Siffatto scempio mi risparmia di indagare l’autore di simile vandalismo, il quale trova riscontro in tanti altri che oggi si compiono dai mestieranti dell’arte architettonica.

Su di questa pianta antica si vede il coro situato nella nave maggiore, donde lo rimosse l’Arcivescovo Arigonio e dove lo riportò, come vedemmo, l’Arcivescovo Landi, finchè il Capitolo dopo la morte di costui non l’ebbe ripristinato in fondo all’abside, dove oggi si vede. In questa pianta vedesi pure spiccatamente la nave traversa che un tempo formava i due bracci della croce latina.

Il soffitto attuale della nave maggiore, iniziato [p. 432 modifica]dall’Arcivescovo Foppa36, fu continuato dopo la morte di lui, e terminato nell’anno 1678 con la spesa di scudi seimila, ricavati dalla vendita dei di lui beni patrimoniali, ordinata da lui stesso con testamento. Ma per effetto di restauro ne sono sparite le decorazioni a fiorami di mano di Salvatore Perez, detto lo Spagnuolo, che vi esistevano37. Il quadro dell’Assunzione che vi si vede in mezzo, fu fatto dipingere per ordine dello stesso Foppa da Pietro del Po con la spesa di trecento scudi38. Forse anticamente, come in tutte le basiliche, la nave era coperta dalla semplice travata c d (Tav. LVIII); ed era più alta certamente che al presente: tra l’attuale soffitto e le corde del tetto vedonsi ancora antiche pitture. Ai tempi dell’Arcivescovo Alessandro Farnese, che fu poi Papa Paolo III, il tetto di questa nave si incendiò, e fu fatto ricostruire da lui più basso; ma l’Arcivescovo Arigonio lo fece rialzare di nuovo39.

L’interno del nostro Duomo, ad onta delle cattive trasformazioni subìte e delle decorazioni barocche (Tav. LVI), resta non per tanto un bel monumento; la nave maggiore è di un grandioso effetto, il quale più apparisce nei momenti delle solenni funzioni con la maggiore porta spalancata.

La tavola LIX ci mostra pure, come vedemmo, la basilica di S. Bartolomeo. Questa avea il suo ingresso dove oggi è il fronte orientale della Curia Arcivescovile, in piazza Orsini, e si protraeva ad angolo retto nella Cattedrale, sin presso l’attuale scala che dalla prima nave minore di destra fa salire alla nave traversa, occupando le sagrestie di sopra, la Curia ed il Cappellone del SS. Sagramento. Di più comunicava a destra con la Cattedrale direttamente e a sinistra con l’Archiepiscopio.

Questa basilica, al posto di altra più antica, fu cominciata nell’anno 1112, per riporvi il corpo dell’apostolo, con le elemosine del popolo e le offerte dell’Arcivescovo del tempo Landolfo II40. I lavori però furono menati per le lunghe, e continuati [p. 433 modifica]dell’Arcivescovo Ruggiero, a noi già noto, il quale per tale opera, tra le altre, lasciò tanti debiti che nel 1288 furono estinti dall’Arcivescovo Giovanni col consenso del Capitolo41. Proseguivano ancora i lavori nell’anno 1320, in cui l’Arcivescovo Monaldo dei Monaldeschi concesse di questuare nella città e nell’Archidiocesi per tale oggetto. Egli vi fece il portico dinanzi42. Nel 1430 vi furono costruite le cupole dall’Arcivescovo Colonna43. E il corpo dell’Apostolo vi fu trasferito appena nel 133744, sebbene il tempio non fosse compiuto, secondo desumesi dalle lettere apostoliche di Benedetto XII che ne concede il permesso all’Arcivescovo Arnaldo, il quale era stato Abate di S. Sofia.

La tav. LX, ricavata come la precedente, porge una chiara idea dell’aspetto esteriore di questa basilica, dell’Archiepiscopio e delle strade e piazze contermini anteriormente ai tremuoti del 1688 e del 1702.

Questa basilica avea tra le cose pregevoli le pregevolissime porte di bronzo, delle quali parlerò, per non ripetere le medesime cose, quando mi occuperò di quelle del Duomo.

Ho sempre pensato che in origine la porzione circolare della basilica di S. Bartolomeo fosse il battistero; e mi sorreggono in questa opinione la forma speciale propria dei battisteri e l’essere stato il suo pavimento molto sottoposto alla strada, come desumesi dalla icnografia della Tav. LIX e dalle notizie sparse in tutte le opere degli scrittori beneventani. Quando cominciò l’uso di tenere il fonte battesimale nel Duomo, quella venne destinato ad uso di chiesa. Altrimenti non potrebbesi spiegare questa troppo intima vicinanza di un’altra chiesa al maggior tempio e all’Archiepiscopio. E gli scrittori beneventani accennano che al posto della basilica di S. Bartolomeo già vi era prima del 1112 altra chiesa. Allora la parte circolare dovea essere isolata, e poi, in prosieguo, con l’ampliarsi di essa e del Duomo le due chiese si innestarono. Però, essendo questa basilica un monumento scomparso, sarebbe ozioso far maggiori indagini sul proposito.

Note

  1. Da non confondersi con la Confessione della basilica di S. Bartolomeo fatta costruire dall’Arcivescovo Foppa per riporvi il corpo di quest’apostolo (Pomp. Sarnelli, Mem. Cronol. ecc. pag. 152), della quale vedonsi tuttora i ruderi verso Piazza Orsini sotto le nuove sagrestie.
  2. Vedi a pag. 287 di quest’opera.
  3. A pag. 396 e 397.
  4. Studii sui Monumenti dell’Italia Meridionale dal IV al XIII secolo, Napoli MDCCCLXXI, pag. 69.
  5. Pag. 401.
  6. Dal volume in pergamene «Inventarium bonorum R. Mensae Archiepiscopalis Beneventanae» dell’anno 1599, sotto l’Arciv. Massimiliano Palombari. Dello stesso anno sono la pianta della Cattedrale e il prospetto della Basilica di S. Bartolomeo, delineati in tal volume ai fol. 10 a tergo e 12 a tergo.
  7. Mem. Cronol. pag. 165 e 166.
  8. Vedi Hubsch, op. cit. Tav. III fig. 2.
  9. Selvatico (continuazione al) op. cit. parte II. lib. IV. pag. 442.
  10. Op. cit. pag. 35.
  11. Divina Commedia/Purgatorio/Canto X.
  12. Torna opportuno riportare qui un brano di Camillo Boito (Architettura del Medio Evo in Italia, Milano U. Hoepli 1880, pag. 119 e seg.) ».... nel medio evo le più grandi abbazie coltivavano con amore le arti. L’abate Desiderio (questi era beneventano, come dissi a pag. 366, fu monaco di S. Sofia, poi Abate di Montecassino, e quindi Papa col nome di Vittore III.), successore di Gregorio VII, mentr’era nel monastero di Montecassino, faceva ricostruire l’edificio ed eseguire dipinti, ricami, intagli in legno e in avorio, opere in oro, in argento e in bronzo; sì che il monastero ebbe l’ammirazione dei contemporanei. E furono aperte, al cadere dell’XI secolo, colà e in altre abbazie scuole di musaico; ond’è chiaro che i monaci erano in quello opere, se non maestri, certamente artefici assai valenti.
    In verità ci pare cosa naturalissima che ove molti nei conventi si travagliavano tutto dì con paziente amore nel copiare antichi codici e nel miniarli con raro gusto di ornamenti e miracolosa squisitezza di esecuzione, altri, a quell’ufficio non inclinati, si dessero invece all’opera di costruire ed abbellir gli edificii che per decoro del monastero si andavano innalzando. Ma se non si vuole supporre che i monaci fornissero lavori da scalpellino — e quei lavori di piccole colonne, avvolte a guisa di vite in cento modi diversi, di cornici piccole e delicate non sono lavori da dozzinale e ruvido tagliapietra — certo non parrà sconveniente alla dignità monacale d’allora, che alquanti si adoperassero negli ornamenti di figure e di fogliami a rilievo, o nei musaici, che, composti di formelle di vario smalto triangolari o quadrate, vogliono soltanto garbo e diligenza.
    Del resto è noto come gli stessi superiori di altissimi natali (e tale era pure Desiderio, della stirpe dei Principi Longobardi) componevano talvolta i concetti dei chiostri e delle chiese. Nè i monaci davansi all’arte per solo spirito di penitente umiltà; chè anzi tenevansi onorati della loro professione, e si chiamavano coi titoli di maestri o di pittori. Nella cattedrale di Anagni esiste una iscrizione...... in cui al canonico Rainaldo, vicediacono apostolico e cappellano di Papa Onorio III, è dato il titolo di magister. Nel musaico che abbella l’abside nella chiesa di S. Giovanni in Laterano, eseguito fra il 1288 ed il 1292 sotto il pontificato di Nicolò IV, veggonsi i ritratti degli artefici Iacopo da Turrita e Iacopo da Camerino. L’abito fratesco, il cordone, i sandali (come vedremo sulla faccia di uno dei nostri amboni nella cattedrale di Benevento) fanno palese che essi erano Francescani;....»
  13. «Nel 1199 ai 9 di dicembre Innocenzo III, nell’anno II del suo Pontificato, commette all’arcivescovo di Napoli ed a C. Prete Cardinale di S. Lorenzo in Lucina, Legato della Sede Apostolica, che prendano esatta informazione contro l’Arcivescovo di Benevento, imputato capo delle guerre civili, homicida e dissipatore dei beni della sua chiesa. (L’Epistola è la 236 nel lib. 2. del Tom. I.» (Pompeo Sarnelli, Mem. cronol. cit. pag. 105 e 106).
  14. Pompeo Sarnelli, Mem. cronol. cit. pag. 116.
  15.  id. id. pag. 109.
  16. Ughelli, Italia Sacra, tom. VIII, pag. 124. C.
  17. Sarnelli, Mem. cronol. pag. 110.
  18. Giov. de Nicastro, Benevento Sacro, cit. pag. 58.
  19. Alter Antiq. etc. cit. pag. 418.
  20. Op. cit. pag. 90.
  21. A travers l’Apulie, etc. preface, pag. VI.
  22. Les portes de bronze de Bénévent, pag. 43.
  23. Lenormant, op. cit. pag. 127 e seg.
  24. Op. cit. parte II. lib. IV. pag. 441, 442 e seg.
  25. Op. cit. parte II. lib. IV. pag. 451, 452.
  26. Hubsch, op. cit. pag. 96 Tav. XLII, fig. 12.
  27. Luogo suddetto.
  28. Chirtani, op. cit. parte III, pag. 448.
  29. Op. e luogo citati.
  30. Op. cit. pag. 96.
  31. Vedi pag. 341 di quest’opera.
  32. Manoscritto citato di Feoli, pag. 31 a tergo.
  33. Giov. De Nicastro, Benevento Sacro, manos. cit. pag. 51.
  34. Giordano De Nicastro, mem. istor. di Benevento, manos. cit. pag. 248.
  35. Alfonso De Biasio, manos. cit.
  36. Giov. De Nicastro, Benevento Sacro, Manos. cit. pag. 54.
  37.  Idem idem
  38.  Idem idem
  39.  Idem idem
  40. Sarnelli, Memor. cronol. etc. pag. 90.
  41. Sarnelli, Memor. cronol. etc. pag. 116.
  42.  Idem idem pag. 121.
  43.  Idem idem pag. 135.
  44.  Idem idem pag. 73.