Giovani/Vita
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Vita.
Jacopo scappò di corsa dal podere. Il cuore gli batteva forte, ed egli non poteva più respirare. Andò a fermarsi al cancello d’un altro podere dietro un muricciolo dove, se fosse stato necessario, poteva nascondersi. Ma non ebbe il coraggio di restare lì; e, dopo essersi riposato, ricominciò a correre. La strada scendeva, e il ragazzo avrebbe voluto giungere in un momento fino in fondo; dove era una siepe di bosso, alta, che egli pensava di saltare.
A una piegata, andò quasi a battere la testa addosso a un cappuccino che lo conosceva, perchè gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Il cappuccino, che si chiamava Padre Ernesto, vedendolo senza cappello e pallido, gli accarezzò la testa. Ma Jacopo fece un salto a dietro per passargli di fianco; e, dopo altri pochi metri di strada, raccattato un sasso, glielo tirò, seguitando a fuggire.
Il cappuccino, restato fermo e sorpreso, si pulì la tonaca; e poi, proseguita la sua strada più lentamente, incontrò il padre del ragazzo che teneva in mano la frusta dei bovi. Lo salutò, con affabilità ironica e forzata; arrossendo.
— Signor Minello, che fa qui al sole?
Il contadino si calcò giù il cappello, incrociò le labbra e rispose:
— Aspetto che torni il mio figliolo.
Egli non voleva farsi vedere arrabbiato da lui; perchè sentiva un rispetto involontario, che non poteva mai reprimere. Quella barba come il tabacco rosso, quasi uguale alla tonaca, gli piaceva e gli faceva lo stesso effetto come quando era ragazzo. Ma, poi, gli veniva più forte il risentimento; e, per compensare quella specie di obbedienza, bestemmiava.
Padre Ernesto era per raccontargli che Jacopo gli aveva tirato una sassata; ma, per paura che a Minello, invece di chiedergli scusa, venisse voglia d’insultarlo, pensò che era meglio dirlo alla madre. Salutò un’altra volta e riprese la strada: camminando più lesto, ora.
Jacopo aveva mangiato certe ciocche d’uva. Il padre, accortosene, lo aveva agguantato per il collo trascinandolo sull’aia vicino al carro. Poi era andato a staccare la frusta annodata a una cavicchia. Ma il ragazzo, invece di aspettare come altre volte, era fuggito. Minello, se l’avesse raggiunto, gli avrebbe rotto la schiena o le gambe. Ormai, gli veniva sempre di più quest’idea; ed egli si chiedeva perchè l’avesse gastigato sempre meno del necessario.
Non vedendolo tornare, mandò due dei suoi contadini sottoposti a cercarlo; i quali, invece, dopo un poco di strada, tornarono addietro dicendo che non lo trovavano. Ma Minello non si calmava, e si mise la frusta al collo. L’avrebbe picchiato la sera quando doveva tornare a cena; pensando che, se non tornava, avrebbe almeno dovuto stare senza mangiare.
Era un uomo alto e magro, con i baffi quasi del tutto bianchi: con la voce nasale; balbuziente; e ogni sera sempre briaco. Allora gli si gonfiava la faccia e non era possibile parlargli altro che di vino.
La moglie evitava perfino di avvicinarcisi; e, il più delle volte, andava a letto. Ma, se non era stata in tempo, vedendola egli sospettosa e scontenta, si metteva a burlarla, facendola inciampare. Oppure, prendendola per un braccio, le faceva fare una giravolta. Se, poi, si fosse messa a ridere, egli l’avrebbe rimproverata di divertirsi anche lei con il vino; e se avesse continuato a mostrare che soffriva, egli le attraventava la prima cosa che gli veniva alla mano.
— No, no! Non ti ci voglio qui! Vai, vai al letto, alla tua cuccia!
E sghignazzava; dando pugni a chiunque gli si fosse avvicinato. E sopra a tutto perdeva la testa quando trovava la moglie a pregare. Allora smaniava, si mordeva le mani; poi tornava subito indietro e la picchiava.
Jacopo aveva quindici anni, era magro e nel viso assomigliava tutto al padre. Quando succedevano queste cose, egli, poi, stava male almeno per due giorni, durante i quali non parlava altro che quando era lontano dal podere. La notte aveva attacchi di nervi, ma egli non lo diceva; e nessuno se ne accorgeva. Era diventato sempre più timido e credeva di fare sempre del male; anche quando parlava con i contadini o se ne stava lontano da tutti per conto suo. Gli parava che suo padre potesse comandare qualunque cosa, a chiunque, e sopra suo padre non c’era nessuno. Non osava nè meno guardarlo, allora.
Già pentito, correndo, di aver tirato quella sassata al cappuccino, cominciò a piangere. E quando giunse alla siepe di bosso, ci si ficcò dentro. Allora cominciò a pensare perchè anche lui non pigliava le sbornie. Sentiva che avrebbe provato chi sa quali contentezze, facendo il proprio comodo. La sua paura si tramutava in uno stato d’animo ilare; ed egli si divertiva di ciò che mezz’ora prima lo aveva spaventato. Si mise a ridacchiare da solo, immaginando suo padre com’era buffo ad aspettarlo con la frusta in mano. Stava così bene dentro la siepe, che vi s’accomodò meglio per rimanerci finchè non gli venisse a noia. Tra le radici del bosco c’era il terriccio nero, pieno di bacherozzoli e di larve; ed egli si divertiva a empirsene le mani e poi a buttarlo fuori dalla siepe. Quando tornò a casa, era addirittura allegro. Trovò il padre già barcollante, che per parlare doveva appoggiare ora un braccio e ora un altro alla casa; rigirandosi sempre per essere sicuro che non c’era nessuno accanto. Ma quando gli vide la frusta al collo, capì d’essere tornato troppo presto. Per levargliela, scherzando, fece un salto; poi si mise a fare altri salti in mezzo all’aia, schioccando la frusta dietro la fila delle anatre; che, non potendo andare troppo leste, traballavano e inciampavano. Allora Jacopo frustava le gambe di quelle cadute. Poi rimise la frusta alla cavicchia; ridendo e guardando suo padre che scuoteva la testa per celia. Ma il ragazzo non si sentiva sicuro. Infatti, entrati in casa tutti e due, Minello si mise la sua testa tra le ginocchia. Il ragazzo ridacchiava ancora, ma gli pareva che il cuore scoppiasse. Minello aveva già fatto gli occhi cattivi: si capiva bene perchè gli doventavano più limpidi e più chiari. Il ragazzo smise di ridere e cominciò a divincolarsi. Per tenerlo meglio, Minello lo prese per i capelli e con tutto il suo comodo lo picchiò a pugni su la faccia. La madre, fattasi coraggio, gli avvinghiò le braccia. Egli, allora, lasciò il figliolo e picchiò lei; cacciandola tra i sacchi del grano. Jacopo, tremando, cadde in terra con le convulsioni.
Anche fuori, faceva caldo. E c’erano, nella parte più bassa del cielo, certi nuvoloni che sembravano spuma, sempre più gonfi e più grossi; che doventavano di fuoco. La finestra era aperta, e quel silenzio che veniva di fuori fece tirare una bestemmia a Minello; come se lo avesse provocato. La moglie, Dele, tenendosi con una mano aperta i capelli che le si erano sciolti, andò in fretta in camera, prese un guanciale e lo mise sotto la testa di Jacopo. Minello gli sbottonò il panciotto. E quando il ragazzo si riebbe, lo baciò nella bocca. Dele dovette staccarlo, perchè ormai non capiva più niente.
Il giorno dopo, non s’allontanava da lui e da lei; che si guardavano contenti credendo che egli non volesse più bevere. A tavola egli disse, balbuziendo anche più del solito:
— Da oggi in poi, mettete sempre l’acqua nel fiasco del vino!
Guardò la moglie come se volesse burlarla della sua maraviglia e poi seguitò:
— Non voglio che diciate che io letico perchè bevo troppo! È una storiella che deve finire; perchè se no vi metto al posto tutti e due. Ormai, vedo che ve l’intendete contro di me. Ma giudizio vi ci vuole!
Il ragazzo sorrise, ma la donna non alzava la testa dalla scodella. Egli, allora, scuotendola per un braccio, le gridò:
— O scema, dico anche a te! Anzi, più a te che a lui!
La donna rispose, sottovoce:
— Ti ho inteso.
— Ben per te! E non me lo fare ripetere due volte.
Ella si alzò e mise l’acqua nel vino. Egli la lasciò fare e quando ella ebbe riposato il fiasco sopra una foglia di fico, perchè non si macchiasse la tovaglia, chiese:
— Dov’è il vino pretto?
— Ce n’è un altro fiasco dentro la madia.
— Va’ a prenderlo.
Dele cercava di non obbedire, e gli domandò:
— E di che ne vuoi fare?
— Credevi da vero che io volessi bere cotesta miscela? Non voglio imporrire come il legno io! Non lo sai che l’acqua fa imporrire?
Il ragazzo si alzò per andare via da tavola.
— Tu mettiti a sedere; se no, ti piglio a ceffoni. Devo chieder il permesso a te?
La donna aprì la madia e recò l’altro fiasco, tappato con una foglia di granturco ripiegata dentro. E, senza preoccuparsi delle conseguenze, gli disse:
— Bevilo! Ti faccia veleno!
Minello scosse la testa e si grattò mi ginocchio. Poi rispose, dopo un pezzo:
— Invece, farà veleno a te che non lo bevi!
— Io mi contento anche dell’acqua.
— E allora perchè metti bocca in quel che non ti riguarda? E modo di parlare cotesto? Ti dovrei insegnare io, a legnate. Ma, com’è vero Dio, te ne pentirai. Bada se una donna deve parlare così! A me!
Il ragazzo disse:
— Ha ragione la mamma!
Egli aveva ancora i nervi sconvolti, e impallidiva a ogni parola che diceva. Allora, la donna osò parlare; benchè capisse che ormai le cose andavano come il solito:
— Bada se gli tornano le convulsioni come ieri sera!
— Gliele ho chiamate io, perchè gli venissero?
Jacopo le disse:
— Questa volta, anche se fa peggio, non mi verranno.
La madre lo guardò negli occhi, con tenerezza, e si sentì forte anche lei. Minello li guardò ambedue e si mise a ridere. Allora risero anch’essi, ma senza potersi calmare. Avevano paura, pur volendo sottrarsi a lui. Non ne volevano più sapere. Ella disse:
— Io non so perchè non ci vogliamo bene.
Il ragazzo, sconvolto anche di più da queste parole, smise di mangiare; ficcandosi la punta della forchetta tra i denti, per pulirseli; ma si bucò una gengiva, che gli fece sangue. Allora andò all’acquaio; per sciacquarsi la bocca. Il padre, senza voltarsi, gli chiese:
— Che ti sei fatto?
— Niente.
— Come niente? O allora che ci fai costì?
Jacopo, tenendosi il fazzoletto alle labbra, rispose:
— Io non voglio che tu bastoni la mamma!
Dele gli disse:
— Stai zitto! Non ci pensare!
— No, non voglio! Non ti deve far male!
Egli era fuori di sè e si buttò, rotolandosi, sui sacchi pieni di grano.
Il padre lo fissò:
— Che mi vorresti fare?
Il ragazzo girò gli occhi attorno alla stanza, dov’erano gli arnesi da lavoro; e guardò lui.
— Ti ho capito, sai!
Ma Jacopo si sbatteva in terra, strappandosi di dosso la camicia.
Minello disse alla moglie:
— Fallo alzare. Non vedi che cosa fa? Poi, la camicia gliela devo ricomprare io.
La donna si mise a piangere; ed il ragazzo non levava gli occhi dal padre; che faceva finta di non vederlo. Allora, la donna disse al figliuolo:
— Esci. Vai a passeggiare su l’aia.
Egli le rispose:
— Qui sola non ti lascio!
Il contadino l’alzò di peso, lo mise fuori dell’uscio; e chiuse a chiavistello. Poi si risedette a tavola, con la testa tra le mani. La donna seguitava a piangere. Minello disse come per incolparla:
— Egli crede che io ora ti ammazzi.
— È possibile che tutta la vita io la passi così?
— E che colpa ci ho io?
— Fallo entrare quel ragazzo.
— Tu pensa per te. Perchè deve credere che io ti voglia ammazzare?
La donna rispose con un accento placido:
— Perchè è vero.
Egli empì un bicchiere di vino per sè e uno per lei. Poi riprese il fiasco ed empì anche quello di Jacopo. E comandò:
— Chiamalo.
La donna aprì l’uscio. Il ragazzo non voleva entrare, non voleva rappacificarsi. Ma ella lo tirò dentro per la camicia, dicendogli sottovoce che obbedisse. Minello, senza guardarlo gridò:
— Bevete tutti e due!
La donna e il ragazzo presero il bicchiere in mano; aspettando. Egli disse, sghignazzando e strizzando gli occhi:
— Meglio del vino non c’è niente!
E fece ubbriacare anche loro; costringendoli a bevere tutte le volte che egli beveva; perchè, se gli volevano bene, diceva, bisognava che facessero a quel modo.