I Figli dell'Aria/30 - Il monastero di Dorkia
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CAPITOLO XXX.
Il monastero di Dorkia.
Come abbiamo già detto, il monastero di Dorkia è il più celebre di tutti quanti sorgono sui promontori del lago sacro, perchè è sede d’un Bogdo-Lama, ossia d’una specie di pontefice che porta il titolo di Perla dei sapienti, potente quasi quanto l’altro che risiede nell’altro famoso monastero di Tascilumpo, che si chiama invece il Dalai-Lama.
Questi due pontefici sono i custodi della religione e sono venerati per i lumi della loro scienza, ma non hanno che un potere limitato, spettando il diritto di governare al Grande Lama, il cui nome significa Perla dei vincitori e anche dei re.
Il Dalai-Lama di Tascilumpo è indubbiamente più venerato e molto più potente del Bogdo-Lama di Dorkia; non di meno anche questo gode grande fama, dominando la regione in cui si trova il famoso lago sacro.
Il monastero che si presentava agli sguardi stupiti di Fedoro e del cosacco, era degno della sua fama. Era un insieme di costruzioni enormi, con in mezzo un tempio a quattro piani, sormontato da una cupola colossale, coperta di foglie d’oro e sorretta da un numero infinito di colonne del pari dorate.
Terrazze ampissime s’estendevano tutto all’intorno, cinte da balaustrate di pietra e già piene di monaci in attesa dell’arrivo dei due figli del cielo. Ce n’erano delle centinaia, con lunghe tonache di feltro bianco e nero che il vento, sempre impetuosissimo, scompigliava con un effetto fantastico.
I tam-tam sospesi alle diverse parti del monastero squillavano fragorosamente sotto i colpi precipitosi dei martelli, destando l’eco delle immense montagne che giganteggiavano dietro al lago, mostrando le loro punte aguzze coperte di nevi e i loro fianchi ingombri di ghiacciai.
Il capo della scorta si era fermato dinanzi a un’ampia gradinata che metteva a un vasto edificio di stile cinese, coi tetti doppi e che finivano, agli angoli, in punte arcuate, adorne di campanelli che il vento sbatacchiava con un tintinnìo assordante.
Fedoro e Rokoff, ancora abbagliati dalla magnificenza di quel monastero, si erano decisi a scendere da cavallo e a salire la gradinata, passando fra due ali di monaci che si curvavano fino a terra.
Dinanzi alla porta dell’edificio, circondato da altri monaci, un uomo dalla lunga barba nera, che gli scendeva fino a metà del petto, coperto d’un’ampia tonaca rossa e che aveva al collo grossi monili d’oro, pareva che li aspettasse per dare loro il benvenuto.
— Che sia il capo del monastero? — chiese Rokoff, che si sentiva scombussolato da quel ricevimento che sorpassava tutte le sue previsioni.
— È la Perla dei sapienti, il Bogdo-Lama, — rispose Fedoro.
— Come ci accoglierà? Mi sento indosso un certo malessere che si direbbe paura. Se indovinasse in noi degli europei?
— Taci, Rokoff; mi fai venire la pelle d’oca.
— Non perderti d’animo e dalle da bere grosse, a quella Perla dei sapienti. Se potessi parlare correntemente il cinese, improvviserei un discorso tale da farlo piangere, mentre...
— Zitto. —
Erano giunti sulla cima della gradinata.
— Fa come faccio io, — disse Fedoro, rapidamente.
Il Bogdo-Lama e i due europei si guardarono per parecchi istanti in silenzio, mentre tutti i monaci cadevano al suolo toccando le pietre colla fronte e sporgendo, più che potevano, le loro lingue, poi il grande sacerdote fece alcuni passi, inchinandosi profondamente.
Fedoro ritenne opportuno rispondere con un altro inchino, meno deferente però nella sua qualità di figlio di Budda, subito imitato da Rokoff. Poi il Lama prese per mano i due europei e li introdusse nel tempio, fermandosi dinanzi a una gigantesca statua del Dio, simile a quella che già avevano veduto nell’altro monastero e pronunciò delle parole che nè Fedoro, nè Rokoff riuscirono a comprendere.
Ciò fatto li condusse attraverso una galleria le cui pareti erano coperte da paraventi ricamati in seta e oro, d’una finitezza e d’una bellezza meravigliosa, ed entrò in un’immensa sala illuminata da una specie di lucerna di talco e circondata da divani di seta azzurra e bianca, ricamati in argento.
Anche le pareti erano coperte da arazzi di manifattura cinese e il pavimento di tappeti del Kascemir a mille colori.
Tutti i monaci si erano arrestati sulla porta, continuando gl’inchini e salmodiando, a mezza voce, delle preghiere.
Fedoro e Rokoff, quantunque facessero sforzi sovrumani per apparire tranquilli, si sentivano tremare non solo il cuore, ma anche le gambe e si chiedevano ansiosamente come sarebbe andato a finire quel ricevimento e come avrebbero potuto sostenere dinanzi alla Perla dei sapienti, di essere veramente degli esseri superiori, dei figli della grande divinità.
Si guardavano l’un l’altro con occhi smarriti, maledicendo in loro cuore quell’uragano che li aveva precipitati nel lago sacro, invece che in qualche bacino deserto.
Il Bogdo-Lama lasciò che i monaci sfilassero dinanzi alla porta, poi, quando se ne furono andati, fece sedere i due europei su un divano, pronunciando alcune parole che Fedoro non riuscì a capire.
Non ricevendo risposta, il Lama si lasciò sfuggire un gesto di sorpresa. E infatti il sapiente doveva ben stupirsi di non farsi capire dai figli di Budda. Trovava certo strano che non parlassero il tibetano.
Fortunatamente Fedoro non aveva perduto completamente il suo sangue freddo. Comprendendo che stava per tradirsi, giocò risolutamente d’audacia.
— La Perla dei sapienti ha parlato una lingua che noi non possiamo capire, — disse in cinese. — Non deve stupirsi, perchè noi eravamo stati incaricati dallo spirito divino che regna nel nirvana, di visitare i monasteri buddisti della Mongolìa e non già quelli del Tibet. In quattro siamo discesi dal cielo con diverse missioni e quello che doveva qui venire, non è ancora giunto.
— E perchè vi siete spinti fino qui? — chiese il Bogdo-Lama rispondendo nell’eguale lingua.
— Volevamo venire a vedere il lago sacro e ritemprarci nelle sue acque, prima di riguadagnare la Mongolìa.
— Voi siete scesi dal cielo sul dorso d’un immenso uccello, è vero?
— Sì, — rispose Fedoro. — Una grande aquila, che era prima la guardiana del nirvana, un uccello terribile che è stato incaricato di difenderci dalle insidie e dalle offese di coloro che non credono in Budda e che sono i nemici della nostra religione.
— Quanto desidererei vedere anch’io quel volatile! — esclamò la Perla dei sapienti. — M’hanno narrato meraviglie della potenza di quel mostro alato; m’hanno detto che turbinava sulle ali della tempesta, lasciandosi dietro una striscia di fuoco. Solo il grande Budda poteva creare un simile uccello. Verrà qui?
— Lo aspettiamo.
— E condurrà l’essere divino incaricato di rimanere fra di noi?
— Nostro fratello verrà.
— Ha eguale potenza di voi?
— Siamo tutti eguali.
— È bianco come voi?
— Sì.
— E perchè il grande Budda che era bronzeo al pari degli indiani, ha creato dei figli dalla pelle bianca?
— Tutti nel nirvana sono bianchi, perchè la luce intensa che regna lassù, scolorisce presto gli uomini che hanno la pelle nera o bronzina.
— Budda è grande! — esclamò il Lama battendo il petto con ambo le mani. — È contento di noi?
— Se non lo fosse, non ci avrebbe mandati sulla terra a visitare i suoi fedeli, — rispose Fedoro. — Egli però vorrebbe che la sua religione si estendesse maggiormente e che si diffondesse in tutto il mondo.
— Siamo in molti.
— Non basta.
— Abbiamo monasteri nell’India, in Cina, nel Siam e anche nella Birmania e persino nel Turchestan.
— Ne vorrebbe di più.
— Ne costruiremo degli altri e manderemo i nostri monaci in altre regioni a fare nuovi proseliti.
— Ecco quel che desidera da voi il grande Illuminato.
— L’avete finita? — chiese Rokoff, che cominciava a perdere la pazienza. — Riprenderei volentieri il sonno così inopportunamente interrotto; manda a dormire quest’uomo barbuto e fagli comprendere che ci ha seccati abbastanza col suo Budda.
— Il vostro compagno parla un’altra lingua! — esclamò il Lama. — Non andrà nella Mongolia?
— No, — rispose prontamente Fedoro. — Egli è destinato a recarsi presso le tribù dei Calmucchi e dei Chirghizi, presso le quali la religione buddista non è rigorosamente osservata; ecco perchè non parla il cinese.
— E il vostro quarto fratello dove andrà?
— Nella Siberia.
— Un paese che non ho mai udito nominare, ma il mondo è così vasto! E poi noi non usciamo mai dai confini del Tibet. —
Stette un momento silenzioso, guardando ora Fedoro e ora Rokoff con una cert’aria imbarazzata. Pareva che volesse fare una domanda, ma che non osasse.
— Fedoro, — disse Rokoff a mezza voce, — sta in guardia. Mi pare che questo monaco rimugini qualche cosa di pericoloso nel suo cervello. Bada di non farti cogliere in fallo.
— Me ne sono accorto anch’io, — rispose il russo.
Il Lama, dopo aver scosso più volte la testa ed essersi lisciata ripetutamente la lunga barba, disse con una certa timidezza.
— Vorrei rivolgere una preghiera ai figli del grande Illuminato.
— Parlate, — rispose Fedoro — quantunque, prevedendo un grave pericolo, si sentisse accapponare la pelle.
— La voce del vostro arrivo deve essersi sparsa fra tutti gli abitanti e i monasteri del Tengri-Nor e domani i pellegrini accorreranno in folla a vedere gl’inviati del nostro Dio.
— Non abbiamo alcuna difficoltà a mostrarci alle turbe dei fedeli, — rispose Fedoro, credendo che tutto si limitasse a quella domanda.
— Il nostro monastero organizzerà una grande cerimonia religiosa per rendere grazie all’Illuminato d’essersi degnato di mandare qui i suoi figli.
— Diavolo, dove andrà a finire costui? — pensò Fedoro.
— Vorrei pregarvi di tenere una conferenza sui doveri dei buoni buddisti, per ispirare maggior zelo nei nostri pellegrini. Sarà un avvenimento pel nostro monastero, il quale acquisterà una maggior celebrità tale da oscurare per sempre quella di Tascilumpo. —
Altro che pelle d’oca! Fedoro sudava a freddo.
— Hai capito nulla? — chiese a Rokoff.
— Affatto, — rispose questi.
— Domanda a me di fare un discorso.
— Trovi difficile il farlo?
— Non conosco che vagamente la religione buddista. Che cosa potrei dire? Che racconti delle frottole? Non dobbiamo scherzare colla Perla dei sapienti.
— Come vuoi cavartela? Se ti rifiuti chissà che cosa potrà nascere. Per ora acconsenti, tanto per guadagnare tempo, poi vedremo.
— Il figlio del grande Illuminato accetta? — chiese il Lama.
— Sì, — rispose Fedoro, a denti stretti.
— Quale onore pel nostro monastero! — esclamò il Lama. — Poi sospirò a lungo, guardando Fedoro.
— Si prepara a darti un altro pugno, — disse Rokoff. — Lo vedo; prepara la difesa, Fedoro.
— Potessi prepararla almeno tu, questa volta!
— Io non so il cinese; non parlo che il Calmucco e il Chirghiso, — rispose il cosacco che rideva sotto i baffi.
— Ah! Se voi vorreste! — disse finalmente il Lama con un altro sospiro più lungo del primo. — Quale sarebbe l’onore pel nostro monastero!... Più nessun pellegrino si recherebbe a quello di Tascilumpo e nemmeno a quello di Lhassa.
— Con tutti questi onori chissà in quale ginepraio finirà per cacciarmi, — mormorò il povero russo, le cui inquietudini aumentavano. Nondimeno si fece animo, dicendo:
— Parlate, spiegatevi meglio.
— Rimanete sempre qui con me, — disse il Lama. — Faremo di voi due Budda viventi, due vere incarnazioni del Dio.
— È impossibile! — esclamò Fedoro, spaventato.
— E perchè?
— Siamo attesi in Mongolìa e in Siberia.
— I Mongoli e i Siberiani potranno farne a meno di voi, — rispose il Lama, con una certa durezza che sconcertò il russo. — La vera religione buddista è qui, non fra quei selvaggi, ed è sulle sacre rive del Tengri-Nor che viene più scrupolosamente osservata.
— E se nostro padre non lo permettesse?
— Budda è grande e ama i suoi adoratori, potrebbe lui scontentarli? Noi raddoppieremo le preghiere e i sacrifici e sarà contento.
— Ciò che voi ci chiedete non sarà mai possibile, — rispose Fedoro, con voce recisa. — Noi dobbiamo compiere la nostra missione.
— E se i montanari si opponessero alla vostra partenza? — chiese il Lama. — Come potrei io impedirlo? Non ne avrei l’autorità.
— Voi, un Bogdo-Lama! — esclamò Fedoro. — Un pontefice della religione a cui tutti i fedeli debbono obbedienza?
— Sono molti e quando vogliono una cosa nessuno potrebbe più domarli. Pensate che io non ho forze da opporre loro.
— Minacciate di scomunicarli e di scatenare tutti i fulmini del grande Budda. —
Un sorriso un po’ beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama.
— Vedremo, — disse poi — spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Budda viventi. —
Si era alzato.
— Sarete stanchi, — disse.
— Molto, — rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante.
— Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finchè si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Budda viventi.
— Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri-Nor, dell’accoglienza fatta ai suoi figli. —
Il Bogdo-Lama s’accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d’argento.
Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s’inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi.
— Siamo finalmente liberi? — chiese Rokoff. — Se la durava ancora un po’, perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba.
— Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Budda viventi, — rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte.
— Di Budda viventi? Che cosa dici, Fedoro? —
— Taci per ora. —
Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili.
— Come sono cerimoniose queste persone, — brontolò il cosacco — comincio ad averne fino ai capelli. —
Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d’eguale stoffa e colla vôlta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore.
All’estremità s’aprivano due porte che pareva mettessero in altre sale o in altre stanze. Un dolce tepore regnava là dentro, non ostante la vastità dell’ambiente.
— Il vostro appartamento, — disse uno dei quattro monaci, in lingua cinese. — Tutto quello che potrete desiderare vi sarà recato; basta battere il gong sospeso alla porta.
— Una bella prigione, — disse Fedoro, volgendosi verso Rokoff, mentre i monaci uscivano.
— Una prigione! — esclamò il cosacco. — Come! Questi bricconi osano mettere in gabbia degli uomini scesi dal cielo?
— Faranno di più, mio povero Rokoff.
— Che cosa vuoi dire?
— Che noi stiamo per diventare dei Budda viventi.
— Ne so meno di prima.
— Non hai mai udito parlare dei Budda che vivono?
— Niente affatto, Fedoro. Mi spiegherai ciò dopo colazione. L’aria del lago mi ha messo indosso un appetito indiavolato. Non so più dove sia andata a finire la cena che ci ha offerto l’altro monaco.
— Tu scherzi?
— Vorresti vedermi piangere?
— Rokoff la va male.
— Perchè vogliono fare di noi dei Budda viventi? Se così fa piacere a loro, lasciali fare amico mio. Purchè non ci impalino o non ci gettino in qualche cantina piena di scorpioni, non vi è motivo di spaventarci.
— Non sai tu che cosa sono i Budda...?
— Persone che mangiano e bevono al pari di tutti gli altri mortali, a quanto suppongo.
— Se non vengono strangolati.
— Eh! Che cosa dici, Fedoro? Vuoi guastarmi l’appetito?
— Non ne ho alcun desiderio. E poi, come me la caverò colla predica che devo tenere ai fedeli? Io che conosco così poco la religione buddista! Sarà una catastrofe completa.
— Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato?
— Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti.
— E perchè non ci ha scacciati come impostori?
— Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini.
— E gli abitanti?
— Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama.
— E come te la sbrigherai colla predica?
— Non lo so, Rokoff.
— Chi è, innanzi tutto, questo signor Budda?
— Un saggio, un illuminato nato a Ceylan che creò una nuova religione, non so precisamente se per convinzione o per detronizzare la triade indiana di Brahma, Siva e Visnù.
— Un brav’uomo?
— Certo, perchè predicò la pietà verso il prossimo non solo, bensì anche verso gli animali.
— Allora dirai che il paradiso di Buddha è pieno d’asini, di cavalli, d’insetti, di balene... un vero serraglio.
— Ah! Rokoff.
— Non preoccuparti. Facciamo colazione e vedrai che dopo riempito il ventre le idee scaturiranno in tale abbondanza da fare un predicone. Ah! se conoscessi il cinese vorrei far stupire perfino la Perla dei sapienti. Ci metterei perfino dentro il Don e i cosacchi delle steppe. Combineremo tutto insieme e...
— Ci farai prendere a legnate.
— E noi risponderemo a calci. —
Rokoff s’alzò e percosse furiosamente il gong, gridando:
— La colazione pei figli di Budda e per oggi non seccateci più le tasche. Siamo occupati a pregare Domeneddio, cioè no, l’Illuminato. —