I Figli dell'Aria/29 - I buddisti del Tengri-Nor
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CAPITOLO XXIX.
I buddisti del Tengri-Nor.
I monaci salirono una gradinata magnifica che metteva su una vasta terrazza sulla quale si vedevano parecchie antenne sostenenti delle bandiere e delle enormi lastre di metallo, probabilmente dei gong, destinati a servire da campane, e condussero i due europei attraverso uno stretto corridoio che pareva corresse intorno all’edificio e che era illuminato, ogni dieci o quindici passi, da una lanterna di talco simile a quelle usate dai cinesi.
Di quando in quando dalle porticine che si trovavano ai lati del corridoio uscivano delle teste umane, che subito scomparivano dietro un segno fatto dal monaco che aveva al collo il monile di pietre trasparenti.
Appena però il drappello era passato, le teste tornavano a ricomparire e si udivano dei bisbigli sommessi.
Rokoff, Fedoro e la loro scorta percorsero cinque o seicento passi, salendo di quando in quando delle gradinate, poi giunsero dinanzi a una porta dal cui stipite pendeva un tam-tam.
Il monaco dal monile staccò una piccola mazza di legno e percosse tre volte l’istrumento, facendo vibrare il bronzo, il cui suono si propagò lungamente nell’immenso corridoio, svegliandone l’eco.
— Dove ci conducono? — chiese Rokoff a Fedoro.
— Dal capo della comunità, suppongo, — rispose il russo.
— Un personaggio importante?
— Quasi quanto il Dalai Lama di Lhassa, se questo è veramente il celebre monastero di Dorkia.
— Come ci accoglierà?
— Come figli di Budda o santi per lo meno. Ti pare che non debbano prendere per tali degli uomini che volano fra le nubi sul dorso di un’aquila gigantesca?
— E ci spaccieremo veramente per esseri superiori?
— E perchè no?
— E se l’avventura finisse male?
— Sapremo cavarcela alla meglio. Lascia fare a me, Rokoff. —
La porta si era aperta e i due europei erano stati introdotti in una vasta sala illuminata da parecchie lanterne, colle pareti tappezzate da bellissime stuoie dipinte e il pavimento coperto da tappeti di grosso feltro nero che attutivano qualsiasi rumore.
Nel mezzo giganteggiava una statua di Budda in argilla, e coperta da pezzi di carta dorata.
Il Dio stava seduto colle gambe incrociate alla moda dei turchi, colle mani strette sul ventre e aveva al collo un numero infinito di collane d’oro e di perle di vetro. Sulla testa portava una specie di calotta dalla quale pendeva una lunga coda di cavallo bianco.
Rokoff e Fedoro avevano appena girato uno sguardo all’intorno, quando da una porticina nascosta da una tenda, uscì un monaco di statura superiore agli altri, molto vecchio, col viso rugoso, quasi incartapecorito e con una barbetta rada interamente bianca.
Indossava un’ampia tonaca di feltro, con maniche larghissime e sulle spalle, tenuta da un fermaglio d’oro, portava una specie di mantellina bianca che ricadeva in larghe pieghe fino sotto la cintura.
I sei monaci, vedendolo entrare, gli si erano gettati dinanzi battendo la fronte sul pavimento, poi quello della collana si era alzato scambiando col vecchio alcune rapide parole.
— Che sia il capo del convento? — chiese sottovoce Rokoff, guardandolo con curiosità.
— Dal rispetto che gli dimostrano i monaci, lo credo tale, — rispose Fedoro.
— Dobbiamo anche noi inginocchiarci? Ci penso poco io.
— No, come figli di Budda gli siamo superiori, quindi tocca a lui fare omaggio a noi. —
Il vecchio Lama guardò per alcuni istanti i due europei, poi s’avanzò verso di loro, e come Fedoro aveva previsto, s’inginocchiò battendo tre volte la fronte sul pavimento.
Il russo si curvò verso di lui e lo rialzò, dicendogli in cinese:
— Salute al capo dei Buddisti del lago sacro di Tengri-Nor. —
Il Lama con un gesto fece uscire i monaci, prese per una mano i due europei e li condusse su un piccolo divano, facendo loro segno di accomodarsi, poi disse, pure in lingua cinese:
— Saluti e omaggi ai figli del cielo, ai quali il grande Budda ha dato la potenza di solcare gli spazi come le aquile e di sfidare le tempeste. —
Ci fu fra di loro un silenzio abbastanza lungo e anche molto imbarazzante, poi il Lama riprese, facendosi coraggio:
— È il grande Budda che vi ha detto di scendere fra i fedeli del Tengri-Nor?
— Sì, — rispose prontamente Fedoro, con calma imperturbabile. — Il possente Dio ci aveva pregato di venire a visitare i conventi del lago sacro.
— Perchè siete discesi fra le acque invece di prendere terra dinanzi al nostro monastero?
— Perchè lo spirito del male aveva scatenato contro di noi i venti e le folgori, onde impedirci di compiere la nostra missione.
— Noi vi avevamo veduti ieri sera lottare contro la tempesta avvolti fra una luce intensa, abbagliante. Budda illuminava il vostro grande uccello per guidarlo anche fra le tenebre.
— È vero, — disse Fedoro — ma il genio del male pareva che in quel momento fosse più forte di noi e chi sa dove ci avrebbe spinti se noi non ci fossimo lasciati cadere fra le onde del lago.
— Voi non eravate soli.
— No, avevamo altri due compagni.
— Dove si sono recati costoro?
— A visitare i monasteri del settentrione.
— Andrete poi anche a Lhassa?
— Dobbiamo visitare il Dalai Lama, — rispose Fedoro. — Siamo incaricati d’una missione per lui.
— Da parte del grande Budda?
— Sì.
— Si lagna dei suoi fedeli?
— È anzi soddisfattissimo, ma desidererebbe che i pellegrinaggi diventassero più numerosi e più frequenti.
— La colpa non è nostra, bensì dei briganti che infestano i passaggi degli altipiani.
— Budda li sterminerà, — disse Fedoro. — È già stanco delle innumerevoli scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l’ordine di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro uccello.
— Deve essere terribile quel mostro, — disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva sussultare.
— Divora cento uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo completamente.
— Ha il fuoco nel ventre? — chiese il Lama stupito.
— Vomita fiamme che nessuno può spegnere.
— Quanta potenza vi ha dato Budda! Dove risiede ora il nostro Dio?
— Sta pregando sulla vetta del Tant-la.
— E quando tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli?
— Ha da compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo, — rispose Fedoro sempre imperturbabile. — Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco del suo mostro e dannati per tutta l’eternità a cucinare nel lago di Boracee sotto forma di scorpioni.
— Basta, Fedoro, — disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. — Domanda se ha una cena da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una ghiacciaia.
— Stiamo discutendo su Budda.
— Me ne infischio io del loro Dio color della terra cotta.
— Un po’ di pazienza. —
Il Lama li lasciò parlare, poi riprese:
— Non parla il cinese, il vostro compagno?
— No, — rispose Fedoro. — Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della luna, dove si trovano i Lama della Mongolìa, che si sono guadagnati il nirvana1.
— Desidera qualche cosa?
— Si lagna d’aver fame e freddo e di essere ancora bagnato.
— Potevate dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei figli prediletti del grande Budda. —
S’accostò a un piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo:
— Seguitelo e avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia.
— Pare che non sia questo quello di Dorkia, — pensò Fedoro. — Purchè non ci invitino a recarci colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui. —
S’inchinarono dinanzi alla statua di Budda e seguirono il monaco che aveva staccato dalla vôlta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure muniti di lampade.[p. 257 modifica]S’inchinarono dinanzi alla statua di Budda.
Rifecero parte del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani superiori ed entrarono in un’altra stanza, più vasta di quella di prima, egualmente tappezzata e illuminata e fornita d’un caminetto dove ardeva un allegro fuoco.
Nel mezzo vi era una tavola, molto bassa, e all’intorno dei comodi divani.
I sei monaci, con cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo portando dei vasi e dei tondi d’argento, finemente cesellati, e dei bricchi col collo assai lungo e molto artistici.
— Che ci sia da mangiare, lì dentro? — chiese Rokoff.
— Certo, — rispose Fedoro.
— Se questi monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli della luna o del cielo.
— Li pregherò di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese.
— Mandali via con una spinta; capiranno meglio.
— Oh! Rokoff! Dei figli di Budda che maltrattano i loro adoratori!... —
I monaci continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò loro la porta.
Fu subito compreso perchè i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono non senza manifestare però un certo stupore che non isfuggì al russo.
— Probabilmente avevano ricevuto l’ordine di servirci, — disse a Rokoff, il quale, per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta.
— Ne faremo senza, — rispose il cosacco. — Quelle facce smorte m’avrebbero fatto perdere l’appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian fuori le loro lingue d’appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po’. Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia. —
Stava per spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo, che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto.
— Devono averle portate per noi, — disse. — Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti troverai meglio.
— E tu?
— Io faccio altrettanto. To! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a quelle dei cinesi.
— Allora lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti.
— È il ghiaccio che si fonde. Ma... per le steppe del Don! Che figura faremo noi vestiti da monaci!
— Superba, Rokoff, — disse Fedoro, ridendo. — Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga barba rossa, diverrai maestoso. D’altronde, dei figli di Budda vestiti all’europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione.
— Ah! Siamo figli di Budda!
— Non so ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al rispetto che ci dimostrano questi monaci.
— Diventiamo allora buddisti, — disse Rokoff. — Dopo tutto, una religione vale l’altra. —
Si riscaldò alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda, infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione.
— Come ti sembro? — chiese a Fedoro, che faceva altrettanto.
— Tu farai morire d’invidia tutti i Lama dei monasteri, — disse il russo. — Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d’onore.
— To! un’idea!
— Parla, Rokoff.
— Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Budda non si dovrebbe negarlo.
— Penseremo a questo dopo la cena.
— Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d’orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene.
— Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico.
— Eh! Forse che i Tibetani vivono d’erbe cotte? Rinuncio fin d’ora a diventare il superiore d’un convento.
— Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l’anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana.
— Non ti capisco, Fedoro, — disse Rokoff.
— Ignori dunque che i buddisti credono che l’anima d’un defunto s’incarni subito nel corpo d’un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti.
— Sicchè qui le bestie si lasciano vivere.
— Finchè muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni.
— Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi?
— Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli.
— Procediamo a una visita e facciamo la scelta. —
Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d’argento e il cosacco dovette convincersi che non v’era nemmeno l’ombra d’una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d’arrosto.
Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell’orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d’orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d’argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa.
— Che questo abitante delle acque non contenesse l’anima di nessun buddista? — chiese Rokoff.
— Hanno fatto forse un’eccezione a noi, — rispose Fedoro.
— E noi mostreremo che i figli di Budda non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa?
— Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff.
— Non è cattiva, almeno alla mia bocca.
— Allora divoriamo, finchè si scalda l’acqua del the. —
Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l’orzo al latte e finalmente anche le salse.
Otto o dieci chicchere di the squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto.
— Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco, — disse Rokoff
— Non si fa uso qui di tabacco, — rispose Fedoro.
— Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino.
— Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d’acquavite d’orzo che bevono tiepida e non so davvero perchè non ce l’abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più.
— Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere.
— E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff.
— Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta.
— Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra, — rispose Fedoro. — Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci.
— Avrà osservato dove siamo caduti?
— Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi.
— Seguo il tuo consiglio, — rispose il cosacco.
Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto.
Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi.
— Che sia già l’alba? — si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi.
— No, la fiamma non si è ancora spenta, — disse Fedoro.
— Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero?
— Ci invitano ad aprire.
— Che sia giunto il capitano?
— Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori!
— Allora li mando a quel paese.
— No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. —
Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta.
I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli.
— Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini, — disse Rokoff. — Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono?
— Non ne so più di te, — rispose Fedoro. — Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda.
— Che ci conducano ancora da quella mummia vivente?
— Lo vedremo, Rokoff. —
Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Budda. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio.
— Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta, — disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. — Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? —
Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro:
— Preparatevi a partire.
— A partire! — esclamò il russo, sorpreso. — E per dove?
— Pel monastero di Dorkia.
— A che cosa fare?
— Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. —
Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato.
— Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia, — disse con voce acre. — Perchè non viene lui qui?
— Io non posso altro che obbedire, — rispose il monaco. — È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri.
— Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni.
— Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia, — rispose il Lama.
— Ce lo promettete?
— Ve ne dò la mia parola.
— Come andremo noi a quel convento?
— Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta.
— Chi l’ha avvertito che noi siamo scesi qui?
— Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un’aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. —
Fedoro tradusse a Rokoff l’esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni.
— Se ci rifiutassimo? — chiese il cosacco.
— Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia?
— Sicchè non ci rimane che obbedire.
— Purtroppo Rokoff.
— Ah! Diavolo! Mi pare che quest’avventura s’imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri?
— O fare di noi dei Budda viventi? — disse Fedoro.
— Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci.
— Dunque? — chiese il vecchio, con una certa ansietà.
— Siamo pronti a seguire la scorta, — rispose il russo. — Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni.
— E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero, — rispose il monaco, con un sospiro. — Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. —
Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo:
— Spero di rivedervi presto: che il grande Budda, vostro padre, vegli su di voi.
— Vi promettiamo di tornare, — rispose Fedoro. — Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia.
— Saranno miei ospiti. —
La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d’aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere nè gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, nè i freddi intensi degli altipiani.
Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Budda.
Il comandante della scorta, un montanaro d’aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese:
— Ricevete fin d’ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d’ospitarvi. —
Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire.
I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni.
— Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti, — disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo.
La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file.
La notte era orribile, essendo l’uragano tutt’altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, non ostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai.
Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d’acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri.
Sopra, l’immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce.
— Bella notte, per farci fare un viaggio, — disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. — Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto.
— Non mi stupirei se ciò ti toccasse, — rispose Fedoro. — Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano.
— Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo?
— Io sospetto invece qualche cosa d’altro.
— Ossia?
— Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo.
— Che questi signori monaci abbiano l’intenzione di tenerci prigionieri?
— Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Budda viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, nè sono mai stati veduti volare sul dorso d’un uccello.
— E noi ci lascieremo sequestrare tranquillamente?
— Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna.
— Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia, — disse Rokoff.
— Un figlio di Budda che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non ischerziamo coi Tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano.
— Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri?
— Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto.
— E se fosse morto? —
Fedoro non osò rispondere.
Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor.
I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un’abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. [p. 275 modifica]Non interrompevano mai la loro corsa...
Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri.
Che magnifici cavalieri erano quei Tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini.
Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall’altro, durò tre lunghe ore.
Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente.
I cavalli s’arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l’altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone.
Giunti dall’altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s’innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor.
— Dorkia, — disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. — Il Bogdo-Lama vi attende. —
Note
- ↑ Paradiso.