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258 | capitolo ventinovesimo |
si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione.
— Come ti sembro? — chiese a Fedoro, che faceva altrettanto.
— Tu farai morire d’invidia tutti i Lama dei monasteri, — disse il russo. — Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d’onore.
— To! un’idea!
— Parla, Rokoff.
— Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Budda non si dovrebbe negarlo.
— Penseremo a questo dopo la cena.
— Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d’orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene.
— Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico.
— Eh! Forse che i Tibetani vivono d’erbe cotte? Rinuncio fin d’ora a diventare il superiore d’un convento.
— Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l’anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana.
— Non ti capisco, Fedoro, — disse Rokoff.
— Ignori dunque che i buddisti credono che l’anima d’un defunto s’incarni subito nel corpo d’un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti.
— Sicchè qui le bestie si lasciano vivere.
— Finchè muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni.
— Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi?
— Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli.
— Procediamo a una visita e facciamo la scelta. —
Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d’argento e il cosacco dovette convincersi che non v’era nemmeno l’ombra d’una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d’arrosto.
Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell’orzo