Gli amanti/La veste di seta (Madame la marquise)
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LA VESTE DI SETA
(Madame la marquise).
Nel mese di aprile, come rifiorivano le rose, nella piccola, irrequieta e capricciosa testina di Emma Lieti sorse un'idea che le parve subito di un'altissima importanza. Nell'improvviso eccitamento, ella scompigliò con mano distratta la fine aureola dei suoi bei capelli biondi, strinse nervosamente il laccio d'oro che le serrava alla persona la sua vestaglia di lana color avorio e fece l'invocazione suprema, cioè chiamò la cameriera. Questa Cristina, la cameriera, assai stranamente occupava un posto saldo e durevole nelle mobili simpatie e nelle fugaci tenerezze della padrona: molte cose e varie persone eran tramontate nella vita di Emma Lieti, senza ribellione sua e senza rimpianto, ma Cristina, la cameriera, restava all’orizzonte da varii anni e un poeta di stampo antico avrebbe detto che ella non conosceva occaso. Cristina, chiamata, non accorse immediatamente: e allora, donna Emma Lieti quasi si sospese al cordone del campanello — giacché ella odiava esteticamente i bottoni elettrici — non potendo sopportare l’aspettazione. Infine, la desiderata giunse, nel suo vestito nero, nel suo gran grembiule di batista bianca guarnito di merletti, e con la sua aria indifferente e stanca.
— Scusi, signora: ero dietro a riporre della biancheria negli armadii.
La biondina andava su e giù, sempre inquieta, battendo sui tacchetti d’argento delle sue scarpette bianche, di un bianco d’avorio.
— Senti, Cristina, senti.... tu devi fare una gran cosa....
— Eccomi qua.
— Tu devi cavare dagli armadii, dalle casse, da dovunque si trovano, i miei vestiti di primavera e d’estate, dell’anno scorso.... Tutti, tutti! E anche i mantelli, le mantelline, le sciarpe, i cappucci; e anche i cappelli, gli ombrelli, i ventagli.... quanto mi è servito, l’altr’anno, dal maggio a settembre..., hai bene capito?...
— Ho capito.... dove metterò tutta questa roba?...
— Nel salone, sulle poltrone, sui divani, sulle sedie, come in una esposizione, così io potrò veder tutto.
— Ci vorrà del tempo, signora.
— Senti, Cristina, tu devi far questo per questa sera. Io ho bisogno urgente di sapere quello che ho di buono, ancora, quello che debbo smettere e quanti vestiti nuovi mi sono di assoluta necessità. Va là, che vi sarà una larga parte per te: mi rammento di non aver conservata troppa roba. Questa sera, Cristina....
— La signora sarà servita — disse la cameriera, senz’apparire lusingata dalla promessa, a cui teneva molto invece.
— Capisci, Cristina, che soltanto questa sera, io ho un po’ di tempo, per questa rivista. Sono sola, non vado in teatro e dopo pranzo non verrà nessuna visita: speriamolo! Non vorrei esser disturbata in questa faccenda che è molto grave. Nel caso, farai dire che sono uscita.... debbo risolvere il mio grande affare e non voglio seccatori....
Tutta la giornata Emma Lieti non pensò che alla rivista della sera, con una sottile ansietà che aumentava il suo piacere. La frivolissima donna aveva sempre provato, da giovinetta, le più vivide sue gioie al contatto di un vestito, all’aspetto di un cappellino, innanzi a un mantello di forma originale: e la sua gioia ne domandava subito il possesso, tanto che ella aveva un numero strabocchevole di abiti, di cappelli, di mantelli e non desiderava altro che di aumentare questo numero, e il solo aprire una scatola, una cassa, un armadio le dava un sussulto di voluttà. Biondina, pallidina, non magra, anzi rotondetta, ella si facea rosea, toccando una stoffa, abbassando gli occhi sovra una vetrina, guardandosi in uno specchio, con una veste nuova. E le sue vesti erano sempre nuove: ella non aveva il tempo di affezionarsi a nessuna di esse, che la smetteva: le sue amiche povere, Cristina, tutte le famigliari di casa, ricevevano dei doni insperati e superiori alle loro aspirazioni: il guardaroba era sempre pieno zeppo di vesti, e ogni tanto Emma Lieti scrollava la testolina pensando che mai si sarebbe interamente disfatta dei suoi vestiti vecchi che aveva indossato quattro volte! Specialmente quelli da ballo che non si sciupano mai, restavano sospesi in lunga fila, nei loro sacelli di percalla, vedendosi solo il corpetto di stoffe delicate adorno di molli trine, col cordoncino raccolto in una matassina: ogni anno, altri vestiti da ballo venivano a raggiungere quelli antichi e la fila cresceva, cresceva. Giammai, schiudendo le grandi porte del guardaroba, guardando quei sacelli dove erano raccolti gli strascichi sontuosi sulle sottogonne ricche di merletti, Emma Lieti pensava di farsi un vestito di meno, di portare, magari rifatto, il vestito dell’anno prima. Questo, lei, giammai! Era nata frivola, prodiga, adoratrice di tutte le fallaci bellezze della moda, così morrebbe.
Ora, con quell’ordine dato a Cristina, Emma Lieti si era procurata una buona serata. Dopo aver pranzato nella gran sala da pranzo, adorna austeramente nello stile di Enrico II e a cui dava risalto un gran quadro d’animali di Rosa Bonheur, dopo aver preso il caffè, tutta sola, nel suo salottino personale dove una stoffa Pompadour alle pareti e sui mobili s’intonava così perfettamente con la sua bellezzina bionda e pallidetta, con la sua grazia un po’ minuta, ella si levò e passò nel grande salone da ballo, bianco e oro, dove le laboriose e sapienti mani di Cristina avevano disposto tutti i vestiti di primavera e di estate dell’anno prima. Con quella preziosa cura che le assicurava il costante affetto dell’incostante Emma Lieti, Cristina vi aveva unito tutto, persino le scarpette da ballo estivo e da campagna, persino i costumi del bagno, persino il cappelletto delle escursioni in montagna. Ed entrando, per avere una impressione generale, Emma che era abbastanza miope, coi suoi occhi bigi e carezzevoli nel loro sguardo un po’ vagante, non adoperò l’occhialino; ed ebbe un moto di piacevole stupore. Sette od otto candelabri accesi versavano la loro piena luce sui vestiti, sui mantelli, sui mille complementi della beltà femminile e tutto il salone era occupato, nella sua grandezza! Non credeva, non supponeva neppure di aver avuto e di aver cambiati tanti abiti l’anno prima, ed ebbe un senso di grazioso imbarazzo.
— Quanta roba! — mormorò, fra la giocondità e la preoccupazione.
— Ce n’è della buonissima, — soggiunse Cristina, che l’aveva seguita e che aveva sempre l’aria di dar consigli di saviezza.
— Vediamo, — disse Emma.
E schiuse l’occhialino stretto e lungo di tartaruga su cui, in cifre, di brillanti, vi era il suo motto, spagnuolo: Nada. Essa guardò intorno, pian piano, passando da un oggetto all’altro con una lentezza per lei piena di sapore. Giacchè i suoi vestiti, i suoi mantelli, i suoi cappelli, formando una così stretta parte, non solo con la sua persona, ma col suo cuore e con la sua anima, le riapparivano innanzi, non già come tanti metri di stoffa tagliati in una foggia più o meno bizzarra, ma come lembi della sua esistenza. Il vestito delle corse, dell’anno prima, era di merletto nero ricamato di pisellini di seta azzurra, sovra una gonna di raso nero e con una gran cintura di seta azzurra: in quel giorno delle corse, ella si era sentita così giovane e così gaia, e aveva dato tanto volentieri delle primole azzurre a Massimo Dias che la corteggiava così strettamente, da due mesi. Quest’anno ella avrebbe avuto un altro vestito, molto chiaro, di un verde pallidissimo, una vera audacia, per una persona bionda: e Massimo Dias era partito, dall’autunno, per l’ambasciata di Pietroburgo, dove era addetto. Quel vestito di broccati lilla, corto, ma molto ricco, era servito, l’anno prima, per assistere al matrimonio di Giovannella Casacalenda, un matrimonio di convenienza, dove la sposa era così smorta e aveva pianto nelle braccia di Emma Lieti, mentre costei si commuoveva profondamente, a quelle lacrime: il vestito restava, testimone di un minuto intenso di fraterna tenerezza, mentre Giovannella Casacalenda, ora, presa la sua decisione, era una delle rivali di Emma Lieti, nel campo della moda, e delle conquiste di società. Oh, non si faceva vincere tanto facilmente la biondina dalle manine incantevoli e dai piedini deliziosi, la piccola donna dalla testa arruffata come quella di un uccello! Ognuna di quelle vesti, di primavera, di estate, costumi di lanetta inglese da mattino, leggieri abiti bianchi da passeggiate serotine, gonne e giacchette da lawn-tennis, vestiti di merletti da visite di gala, costumi per andare in barchetta, col gran goletto aperto alla marinaia e il berretto bianco, abiti per camminare, per ballare, per salire sui monti, per fumare una sigaretta, sulla terrazza di una villa, tutti quanti, sfarzosi o eleganti, corretti o capricciosi, le rammentavano una conversazione, una figura, una parola di amore, qualche piccolo amore. Piccolissimo, anzi: come poteva andare d’accordo col cuoricino fallace di Emma Lieti, con la sua fantasia saltellante, con la mobilità invincibile del suo spirito. Un po’ di tenerezza e un po’ di flirt, ecco tutto. Poi, l’uomo partiva o la signora partiva: o egli era preso da una più viva passione, altrove, mentre ella si precipitava nervosamente in un altro capriccio, così tutto finiva, benissimo, e restava solo il vestito a ricordare che, in un meriggio sul mare, o in una sera stellata, qualcuno aveva detto all’orecchio di Emma Lieti le sacre parole dell’amore ed ella aveva udito queste parole ondeggiarle nell’anima trepidante! Un po’ sorridente, ella aveva, con le sue piccole mani, raccolti insieme un vestito di seta cruda, un costumino di lana bigia e una mantellina di merletti e giaietti neri:
— Prendi, — aveva detto a Cristina, — sono tuoi.
— Grazie, — rispose la cameriera senza troppa espansione.
— Prendi, prendi, — e con le mani prese da un tremore di generosità, le gittò sulle braccia degli altri oggetti, un cappellino, una cintura di cuoio, un ventaglio.
La cameriera ringraziava, con un principio di sorriso: s’intravvedeva in lei un’esitanza, forse un desiderio.
— Vuoi qualche altra cosa?
— La signora è così buona.... perché non mi dà quel vestito....
— Quale?
— Quello color crema, a fiorellini rosei?
E avviandosi verso una poltrona, lo indicò alla padrona. Il vestito di una seta leggiera e molle, molto fine, era fatto di una gonna con un’arricciatura, al basso; un po’ increspato sui fianchi; e il corpetto era coperto da una mantellina della stessa seta, molto arricciata. Giaceva sulla poltrona, in un mucchietto, quasi: e la mantellina pendeva sul bracciuolo, come se fosse stata buttata via. Con l’occhialino dove era scritto Nada, cioè Nulla, Emma Lieti guardò la veste di seta, mentre dalle sue labbra era sparito il sorriso e tutto il suo volto di bambola bionda e frivola, senza sorriso, pareva invecchiato, d’un tratto.
— Vede? — disse Cristina, — è tutto macchiato di pioggia.
— Sì, è macchiato di pioggia, — rispose macchinalmente la padrona.
— Ed è impossibile che lei lo metta di nuovo.
— Proprio impossibile.... — soggiunse la frivolissima donnina, con una voce immensamente triste.
- Era con quella veste di seta che Giovanni Serra, vedendola tutta bionda e gentile, tutta piccola e graziosa, tutta fine e giovanile, con un gran cappello di merletto crema, col vento che sollevava e gonfiava la molle stoffa, in quella veste le aveva dato, il più buono, il più onesto, il più innamorato de’ suoi adoratori, le aveva dato il soprannome poetico e quasi fragile di madame la marquise. Dinnanzi al tessuto chiaro e morbido su cui si delineavano delicatamente i fiorellini rosei, Emma Lieti vedeva risorgere nella sua immaginazione la sola figura degna di uomo, incontrata, nella vita, quel Giovanni Serra dai fieri occhi d’un azzurro
d’acciaio, dalla figura snella ed elegante, dai capelli che erano passati al castano: quel giovane adoratore così ardente, e così mite, così geloso e così indulgente, così austero per i terribili e continuati peccati di frivolezza che ella commetteva e così disposto irresistibilmente a perdonarglieli. La veste di seta dai tenui colori le rammentava quell'uomo che solo aveva osato rimproverarle l'infinita nullità della sua vita e la freddezza del suo piccolo cuore muliebre, e l'ipocrisia dei brevi amoretti, e la misera dispersione sentimentale della sua esistenza. La morbida veste abbandonata e sempre graziosa, su quella poltrona, le rammentava i suoi soli momenti di pentimento, la volontà, ahimè, fallace, di sottrarsi all'avidità, alla leggerezza, al capriccio. La veste esisteva, come cosa viva, come testimone quasi palpitante di un passato non lontano, ma la buona, tenera, austera voce, ecco, era taciuta per sempre e il piccolo mobile cuore era ricaduto nella frivolità e nella aridità, per sempre.
Eppure la cara piccola donna che portava così dolcemente il nome di madame la marquise aveva amato con sincerità e con profondità Giovanni Serra. Per un giorno soltanto, è vero: ma tutte le ventiquattr’ore erano state sue, di questo amante così giusto e così misericordioso, così appassionato e così leale. Per mesi e mesi, per un lungo volger di tempo, Giovanni Serra aveva amato invano, sentendo volta a volta la tenerezza, la pietà e il disgusto per quella creatura che nulla aveva di stabile e nulla di serio, in sè, per questa leggiadra donnina che aveva una volubilità disperante, per quest’anima senza forza e senza nobiltà: ma niente, niente aveva potuto distaccarlo da una immagine così seducente, da un fantasma così infinitamente caro. Paziente, amoroso, Giovanni Serra aspettava sempre che una grande ora venisse, un’ora trasformatrice che fondesse l’impuro metallo dell’anima di Emma Lieti e rigettandone le scorie, ne traesse il divino gioiello dell’amore; mentre la capricciosa donnina seguitava a cambiar vestiti, ad amoreggiare superficialmente, a flirtare, a mutar cappellini, mentre ella sorrideva e rideva di lui, chiamandolo l’homme qui attend. Una sublime speranza, certo, sosteneva il cuore di quell’uomo, giacchè cento volte egli avrebbe dovuto ritrarsi, ributtato da quella civetteria vibrante e pur glaciale, da quell’abbandonarsi, anche di passaggio, a tutte le parole d’amore mormorato, da quell’impiccolirsi nel continuo variare di vesti, di foggie, di mode.
Nè questa sublime speranza era un inganno; poichè in un giorno inaspettato, impreveduto, madame la marquise fu quella che aveva per tanto tempo invocata e desiderata Giovanni Serra e in quel giorno ella lo amò, con tutto il suo cuore, con tutta sè stessa. Non più di un giorno: ma completamente, come per una vita intiera.
Sola nella gran luce del salone, Emma Lieti si chinò a toccare la veste di seta, quasi fosse un talismano. Ella portava quel vestito, nel gran giorno, quando egli era giunto alla Villa delle Rose, in un’alba di maggio. Ella gli era andata incontro nel viale tutto imperlato di rugiada e vedendolo apparire, aveva sentito un sussulto ignoto: con gli occhi, Giovanni Serra le aveva domandato se eran soli: sorridendo, senza parlare, ella aveva risposto di sì: e sotto gli ontani verdi egli aveva abbracciata madame la marquise che rideva teneramente. Ah in quel momento, ella sentì che tutte le istorie amorose e appassionate non erano una fola di scrittori, come aveva sempre creduto. Per la giornata odorosa di maggio, nel giardino come alla campagna, nella casa magnifica, come in una capanna, ella restò attaccata a lui, con un abbandono della sua piccola persona al saldo braccio di colui che l’amava. Emma Lieti ebbe, negli occhi, nel sorriso, nella voce, negli atti, la manifestazione di un’anima tutta nuova e fresca, una bontà amorosa, una dolcezza amorosa, una fiducia amorosa, un’infinita tenerezza amorosa che giammai erano esistite in lei.
Quello che disse, quello che fece, ogni sua manifestazione portò il suggello divino che solo gli amanti riconoscono e che gli indifferenti invidiano: l’impronta indelebile della passione, unica e viva. Insieme, andarono lontani, nella campagna, e ella non temette di guastare le sue deliziose scarpette dalle fibbie antiche, né di impolverare le sue fini calze di seta donde traspariva il roseo del piede: madame la marquise rideva degli spini, della polvere, delle pietre, mentre il suo amante fremeva di gioia a quel riso e baciava la cara piccola donna sotto gli alberi frementi al ponente che veniva dal mare. Poi, le nuvole si addensarono un poco: il cielo si oscurò: essi, ridendo, amandosi, adorandosi, crearono un ricovero di una capanna dal tetto sfondato: ma ne uscirono subito, per correre sotto una grande quercia: pure, la pioggia li colse e tutta la veste di seta fu bagnata. Madame la marquise fu così lieta e così felice per quella pioggia che le rovinava la sua bella veste e batteva i suoi piedini in terra e il suo amante, in quell’ora, credette di morire d’amore!
Tutto un giorno, ella fu sua, come egli l’aveva sognata per anni e come ella non aveva mai supposto potesse essere, tanto si sentiva indegna e fallace e perversa. Ella fu nella sua massima bontà senza perfidie, nella massima sincerità senza ipocrisie, nel massimo abbandono senza restrizioni. Giovanni Serra vide, per ventiquattr’ore, nell’alba come nel meriggio, nel vespro come nella meravigliosa notte indimenticabile, una donna nata e germogliata come un magnifico fiore, per una intensa e breve ebbrezza. Quello che vi è di amore in un lungo spazio di tempo e in cento cuori diversi fu raccolto, dalla volontà del destino, in una sola coppa, perchè egli conoscesse di non aver vissuto e di non aver amato invano. La piccola bionda pallida e fine ebbe tutte le bellezze ed ebbe tutte le grazie, senza che mai una sola traccia dell’antica donna deturpasse la divina immagine di quelle ventiquattr’ore. Ah ella ricordava, madame la marquise, di aver ricondotto l’amante suo, nell’alba seguente, dieci volte in capo al viale rorido, donde egli doveva partire, e di avergli dieci volte, trattenendolo, ripetuto le parole di Giulietta, di averlo dieci volte scongiurato di restare, mentre egli partiva, pallido, col cuore schiantato: poichè ella giurava di amarlo sino alla morte, ma l’uomo intendeva che tutto era finito.
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Ardevano i candelabri del salone. Crollata in terra, col capo perduto nelle pieghe della veste di seta, con le braccia prosciolte, madame la marquise piangeva, macchiando di lacrime la molle stoffa già bagnata dalla pioggia, nella gran giornata. Ella piangeva, inutilmente.