Gli amanti/La veste di crespo (Madame Héliotrope)
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LA VESTE DI CRESPO
(Madame Héliotrope).
L’ultimissima e febbrile eccentricità di Luisa Cima era il giapponesismo: e minacciava di superare tutte le altre a cui si era abbandonata la giovane donna, nel suo insaziato desiderio di originalità. La penultima stravaganza era consistita in una immensa, mostruosa collezione di francobolli per cui Luisa Cima aveva delirato graziosissimamente un anno, spedendo agenti in tutta l’Europa, viaggiando lei, facendo la caccia al francobollo con l’ardore più selvaggio e uscendo vittoriosa dopo le lotte più accanite con gli altri collezionisti, più o meno deliranti come lei: infine, si era stancata e aveva dichiarato che nulla è più stupido di una collezione di francobolli ed è un cretino chiunque se ne occupa. L’ultima stravaganza, per citare così le due più prossime, era stato l’alpinismo: Luisa Cima aveva trionfato della sua naturale pigrizia e, vestita di bigio, con gli stivaletti ferrati, col bastone ferrato, con gli occhiali azzurri, aveva scalato prima le altezze più facili, poi le più difficili, aveva camminato sui sassi e sul ghiaccio, aveva dormito in tutti i rifugi e segnava sul suo taccuino una delle ascensioni più pericolose, quella delle Grandes Jorasses sul Monte Bianco: dopo di che, tornata a casa, col viso escoriato dal freddo, con gli occhi ammalati di oftalmia, aveva deposto per sempre l'alpenstock e si era dichiarata un’alpinista della pianura. Ella non visse normalmente, come tutte le altre donne, che un paio di mesi e l’esistenza le parve subito la cosa più sciapita, più scialba e più soffocante. Per sua fortuna venne a salvarla dalla monotonia e dalla volgarità, questo innamoramento subitaneo del Giappone, innamoramento appena nato diventato gigante, come accadeva sempre nel temperamento eccessivo di Luisa Cima e nella sua immaginazione sempre pronta al più amabile e al più innocuo delirio.
La cosa andò così. Tornò da un viaggio intorno al mondo un ufficiale di marina, Paolo Collemagno, amico d’infanzia di Luisa Cima, e fra gli altri doni esotici che le portò, vi fu una veste di crespo, giapponese. La veste era di un colore azzurrino molto pallido, come scolorito: e vi era tessuto dentro un disegno bianco e grigio di rami, di fiori e di uccelli, molto bizzarro, come appare alle fantasie europee tutto quello che esce dalle mani degli artefici dell’Estremo Oriente. La veste di crespo aveva la forma giapponese, perfetta: aperta innanzi, s’indossava come un accappatoio, incrociandosi poi, sul petto, con due risvolti, e riaprendosi un pochino, verso i piedi, facendo un po’ di strascico rotondo e stretto, dietro. Alla cintura si serrava con una larga fascia che girava due volte intorno alla persona e che si annodava dietro, con un gran ciuffo. Ma le più strane e seducentemente strane erano le maniche, larghe, di una forma fra quadrata e triangolare, che si sollevavano come ali, che rialzandosi mostravano tutto il braccio nudo e che, riabbassandosi, coprivano le mani sino alla punta delle dita. Appena ebbe questa veste di crespo, Luisa Cima corse in camera sua a provarla: trovò che essa non rassomigliava a nessun’altra veste e che era, quindi, affascinante nella sua singolarità: riapparve a Paolo Collemagno tutta rosea di gioia, gli fece tre o quattro riverenze e gli chiese, con ansietà, se ella non sembrava una perfetta giapponese. Ora, Luisa Cima era una donna di media statura, mentre le giapponesi sono piccole: aveva dei piedini lunghi e snelli, mentre le giapponesi li hanno brevi e rotondi: era pallida, sì, non tendente al giallo: aveva gli occhi larghi aperti, non così curiosamente piegati agli angoli sotto l’arco curioso delle sovracciglia. Di giapponese, veramente, ella non aveva che i capelli nerissimi. Ma Paolo Collemagno la trovò così carina nel suo improvviso appassionamento del Giappone, ella girava intorno a lui con tanta grazia di movenze, che egli non esitò un momento a giurarle che ella era la più graziosa creatura che fosse mai apparsa in uno dei sobborghi di Yeddo, in una festa di notte, coi lucidi capelli neri legati in ciocche larghe, attraversati da spilloni e farfalle, portando in mano sospesa a un bastone, una lanterna di carta. D’altronde, da vicino e da lontano, Paolo Collemagno aveva sempre avuto un debole per la sua amica d’infanzia, Luisa Cima.
— Paolo, Paolo, trovami subito un nome giapponese, — ella disse, tutta fremente della sua novella eccentricità.
— Te lo troverò, non dubitare, — egli disse, ridendo, pigliandole le piccole mani bianche che escivano dalle grandi maniche e baciandole,
Luisa Cima lo trovò da sé, il nome. In un paio di settimane, con quella facilità e quella felicità che dà la fortuna, ella aveva riempiuta la sua casa di tutti i mobili giapponesi, utili e inutili, di semplice ornamento, quasi tutti, tanto è la loro fragilità e tanto il loro criterio è solamente quello del lusso. I suoi divani erano coperti da stoffe ricamate a draghi e a vegetazioni incoerenti: le pareti erano tese di rasi dipinti dove la gru, l’animale fantastico e pur familiare ai paesi del Sol Levante, appariva dappertutto: le sue tavole, le sue scansie, le sue mensole, ogni ninnolo piccolo, come ogni grande bronzo, ogni candelabro come ogni fermacarte, era del carattere più autentico. Ella beveva del tè in una tazzina di porcellana squisita e scriveva sovra quella carta che sembra fatta di un tessuto che mai si frange. In quanto alla veste di crespo, Luisa Cima non portava che quella e nulla era più piacente che vedere fra le grandi maniche che sembrano ali, le braccia rotonde e bianche. Paolo Collemagno che, ad ogni ritorno, voleva un po’ più di bene alla sua amica, glielo diceva sempre: ella che anche lo amava, un pochino, lo udiva volentieri, ma purchè le parlasse del suo caro, del suo diletto Giappone. Pigliava per mano Paolo e, gravemente, lo conduceva ad ammirare tutti i paraventi dipinti ad acquarello, dove i fiori rosei del mandorlo mettono una eterna primavera, le doppie mensole di bambù, le scatole di lacca per i gioielli e per i guanti, quei grandi pugnali ricurvi o piuttosto sciabolotti nascosti in una guaina di avorio scolpita delicatamente, i vasi, immensi, dove appaiono processioni di piccoli galantuomini, dell’Estremo Oriente, verdi, azzurri e rossi sovra un fondo glauco e i piccoli vasi di Sahzuma sul loro fondo appannato di oro.
— Ti piace, ti piace? — gli domandava, nella sua gentile frenesia.
Egli sorrideva, contento di averle dato una febbre così mite e così interessante, e felice di vederla felice, poiché egli l’amava più di quanto credesse.
— E il nome, il nome? — le diceva, seguendola in quella vivificazione dell’esotismo più leggiadro.
— Lo troveremo, — rispondeva Luisa Cima.
Lo trovarono insieme, questo nome. Nelle sere di estate, presso la terrazza carica di gelsomini odoranti, essi avevano letto l’una accanto all’altro, con le teste che si toccavano, il libro di Pierre Loti: Japoneries d’automne. Era anche un ufficiale di marina, lo scrittore, e aveva lasciato nella patria delle persone care, eppure aveva amato il paese delle donne piccoline, degli uomini gialletti e delle casette che si chiudono e si aprono come uno scatolino di domino. E il libro era anche così triste, poichè le due nostalgie vi formavano un insieme di tristezza; e Luisa e Paolo, talvolta, si fermavano, guardandosi, colpiti dalla medesima malinconia. Si amavano un poco, ambedue: ma non lo dicevano e ciò sembrava loro anche più delizioso, in quella libertà e in quella solitudine. E lessero anche l’altro libro giapponese di Loti: Madame Crysanthème, una storia di amore lontano, fine e malinconico, di una malinconia così sottile e così penetrante che Luisa e Paolo vollero rileggerlo, la seconda volta. E subito, vedendo che molti nomi di donnine giapponesi corrispondono a dei fiori, Luisa Cima trovò subito il suo: madame Héliotrope. Il fiorellino di così chiaro viola, di un profumo carezzevole nella sua acutezza, l’eliotropio, fu il suo fiore: ed ella non firmò altrimenti, e non volle che altrimenti la si chiamasse che col nome di Madame Héliotrope. Pure, a sentirselo dare da Paolo Collemagno, ella era presa, immediatamente, da una tristezza e mormorava, in quel francese che era stato sempre la sua lingua prediletta e che rimaneva prediletta:
— Pauvre madame Héliotrope!
Ora, accadde che Paolo Collemagno era diventato molto innamorato di lei e che, non potendo più tacerlo, glielo aveva detto: ell’aveva ascoltato questa confessione di un sentimento che già conosceva, con un misto di allegria e di mestizia. Anche ella era innamorata di Collemagno, ora più di prima. Prima, prima, quando eran giovanissimi ambedue, ella non aveva ceduto alla nascente simpatia, perchè un fidanzato o un marito che doveva partire spesso, che dovea rimaner lontano molto tempo, non le andava. Glielo aveva anche detto. O tutto o niente, in amore, come nelle altre cose della vita: ed egli si era rassegnato, tanto più che l’inclinazione non era ancora vivace, tanto più che egli adorava la sua carriera. Luisa Cima si era anche maritata, in un minuto di frenesia, con qualcuno che le pareva un uomo d’immenso talento nella politica, poichè ella, allora, non fremeva e non vibrava che per la politica. Aveva egli sofferto, colui che viaggiava nei mari lontani, quando lesse, in qualche giornale, la novella di quel matrimonio? Chi sa! Egli aveva chiesto ed ottenuto dei lunghi imbarchi, mentre, dopo tre o quattr’anni, il qualunque uomo politico di Luisa Cima moriva a Roma, in tre giorni, colpito e atterrato da una di quelle febbri mortali; e Luisa Cima che era stata una moglie stravagantissima ma fedele, era una vedova dedita a una quantità di originalità consecutive, ma senz’amanti. Lentamente, ad ogni ritorno, le relazioni fra Paolo Collemagno e Luisa Cima si erano riannodate, e solo adesso, non più giovanissimi entrambi, egli le aveva parlato di amore con vivacità, con ardore. Anche essa lo amava; sorrideva, sorrideva, mostrando i suoi denti bianchi, dicendoglielo, ma i suoi occhi erano pieni di lacrime:
— Cher Paul, madame Héliotrope vous adore.... — gli diceva, nel suo preferito francese dove aveva meno timidità a parlare di amore.
Ebbene, ella strinse con Paolo Collemagno uno stranissimo patto, senza il quale ella non avrebbe mai consentito ad amarlo. Aveva letto nel romanzo di Loti Madame Crysanthème di quelle unioni coniugali, che gli ufficiali di marina celebrano con qualcuna di quelle donnine dai piccoli occhi sorpresi e dai piccoli piedi che non sanno camminare, e che durano tutto il tempo della loro dimora a Nagasaki o a Yokohama: dopo, la nave da guerra riceve l’ordine di partire, gli sposi si separano, per non rivedersi mai più, senza lacrime e senza sospiri. Non è questo il fondamento del romanzo di Loti, di un sapore così orientalmente mesto? Metà scherzando, metà sul serio, ella propose la medesima cosa a Paolo Collemagno, come se si trovassero laggiù, in una di quelle minuscole case di legno bianco, il cui solo ornamento è una stuoia intrecciata e una scatola di tè; metà sul serio, metà scherzando, egli disse di no, ella non era mica una minuta e vezzosa e leziosa giapponesina, da prenderla e lasciarla dopo sei mesi; e subito, molto sul serio, ella andò in collera, dichiarando che non se ne faceva niente. Ella si sentiva madame Héliotrope sino alla punta delle unghie: e voleva esser come quelle: se no, no. D’altronde — e qui egli intese che vi era di segreto spasimo, in quel patto — ella non voleva legarsi per sempre a un uomo che doveva partire, che doveva restare lontano. Meglio prendere l’amore in ischerzo, allora, come al Giappone; meglio combinare un piccolo romanzo senza seguito. Così, più tardi, quando l’ordine di imbarcarsi sarebbe venuto, non avrebbero sofferto nè l’uno nè l’altra e ognuno avrebbe serbato un dolce ricordo.
Ahimè, egli fu debole e consentì, poichè l’amava moltissimo, poichè l’aveva sempre amata, nel fondo dell'anima, e aveva sognato solo di lei, nei lunghi anni di viaggio! Egli fu debole perchè l’adorava e perchè ella era irresistibilmente adorabile, e perchè, infine, egli si sentiva amato. Qual uomo, di fronte al compenso supremo, non accetta qualunque patto, col segreto desiderio, con la segreta speranza che il patto, per il destino, per la volontà istessa dell’amata, non si mantenga? Egli accettò l’amore come glielo offriva la deliziosa madame Héliotrope avvolta nella sua veste di crespo di un azzurro scolorito, coi suoi bei capelli neri rialzati a larghe e lucidissime treccie fermate da spilloni a farfalla: egli l’amava troppo, per non accettare tutto, dalla diletta donna.
Quanto tempo trascorse, così, nella casa dove l’arte dell’Estremo Oriente creava a colui che vi aveva viaggiato, tutto un sogno, tutta una visione lontanissima? Del tempo. Luisa Cima tenne lei, meglio, il patto, poichè ella amò con maggior convinzione e con maggior profondità, forse. Gli è che Paolo Collemagno, innamoratissimo come era di madame Héliotrope, non temeva la sua partenza. Egli sapeva che il patto di lasciarsi, di dividersi per sempre, senza che nè una lettera nè una notizia dell’altro arrivasse mai all’orecchio dell’una, non poteva esser mantenuto: egli sapeva che avrebbe sempre amato la sua prima ed ultima amica, da vicino o da lontano, e che sarebbe ritornato a lei, con tutto l’ardore represso nel cuore, più tardi e sempre. Non così madame Héliotrope! Ella pareva perfettamente convinta che la loro unione temporanea sarebbe finita fra non molto per non riannodarsi più, mai più; ella si prodigava tanto e parlava del suo avvenire senza Paolo, con una perfetta disinvoltura. L’amante sorrideva e lasciava l’amata al suo gentile e ostinato capriccio. Quando due si amano, nulla li divide, neppure la loro volontà: e il patto sarebbe caduto. Così, madame Héliotrope era più ardente, più appassionata, più intiera, nell’amore che doveva avere una tanto breve scadenza: mentre Paolo Collemagno amava meno, sapendo, di dover amar sempre.
E l’annunzio della partenza fra un mese, fu accolto da madame Héliotrope con un pallore mortale, quasi la vita le fosse venuta a mancare: mentre Paolo Collemagno, benchè triste, era rianimato da una speranza costante e invincibile. In quel mese cette pauvre madame Héliotrope, come si chiamava da sè Luisa Cima, fu di una dolcezza snervante, di una vivacità nevrotica, di un languore dolente e tetro, dove si riflettevano le alternative di un’anima che soffriva nella sua essenza più intima. Pallida nella sua veste di crespo azzurro pallido come lei, ella restava le giornate intiere accanto a Paolo Collemagno, senza parlargli, tenendogli la mano, fumando qualche sigaretta oppiata per calmare i suoi nervi, dicendogli di tacere ogni volta che apriva la bocca. Egli voleva parlarle d’amore, dirle che quel patto non sussisteva, che egli l’avrebbe portata con sè, l’immagine cara, lontano lontano, che sarebbe ritornato a lei, più innamorato di prima, giacchè egli l’amava per la vita e per la morte: ma appena egli cominciava questo discorso, ella si turbava talmente, che Paolo non osava continuare. Dei due, ella affettava una tristissima gaiezza, o una forzata indifferenza, o una glacialità tetra; mentre egli aveva la tristezza semplice di chi soffre, ma non è senza speranza. Madame Héliotrope tenne la sua parola. Ella non pianse e non sospirò: ma il suo pallore faceva paura, nella sua bizzarra veste di crespo che pendeva come un cencio, sul corpo abbandonato: e le povere braccia appena ebbero forza di sollevarsi dalle grandi maniche, per l’ultimo abbraccio.
— Fini, l’amour — ella balbettò, mentre egli spariva.
Il viaggio della corazzata dove era imbarcato Paolo Collemagno durò più di quello che egli credesse: ma in tutte le ore di pace, in tutte le ore di raccoglimento, egli pensava alla diletta donna, lasciata nella patria. Il viaggio si prolungò, molto. Che importa? L’uomo era innamorato e fedele e il patto non poteva sussistere. Non le scriveva, perchè ella non aveva voluto; ma l’amava, con tutta l’anima. Non aveva sue notizie, giacchè ella non voleva dargliene: ma l’avrebbe ritrovata al ritorno! Pure, fu un viaggio così lungo! A San Paolo, egli ebbe notizie. La letterina, scritta da una mano morente, sovra tenace carta giapponese, diceva: Cher Paul, cher Paul, cette pauvre madame Héliotrope se meurt de vous....