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i buddisti del tengri-nor | 253 |
Rokoff, Fedoro e la loro scorta percorsero cinque o seicento passi, salendo di quando in quando delle gradinate, poi giunsero dinanzi a una porta dal cui stipite pendeva un tam-tam.
Il monaco dal monile staccò una piccola mazza di legno e percosse tre volte l’istrumento, facendo vibrare il bronzo, il cui suono si propagò lungamente nell’immenso corridoio, svegliandone l’eco.
— Dove ci conducono? — chiese Rokoff a Fedoro.
— Dal capo della comunità, suppongo, — rispose il russo.
— Un personaggio importante?
— Quasi quanto il Dalai Lama di Lhassa, se questo è veramente il celebre monastero di Dorkia.
— Come ci accoglierà?
— Come figli di Budda o santi per lo meno. Ti pare che non debbano prendere per tali degli uomini che volano fra le nubi sul dorso di un’aquila gigantesca?
— E ci spaccieremo veramente per esseri superiori?
— E perchè no?
— E se l’avventura finisse male?
— Sapremo cavarcela alla meglio. Lascia fare a me, Rokoff. —
La porta si era aperta e i due europei erano stati introdotti in una vasta sala illuminata da parecchie lanterne, colle pareti tappezzate da bellissime stuoie dipinte e il pavimento coperto da tappeti di grosso feltro nero che attutivano qualsiasi rumore.
Nel mezzo giganteggiava una statua di Budda in argilla, e coperta da pezzi di carta dorata.
Il Dio stava seduto colle gambe incrociate alla moda dei turchi, colle mani strette sul ventre e aveva al collo un numero infinito di collane d’oro e di perle di vetro. Sulla testa portava una specie di calotta dalla quale pendeva una lunga coda di cavallo bianco.
Rokoff e Fedoro avevano appena girato uno sguardo all’intorno, quando da una porticina nascosta da una tenda, uscì un monaco di statura superiore agli altri, molto vecchio, col viso rugoso, quasi incartapecorito e con una barbetta rada interamente bianca.
Indossava un’ampia tonaca di feltro, con maniche larghissime e sulle spalle, tenuta da un fermaglio d’oro, portava una specie di mantellina bianca che ricadeva in larghe pieghe fino sotto la cintura.